- 3 Gennaio 2024
Una volta era famosissimo. Era il geniale inventore di Jack Folla, il condannato a morte americano che in attesa dell’esecuzione dal carcere di Alcatraz si collegava con Radio 2 sparando a zero su tutto e su tutti. Poi fu l’autore di Celentano per il quale inventò il tormentone “rock o lento” che invase l’Italia e finì perfino nella pubblicità della Fiat. Poi fu l’autore di Gianni Morandi e fece diventare il ragazzone di Monghidoro perfido e cattivo. Nel frattempo vendeva libri a tonnellate. Poi fu abbandonato dai riflettori ed entrò nel cono d’ombra, ostracizzato dai dirigenti della Rai. Si trasferì nella campagna umbra, fra cani e boschi, solitario, in attesa di tempi migliori.
Lui è Diego Cugia. Ora risorge. Con una trasmissione sull’ambiente e sugli animali che si chiama “la Zampata” e andrà in onda su Rai 2 tutti i sabato, a partire da domani, alle 17. Sarà condotta da un cane, Pepito, che intervisterà, realmente, scrittori, psicoanalisti, intellettuali. Dacia Maraini, Francesco Montanari, il capitano Ultimo…
Di Diego Cugia hanno detto quanto di meglio. Ma anche quanto di peggio. Egocentrico, carogna, razzista.
“L’egocentrismo è un vizio che avevo. Oggi il “me” mi annoia”.
Carogna?
“Può darsi. Ma razzista mai”.
Lo scrisse Mariuccia Ciotta sul Manifesto.
“Perché Jack Folla diceva “negro”. E non “nero”.
Tu stesso hai detto di te che sei ingovernabile.
“Lo dissero due o tre direttori. Per loro era una nota di demerito. Invece era un complimento”.
Una volta hai detto che al mondo vincono i mediocri…
“i mediocri girano liberi”
Ma veramente?
“Era un rap di Jack Folla”.
Cioè?
“Diceva: i mediocri hanno occupato tutto: politica, televisioni, giornali. Tutto”.
E?
“I mediocri girano liberi come poliziotti. E se vedono passare un’idea, la sbattono dentro”.
Visione ottimistica del mondo…
“Il mio posto nel mondo l’ho trovato scrivendo parole come queste. Poi chi lo dice che il mediocre in fondo non sia proprio io? Il dubbio ce l’ho”.
Un tuo grande errore?
“Aver creduto che ci fossero tre o quattro cose che sapevo fare meglio degli altri. Mi ritenevo invincibile”.
Invece?
“Invece arriva la vita e ti dà tre o quattro sganassoni potentissimi. Proprio su quelle cose che sapevi fare”.
Una tua grande sconfitta?
“Il successo. Aver ceduto alla vanità, al denaro, al potere. Sono caduto in miseria. È stata una bella sveglia. Tanto spavento ma sono rinato. Fallire? Che fortuna!”
Da piccolo sei andato dall’analista.
“Diventavo rosso con le ragazze. Rosso rubizzo, una tortura”.
Pepito sei tu?
“Pepito è un cane libero e vagabondo che vive sotto ai ponti ed è incazzato nero per come noi esseri umani trattiamo gli animali. Pepito non è Diego Cugia con la coda”.
È un difensore dell’ambiente. Ma non è una battaglia persa?
“Le uniche battaglie che meritano di essere combattute sono quelle perse”.
Che cosa pensi della Meloni?
“Ce ne sono due: una che sbraita con gli occhi da fuori e una di governo. Ora non sbraita più, ha ceduto al potere anche lei”.
Che cosa pensi della Schlein?
“Sono contento che ci sia. Si batte per cause giuste ma minoritarie. La Meloni è sempre sul pezzo. Giuste o sbagliate dà delle risposte alla maggioranza della gente. Schlein si entusiasma solo per una frangia, la sua”.
Hai detto che l’Italia ha da dieci anni un futuro immobile. Che vuol dire?
“Vuol dire, per esempio, che se 43 anni dopo la strage di Ustica, un ex presidente del Consiglio dichiara che forse i francesi abbatterono l’aereo con un missile, senza aggiungere uno straccio di prova, e quasi tutti i giornali gli fanno un titolone in prima pagina come fosse uno “scoop”, questo è un Paese immobile e il suo futuro è in fondo a un putrido stagno non da dieci anni, ma da quaranta e passa”.
Chiamavi “pezzi di merda” i dirigenti Rai. Non era carino.
“No, non era carino, l’ha detto Jack Folla. Serviva a creare un patto di fedeltà col pubblico. Sono parole a rischio licenziamento. Dimostrano che ti stai giocando tutto. Ha funzionato”.
Per chi voti?
“Detesto chi non vota ma non so chi votare”.
Dimmi il primo pensiero rock che ti viene in mente e il primo pensiero lento.
“Lukaku è rock. Immobile è lento”.
Immobile è un grande e tu sei il solito romanista. Hai detto che i giornalisti italiani non sanno fare le domande. Chi le sa fare, esclusi noi due?
“Il nostro è il paese dei “tengo famiglia”, i nostri giornalisti non hanno le palle per fare domande”.
E chi ha le palle?
“Molti giornalisti americani fanno domande senza riverenza. Solo l’anno scorso, 68 giornalisti nel mondo sono stati
uccisi. Loro le domande le avevano sapute fare, come quelli avvelenati da Putin”.
Hai fatto diventare cattivo Morandi.
“Morandi cattivo era una bella trovata. Non se ne poteva più
dell’Eterno Ragazzone. La più bella è stata una candid camera in cui lui si portava a letto una fan, e dopo averla sbaciucchiata nella sua stanza d’albergo, moriva stecchito per un infarto”.
Diciamolo, una carognata.
“Però faceva ridere”.
Gli invisibili. Era il tuo tentativo di partito. Fallito.
“Sbagli. C’erano due milioni di persone nel 2000 pronte ad aderire a un partito di Jack Folla. Mi sono rifiutato, volevo che restasse un sogno libero, puro. Ho fondato “Gli Invisibili” molti anni dopo, quando non mi si filava quasi più nessuno”.
Non è stato un grande successo.
“Era un piccolo movimento senza una lira. Poi, anche in questo microcosmo, sono nate dinamiche di partito. Allora l’ho chiuso. Alcuni volevano che andassi in tv a parlarne, a far proseliti. Ma come? L’ho chiamato “Gli invisibili”! E vuoi visibilità?
Che percentuale di femminilità hai?
“Direi il 60%”.
Tentazioni gay?
“Io ho tutti i vizi. Non mi fisso mai su uno solo. Altrimenti si diventa viziosi”.
Mucciante, uno dei tuoi capi della Rai, disse: l’albatros era diventato un galletto da cortile.
“Come direttore di Radio2 ha avuto il merito di replicare Jack Folla. E l’infamia di aver tagliato le puntate di tre quarti d’ora riducendole a 5 minuti. Secondo te ha censurato le battute da galletto di cortile o ha tagliato le ali dell’albatros?”
È vero che essere felici è un dovere?
“Confermo. Essere infelici è facilissimo. Per la felicità ti devi impegnare. La felicità è una roba da professionisti”.
Una volta hai chiesto l’elemosina.
“Roma, piazza Irnerio. Avevo 17 anni…”
Quando andavi dall’analista…
“Ero andato a vivere da solo. Non mangiavo da tre giorni. Chiesi a una signora 50 lire per una pizzetta rossa. Me le diede. La pizzetta più croccante della mia vita”
Gioco della torre. Butti Calenda o butti Renzi?
“Calenda un po’ mi incuriosisce. Di Renzi ho capito il gioco e non mi piace”.
Conchita De Gregorio o Natalia Aspesi?
“Butto Conchita perché lei mi ha buttato fuori dall’Unità dopo avermi promesso più spazio, con tanto di pranzo al ristorante e bacetto sulle guance”.
Però ti ha dato il bacetto…
“E infatti l’ho perdonata. Ma trovo imperdonabile tutti quelli che
ti licenziano dicendoti di assumerti”.
Chi butti? Morandi o Celentano?
“Butto Morandi perché si è rifiutato di farsi intervistare dal mio cane per “La zampata”.”
Celentano si è fatto intervistare?
“A Celentano neanche l’ho chiesto”.
Angela padre o Angela figlio?
“Gli Angela sono come le patate, la parte migliore sta sottoterra”.
- 13 Giugno 2023
La più bella intervista a Silvio Berlusconi la facemmo io e Giorgio Lauro, per Un giorno da Pecora. Leggere per credere. Sembra quasi inventata. Eppure ci furono centinaia di migliaia di ascoltatori testimoni.
Gli avevamo fatto terra bruciata attorno. Silvio Berlusconi, LUI, con tutte le lettere maiuscole, “anche il puntino della “i” è maiuscolo”, diceva Giorgio Lauro. Quando ne parlavamo con qualche ospite e lo chiamavamo semplicemente “LUI”, l’ospite ci guardava incuriosito e allora io spiegavo: “LUI, lei lo conosce benissimo, è quello che ha un figlio che si chiama PIERLUI”. LUI era il nostro incubo. Lo avevamo invitato decine di volte. Direttamente, tramite Paolo Bonaiuti, il suo uomo-ombra. Indirettamente, con messaggi vocali, bigliettini, perorazioni affidate a tutti quelli che, ospiti di Un Giorno da Pecora, sapevamo che lo avrebbero incontrato. Bondi, Verdini, Zangrillo, Scapagnini, Licia Ronzulli, Biancofiore. Arrivavano da noi per raccontare la loro vita e ne uscivano pieni di pizzini. Niente, mai nessuna reazione, nemmeno un no. Sotto le elezioni intensificammo il tiro. Si sarebbe impietosito anche il mostro di Lochness. Io parlavo tutti i giorni con Bonaiuti. “Paolino, l’hai mandato da tutti, da Floris, da Vespa, da Santoro, a Radio anch’io, dalla Palombelli, a Rtl, a Rds, Rmc”. Paolino si difendeva come poteva. “Voi siete una trasmissione un po’ particolare. Comunque ci provo”. Il giorno dopo nuova telefonata. “Paolo, l’ho visto da Anna La Rosa, dalla Gruber, dalla D’Amico”. E Paolino continuava la sua arrampicata sugli specchi. Poi un giorno, leggendo il Corriere della Sera, scoprimmo casualmente che LUI stava venendo da noi. In una foto in cui LUI mostrava un tabellone con tutti i suoi impegni elettorali, in piccolo, ma chiaro, leggemmo la scritta a mano “Un Giorno da Pecora”. Non ci avvertiva quando non veniva, non ci avvertì nemmeno quando aveva deciso di venire.
Era l’11 di febbraio. Un giorno che sarebbe passato alla storia. Non per noi. Berlusconi ospite di Un Giorno da Pecora era un avvenimento importante ma non epocale. L’11 di febbraio, per la prima volta nella storia dell’umanità, un papa dette le dimissioni. Lo aveva fatto per farci un dispetto? Per attutire l’impatto mediatico della presenza di Berlusconi da noi? Comunque il giorno dopo le prime pagine erano per Ratzinger, non per noi. Mannaggia.
Silvio Berlusconi, circondato da un plotoncino di una ventina di persone, arrivò a via Asiago 10 con un po’ di anticipo, e a passo di carica. Io e Giorgio avevamo passato la notte a chiederci come mai avesse deciso di venire. Perché LUI, l’uomo che aveva permeato di sé gli ultimi trent’anni della vita italiana aveva accettato di venire da noi, rappresentanti dalla comunicazione più cialtrona al momento disponibile sul mercato? Era l’ultimo rantolo di una situazione politica ormai allo sfascio? Era la celebrazione e il riconoscimento del nostro successo? Era la sua voglia di cimentarsi in qualcosa di meno noioso dei soliti talk show, sia quelli
che lo volevano per insultarlo, sia quelli che lo ospitavano per leccarlo? Giorgio sosteneva che LUI veniva da noi perché ormai era andato dovunque. Gli mancavano solo la Santa Messa, al contrario di Bruno Vespa che era andato anche alle previsioni del tempo.
Resta che di questa giornata è giusto che si possa godere tutto. È stata una intervista che rivendico come ottima. Non gli abbiamo risparmiato nulla. E anche LUI è stato all’altezza. Bravo. Chapeau. Godetevi una delle più sorprendenti frasi a carattere sessuale mai pronunciate da LUI. È verso la fine. “Un uomo con un timbro timbra”. Lo disse sbattendo il pugno su tavolo. Ecco qui di seguito uno sbobinamento integrale. Come fosse una telefonata intercettata. Dio mi perdoni l’accostamento. Ricordo per una maggiore comprensione che io venivo chiamato “l’anziano” e Giorgio “il simpatico”. E che io davo sempre del tu agli ospiti mentre Giorgio sempre del lei. E che Supermario era il soprannome con il quale chiamavamo Mario Monti, il presidente del Consiglio. E che era l’ultimo giorno prima delle elezioni.
ANZIANO: Silvio Berlusconi! Buongiorno!
BERLUSCONI: Buongiorno a voi. Che sorpresa trovare Sabelli così giovane!
SIMPATICO: Che sorpresa lei che viene da noi. Sono anni che la inseguiamo.
ANZIANO: Silvio…
SIMPATICO: Come Silvio! Non puoi chiamare il presidente Silvio.
ANZIANO: Tu non hai idea le cose che abbiamo fatto insieme.
SIMPATICO: Che cosa avete fatto?
ANZIANO: Abbiamo cantato nelle navi, ti ricordi Silvio?
BERLUSCONI: Come no. Io cantavo lui ballava.
ANZIANO: No veramente eri tu che ballavi.
BERLUSCONI: No, io ho fatto un fioretto, ho smesso di ballare, ho smesso di fumare. Io non bevo, non fumo, non mi drogo. Ogni tanto dico qualche bugia.
SIMPATICO: Ma che sarà mai! Piuttosto ogni tanto dice qualche parolaccia.
BERLUSCONI: No.
ANZIANO: Ieri sera! Hai detto cazzata.
SIMPATICO: Grande cazzata.
BERLUSCONI: Io parlo con i miei ragazzi che vanno a scuola. Cazzata è un termine corrente.
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- 5 Maggio 2021
Vasa vasa. Ovvero Totò Cuffaro. Sì proprio lui, quel Presidente della Sicilia, abile dispensatore di baci a fini clientelari, che al vertice del suo fulgore rimase impelagato in drammi giudiziari che alla fine lo portarono in prigione. Avventura che affrontò con coraggio e dignità, senza urlare al complotto della magistratura, come consuetudine dei politici, senza scappare, come consuetudine di molti personaggi importanti, addirittura presentandosi in anticipo all’appuntamento con le sbarre prima ancora che qualcuno lo andasse a prendere. Come non fa nessuno. Io lo intervistai due volte, la prima quando era potente, prima dei processi, la seconda quando non contava più nulla, al ritorno dei cinque anni di carcere. Questa è la terza volta. Sulla elegante e moderna piattaforma di Clubhouse, nella room “Cazzoni stonati”, bene frequentata dai miei amici profondi e leggeri che mi seguono in questa rivisitazione delle vecchie interviste di una ventina di anni or sono. Rivisitazione, o meglio, intervista sull’intervista, o come l’abbiamo chiamata, “metaintervista”. In sostanza un tagliando sulle persone e sulle idee e sul tempo che passa. Le domande sono quelle di una volta ma le risposte a volte sorprendono. Cominciamo dalla caratteristica principale di Totò, il clientelismo.
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- 18 Aprile 2018
Tutto è cominciato quando Walter Veltroni ha raccontato in giro che aveva chiesto alla mia vecchia amica Siri se era di destra o di sinistra. Trovai la domanda un po’ impertinente ma quello che mi stupì fu la risposta: “Francamente me ne infischio”. E’ vero che Siri non è un essere umano, che è una signorina virtuale (oggi mancano le signorine virtuose, bisogna accontentarsi) Ma possibile che fosse così qualunquista? Ho ormai 74 anni e mi sono convinto che quelli che dicono che “destra e sinistra non esistono più” non solo sono qualunquisti, ma sono anche di destra. Non potevo rimanere nel dubbio ed ho deciso che dovevo approfondire. Non avevo altra scelta: chiedere a lei. Perché magari Siri aveva risposto così solo perché le stava sugli zebedei Walter Veltroni. E così, invece di chiederle brutalmente quale ideologia seguisse, le ho fatto una domanda interlocutori. “Siri, esistono ancora secondo te la destra e la sinistra”. Sorpresa. Siri si ritraeva. “Sei gentile a chiederlo Claudio ma quello che penso io non importa”. Oibò, ma io sono il più bravo intervistatore d’Italia, non puoi evitare la mia domanda. Vado sul pesante. “Ma tu sei di destra o di sinistra?”
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- 6 Marzo 2000
Ha cominciato dicendo: “Non ho memoria”. Poi ha ricordato episodi lontanissimi nel tempo: come un fiume in piena, perdendo continuamente il filo del discorso. Un continuo procedere per sbalzi in avanti e improvvisi ritorni. Virate improvvise, accelerazioni violente, risate squillanti. Barbara Alberti è matta, felicemente, gioiosamente pazza. Trucca il suo passato ma lo trucca in peggio. Ha pudore della generosità, dell’intelligenza e racconta tutto ciò che la fa apparire nella luce peggiore. Una forma perversa di narcisismo. Difficile starle dietro. La velocità folle delle sue frasi non è confusione, è grande voglia di comunicare, supremo trionfo del dubbio. Sfido chiunque a prendere appunti mentre lei parla. Ma il registratore mi restituisce due ore di pensieri disordinati, di domande affannose, di parole fuori dal coro: un concentrato di eresia. Cominciamo dalla rubrica di corrispondenza con le lettrici che cura da 15 anni sul settimanale “Amica”. Dice: “Ma come si fa a tenere per tanti anni una rubrica di lettere d’amore? Ci vuole una bella tempra di maniaco per non stancarsi di un rapporto così intimo e losco, da confessionale, da pisciatoio, da treno”.
Ci vuole una bella presunzione.
Ci vuole una bella faccia tosta.
Ci vuole che ci spieghi perché lo fai.
Quella rubrica è diventata parte della mia vita sentimentale. Io rispondo come risponderebbe un’amante.
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- 1 Gennaio 1999
Si sposano. Aspettano un figlio. Claudio Martelli e Camilla Apolloni Ghetti. Lui 56 anni. Lei molti di meno. Lui ex delfino di Craxi, travolto da Tangentopoli. Lei contessina. Lui al terzo matrimonio, al terzo figlio, al settimo ménage famigliare. Lei al debutto. E’ la prima volta che lo incontro. Devo parlare con lui di memoria, di voltagabbana, di gavetta, di opportunisti, di gente che cancella il proprio passato, di amici di infanzia. Ma mi viene da chiedergli di Malindi, di Craxi, di Gelli, di Calvi, di Sama, di Cusani, di Sofri. Alla fine vince la vita. E cominciamo a parlare di mogli, di figli, di matrimonio. E’ da questo matrimonio, più che dalla politica, che Martelli cerca di ripartire, dimenticando gli ultimi sette anni, “i sette terribili anni del terrore”.
Martelli, mi dice un suo difetto?
Sono disorganizzato e disordinato.
Anche nella vita sentimentale? Si rende conto che è al settimo ménage?
Camilla è una persona meravigliosa, non mi sono mai sentito tanto in sintonia con una donna in vita mia, mai. Aspettiamo un bambino. Nascerà a dicembre.
Andiamo con ordine. Mi faccia un bilancio dei suoi rapporti con le donne.
Il primo matrimonio fu frutto di una cotta da ragazzi. Daniela Maffezzoli era studentessa di liceo, io matricola all’università, ci siamo conosciuti, innamorati e sposati. Io mi misi a fare il supplente. Lavoravo anche nello studio di un avvocato, battevo a macchina, raccoglievo patate e fragole, lavavo vetri. Poi la cotta è finita ed è finito anche il matrimonio. Dopo un anno e mezzo eravamo già divisi. A 28 anni mi sono sposato con Annarosa Pedol.
La figlia del Tonno Nostromo?
Esatto. E’ stata una storia grande, vera, bella, durata 14 anni. E abbiamo avuto Giacomo, mio figlio maggiore.
Cosa le piaceva di Annarosa?
La chiamavo Annaroccia. Per la forza del carattere e quell’aria un po’ irlandese, capelli rossi, lentiggini.
E finì dopo 14 anni.
Ero stato eletto deputato, venni risucchiato dalla politica. Io vivevo a Roma e lei a Milano. Lei si dedicò al teatro. Ad un certo punto abbiamo preso atto della situazione e ci siamo separati. Un paio di anni dopo ho rincontrato un mito dei miei anni giovanili milanesi, Ludovica Barassi, ci siamo innamorati, abbiamo messo su casa, abbiamo fatto un figlio, Adriano, e siamo stati insieme cinque anni.
Che cosa le piaceva di lei?
In Ludovica forse inseguivo un po’ la mia giovinezza.
Durò solo cinque anni.
Lei era molto sessantottina, per tanti aspetti una creatura eccezionale però poi sono emerse delle incompatibilità.
Le dico alcuni altri nomi. Yvonne Sciò?
Ma no, flirtino.
Benedetta Corbi?
Flirtino.
Rosy Greco?
Storia vera, durata qualche anno. Rappresentò veramente una vampata d’allegria. E di mondanità.
E quattro. Dopo lei?
Raffaella Bozzini.
Sempre bambine se le prende.
Io sono attratto dalla giovinezza. Forse per consolarmi della mia che se ne va.
Tanto si fa fare la plastica facciale!
Ma quale plastica facciale, per amor del cielo!
Diciamo la parola definitiva su questo scottante problema.
Siamo andati, Camilla ed io, a farci ritoccare alcuni inestetismi, nessuna plastica facciale.
Vabbè. Ma che cosa sono gli “inestetismi”” Quelli suoi, intendo dire. Di Camilla non lo voglio neanche sapere. Mi pare bella abbastanza.
Avevo dei pallini di sebo, delle cisti attorno agli occhi.
Ma non erano le borse sotto gli occhi? Mi faccia vedere.
Ma no! Siccome avevo questa palpebra qua che stava precipitando, già che c’erano, me l’hanno tirata su.
Eravamo rimasti a Raffaella Bozzini, la quinta moglie.
Mamma di bellissimi bambini, editrice d’arte. E’ stato un amore molto tenero che io ho lacerato quando ho conosciuto Elisabetta Finocchi.
Ha fatto la carogna.
Beh si.
Elisabetta. La sesta. Scusi il conteggio.
Con Elisabetta è stato l’attrazione dell’opposto. Formazione scientifica, veterinaria, molto votata agli sport, estroversa. Abbiamo fatto appassionanti discussioni scientifiche
Come ha conosciuto Camilla?
Su uno scoglio dell’Argentario. Ma lei, quando era studentessa dell’università americana a Trastevere, mi vedeva sempre uscire di casa. Ero un po’ un mito della sua adolescenza.
Lei è sempre stato così tombeur de femmes?
Ero un libertino romantico: mi piaceva sfarfalleggiare, ma poi mi innamoravo. Ero un tombeur de femmes, ma anche un tombé de femmes. Era difficile stabilire il confine fra crisi ormonale ed esaltazione letteraria.
Qualche follia fatta per amore?
Scalare il terzo piano della casa della mia fidanzatina tedesca Silvia Jubellius a Düsseldorf quando avevo 19 anni, è da considerare una follia?
Sulle grondaie?
Sulle grondaie.
Senza corda né trecce?
A mani nude.
E’ una follia. Perché non è passato dalla porta principale?
Perché al piano di sotto dormivano i suoi genitori.
In quel periodo generalmente si ha anche il grande amore infelice, l’amore che ti segna.
Il grande amore infelice lo ebbi a 13 anni, in vacanza. Sara Hardemberg era una splendida ragazzina inglese. Mi innamorai perdutamente. Ma lei mi considerava un bambinello.
Come finì?
Con un fugace bacio l’ultimo giorno come premio di consolazione.
Basta con le donne. Mi parli dei suoi amici,
Ero molto amico di Massimo Fini. Fu il mio primo compagno di banco al Carducci. Era arrivato come un passerotto sperduto dal Berchet. Amavamo entrambi la letteratura francese: Sartre io, Camus lui.
Massimo ha scritto un articolo molto duro contro di lei su “Pagina”.
Ero un periodo in cui mi detestava: avevo potere, responsabilità e grande immagine. Per lui era insopportabile. Ma negli anni bui è stato fraterno ed amichevole.
Chi erano, oltre a Massimo, i suoi amici di allora?
Sezione C del liceo Carducci: Giuliano Seglieri e Marina Rocca, oggi primari ospedalieri, Silvia Bonetti, la ragazzina con le trecce rosse, oggi professoressa di fisica. Ero amico anche di Bruno Bechini. Adesso è preside in un liceo milanese. Avevamo in comune una grande passione per la poesia.
Ha qualche ricordo sgradevole di quel periodo?
C’è una vicenda che in qualche modo mi ha segnato. Avevo 17 anni. Dei medici mi diagnosticarono una forma di epilessia. Sbagliavano, ma per dieci anni sono andato avanti a psicofarmaci. Ancora oggi ne sopporto le conseguenze. Ho il ritmo sonno-veglia del tutto alterato.
Poi arrivarono gli anni dell’università, nella “calda” Statale di Milano.
Provai una sensazione sgradevole di conformismo. Erano tutti marxisti, non c’era spazio per altro, marxisti storicisti, marxisti scientisti, maoisti, sovietici ortodossi, castristi. Molti li avevo conosciuti come tranquilli liberal-democratici. Catapultati nel clima della Statale erano diventati tutti iper-marxisti nell’arco di una giornata. Come Giorello. Bisognerebbe leggere le cose che scriveva a 20 anni. Era impressionante il suo leninismo-maoismo-totalitarismo. Poi sono ricambiati un’altra volta. Adesso sono ultraliberali. Quella generazione l’ho vista sbandare paurosamente.
Molti hanno continuato a sbandare anche dopo. O a dimenticare. La smemoratezza è una malattia nazionale.
La smemoratezza… Nell’ultimo libro di Corrado Staiano c’è una lettera del giudice Gherardo Colombo che mi chiama in causa e mi dà dello smemorato, anzi dice che ammira la mia smemoratezza perché mi dimentico dei miei processi e delle mie colpe e mi faccio eleggere al parlamento europeo, siedo accanto a Di Pietro e ad Elena Paciotti. E’ sorprendente che un pubblico ministero che ti ha inquisito e processato continui a tormentarti perché tu sei sopravvissuto alla sua persecuzione.
Come è andata lo storia del Conto Protezione?
Sono stato il postino, ho trasmesso il numero del Conto Protezione da Craxi ad Antonio Natali. La sentenza riconosce che io non ho preso una lira.
Però ne è uscito col condono.
Come dirigente del Psi ho riconosciuto che quel finanziamento del Banco Ambrosiano al Psi andava restituito. Craxi non l’ha fatto, non ha voluto prendersi le sue responsabilità, io me le sono prese e ho consegnato l’intera liquidazione parlamentare, più qualche soldo che avevo da parte e un prestito di mio fratello. In tutto 500 milioni.
Perché il Banco Ambrosiano finanziava il Psi?
Calvi dette il contributo in cambio del fatto che l’Eni aveva depositato sul Banco Ambrosiano i conti correnti che fino a quel momento aveva su altre banche, i conti esteri.
Dal punto di vista giudiziario lei a che punto è adesso?
Per la faccenda Enimont ho una condanna definitiva a 8 mesi con la condizionale come tutti i leader politici di questo Parlamento o quasi. Sono ricorso alla Corte di Strasburgo e sono sicuro che mi darà ragione.
Ma non per questo sparirà la mazzetta.
Non è stata una mazzetta, Carlo Sama era un mio carissimo amico e mi dette un contributo personale. Non era reato.
Sono i soldi serviti per fare “Reporter”, il quotidiano degli ex di Lotta Continua?
No, assolutamente no. “Reporter” è nato nell’86, nel momento del mio incontro con Adriano Sofri. “Lotta Continua” stava chiudendo, chiese una mano. Balsamo, amministratore del Psi, dette un contributo. Sergio Cusani ne dette un altro.
Dove aveva preso i soldi Cusani?
Da amici facoltosi. Cusani a quell’epoca non conosceva né Gardini né Sama. Non c’entra la Montedison con quella vicenda.
Ferrara racconta di essere andato con De Aglio da Berlusconi a chiedere soldi.
Berlusconi intervenne solo per dare una mano al momento della liquidazione. Craxi non amava tanto quell’esperienza lì. I riferimenti politici di “Reporter” erano Martelli, Pannella e Carniti.
Chi sono i voltagabbana in Italia?
Quelli che hanno preso voti da una parte e si sono spostati dall’altra. Come Mastella. Ma anche il percorso di Giuliano Amato presenta un certo interesse: Craxi, Berlusconi, D’Alema. E’ un anticraxiano che diventa craxiano. Un berlusconiano che diventa dalemiano.
E adesso ci dica qual è la sua posizione.
Craxi muore ad Hammamet, latitante, esiliato, perseguitato, dileggiato, odiato, vilipeso. Il suo più importante collaboratore, Giuliano Amato, è a capo del governo. Il suo più stretto amico e sodale, Silvio Berlusconi, è a capo dell’opposizione
E allora?
Allora questa contraddizione tragica attraversa anche me. Non posso non vedere le ragioni dei socialisti con Amato, ma non posso non vedere che il popolo socialista vota Berlusconi.
Sono scomparsi molti amici in questi anni?
Se non ho avuto solidarietà è perché non le ho cercate. Però ho visto in questi anni difendere anche gli indifendibili. Io non ho avuto mai nella mia vita quattro ore di televisione per difendermi.
E chi le ha avute?
Previti le ha avute: due su Mediaset e due sulla Rai, due con Vespa e due con Santoro.
Lei è arrogante come dicono?
Io mi sono misurato con Berlinguer, con De Mita, con Craxi. Ero un ragazzino e dovevo darmi un tono. Ne usciva una certa strafottenza, una certa arroganza intellettuale. Ma era autodifesa.
Se ci aggiunge lo stile di vita…
Qualche concessione al lusso l’ho fatta anch’io: ho affittato una bellissima villa sull’Appia, con degli amici, che fu ribattezzata l’Appia dei popoli…
…sette milioni al mese…
…divisa per sette non era una grande spesa.
Però abitava in via Garibaldi in un appartamento da cinque milioni al mese.
L’affitto lo pagava il partito.
Chiunque lo pagasse, erano cinque milioni al mese.
Certo fa effetto, lo capisco. Però in quell’epoca la politica era entrata in orbita, era assolutamente pacifico che i e dirigenti dei partiti disponessero di fondi spese consistenti, che viaggiassero con aerei privati. Penso che sia molto più grave togliere un appartamento a un pensionato, come hanno fatto D’Alema e Veltroni, che non affittare una villa a spese tue con sei amici. La vita è piena di tartufi che fanno carriera col moralismo, sulla pelle degli altri.
Per esempio?
Berlinguer.
Berlinguer tartufo?
Pose la questione morale in Italia nel momento in cui riceveva finanziamenti dall’Urss. E nel libro di Gianni Cervetti si parla di nove miliardi nella disponibilità personale del segretario del partito Enrico Berlinguer, che li trasformò in “beni e preziosi”.
Si ricorda il caso Malindi?
Potrei dimenticarlo? In giro tanti giovani me lo ricordano e con molta simpatia.
Si parlava di canne.
Di una canna in verità. Che peraltro era una invenzione.
Detto questo, lei si fa le canne?
Di tanto in tanto.
Tutto normale?
Se mio figlio, quattordici anni, torna da scuola e si fa le canne è chiaro che non studia più perché si intontisce. Ma se un signore di 50 anni finita la sua giornata anziché un bicchiere di whisky si fa una canna non vedo che male c’è.
Lei ha conosciuto Gelli?
Fu Angelo Rizzoli a suggerirmi di incontrarlo. Io mi lamentavo con lui perché il “Corriere della Sera” trattava male i socialisti. E lui mi diceva: “Io non conto più nulla, il “Corriere della Sera” lo guida Tassan Din che prende gli ordini da Gelli. Quindi devi parlare con Gelli”.
E lei?
Andai a parlare con Gelli. Mi invitò a pranzo due volte all’Excelsior.
E che impressione le ha fatto?
Difficile a dirsi, un po’ un Cagliostro questo sì. Si raccomandò di far fare la pace tra Craxi e Andreotti, di ricucire l’unità interna con Signorile e poi mi fece profezie sul fatto che in America avrebbe vinto il repubblicano Reagan.
E del “Corriere della Sera”?
Mi disse: “Vedrà che le cose migliorano. Lei mi mandi dei pezzi che glieli faccio pubblicare. Oppure la faccio intervistare”.
Rimane singolare il fatto che una linea della Giole di Licio Gelli si chiamasse “Claude Martel”.
Anch’io mi sono stupito molto.
E come se lo spiega?
Ero trentenne, carino, sbarcato tra politici le cui facce erano quelle che sappiamo. La “Repubblica” aveva scritto che ero troppo elegante per essere un socialista. “Capital” mi aveva dedicato la prima copertina. Stridevo nell’ambiente, venivo osservato di più, andavo spesso in televisione a dibattere, ero un po’ arrogantello. Può darsi che sia nata così la linea “Claude Martel”.