- 29 Marzo 2002
Antonio Pennacchi pone dei problemi di deontologia. È uno scrittore operaio. Quello che allo Stenditoio, in mezzo al fior fiore dell’intellettualità di sinistra, ha dato una scossa a un sonnacchioso dibattito. Ha cominciato presentandosi come «leninista-marxista-stalinista». Ha proseguito dicendo che «i giudici so’ ‘na massa de fiji de ‘na mignotta». Alle rimostranze del filosofo Vattimo, ha detto: «Ah Vattimo, vedi d’annattela a pijà ‘n der culo». Quindi, dopo avere difeso D’Alema «perché è er mejo che ci avemo», ha concluso: «Tanto lo so che fate come cazzo ve pare». Immaginate il parapiglia. Fratello di Gianni (ex Servire il popolo, giornalista prima della Stampa e adesso del Giornale), fratello anche di Laura (ex sottosegretario al Tesoro con Prodi, diessina così dura da essere considerata la Thatcher Ds), Antonio usa un italiano piuttosto colorito. Che fare? Come tradurre il suo linguaggio in maniera da eliminare rischi di querele e non disturbare i lettori sensibili? Innanzitutto l’ho tradotto quasi tutto in italiano. Poi ho cassato il 99 per cento delle parolacce sostituendole con BIP, capirete perché. Quell’uno per cento che rimane, vi prego, sopportatelo. «Lei lo sa vero che io non sono molto entusiasta che lei sia qui a rompermi i BIP», ha esordito. Me ne vado? «No. Queste cose servono. Uno scrive libri e non se lo fila nessuno. Poi un giorno manda affanculo Vattimo e te vengono a cercà tutti». Pennacchi, mi sembra un po’ agitato. «Sabelli, che pretende?! Ognuno fa il mestiere suo! Lei fa l’intervistatore e io faccio l’intervistato. Avrò il diritto d’esse un po’ agitato, no?». Basta che cominciamo. «Cominciamo».
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