- 3 Ottobre 2000
Per decenni, insieme al fratello Carlo, ha rappresentato tutto ciò che alla cultura di sinistra dava fastidio. Si diceva “alla Vanzina” per indicare un cinema superficiale, inutile, attento solo alla massa e non ai valori, diseducativo. Tette, culi, parolacce, basso livello culturale, alto tasso di volgarità. Poi qualche critico ha cominciato a “sdoganarli”. Fanno commedia di costume, dicevano. Fotografano, non ammiccano. Non sono volgari ma raccontano la volgarità di questo Paese. Se qualcuno un giorno vorrà capire come era questa nostra Italia, non potrà fare a meno di dare un’occhiata ai loro film, I fichissimi, Sotto il vestito niente, S.P.Q.R, I miei primi 40 anni, Sapore di mare, I no spik inglish, Vacanze di Natale. Tutti film di cui Enrico Vanzina ha firmato la sceneggiatura e suo fratello Carlo la regia. Quando sente questa parola “sdoganati”, Enrico ha un sussulto di orgoglio. “A noi ci sdogana il pubblico”, dice. Ma sotto sotto si legge una certa soddisfazione per questa nuova attenzione da parte degli intellettuali e dei critici. “Veniamo da una famiglia di cinema, di intellettuali. Mio padre, Steno, frequentava Flaiano, Longanesi, Patti”. Va bene, parliamo di questa tua famiglia. “Eravamo un po’ diversi dagli altri ragazzi italiani, eravamo un po’ più internazionali. Mio padre ci fece fare la scuola francese, lo Chateaubriand. Abbiamo imparato inglese, francese, spagnolo, tedesco. Io suonavo il pianoforte. Viaggiavo molto. Era una famiglia molto aperta al nuovo. I miei ci spiegarono che bisogna andare via di casa presto, che bisogna lavorare. Mi manca molto la vita trasversale di mio padre”.
Che cosa vuol dire vita trasversale?
Lui girava film con Tognazzi e Vianello, con Totò, con gli attori comici. Ha fatto tutto il cinema, dal più alto al più basso, però la sera a casa frequentavamo musicisti, scrittori, pittori. E poi era amico di gente che faceva cinema diverso. La sera della domenica si andava a mangiare all’Augustea. C’era sempre un tavolo in cui cenavano Corbucci e Francesco Rosi, insieme. Un segnale di grande democrazia intellettuale. Oggi non succede più. Oggi ci sono i clan. Il gruppo Moretti non frequenta nessuno. Il gruppo Salvatores è isolato. Il gruppo Archibugi fa finta di non conoscerti.
Villaggio si lamenta che nemmeno lo salutano.
L’Archibugi non saluta neanche me. Lei dice che è molto timida. Villaggio racconta che nemmeno il giorno che le ha consegnato il David di Donatello lei lo ha salutato. Ha arraffato la statuetta ed è scappata via.
Tu sei vissuto nel cinema fin da ragazzino.
Questo quartiere era frequentato da moltissimi amici di papà. Mario Monicelli in via Archimede, Mario Camerini con il quale io ero cresciuto. Era un vecchio socialista simpaticissimo, amico di Nenni, che mi insegnò a giocare ai cavalli. Tutti in famiglia eravamo liberali, e lui cercava di convincermi, io avevo 8 anni, a cambiare partito. “Quando sarai grande dovrai votare socialista”.
Hai mai votato socialista?
Una volta sola. Poi repubblicano, radicale, il mio voto è un po’ incerto, naviga.
Chi c’era ancora in questo quartiere?
Rossellini che abitava in viale Bruno Buozzi. Totò. Valentina Cortese. Audrey Hepburn. Poi tantissimi sceneggiatori. Che si frequentavano. I film li facevano nei bar. Oggi la tragedia è che ci sono questi signori che non salutano e fanno tutto da soli, regista, soggettista, sceneggiatore, attore. Anche le musiche, anche la produzione. Il cinema invece è un’opera collettiva. Per non parlare del produttore “arti”.
Cioè?
Oggi il produttore del film “arti” si veste da produttore di film “arti”, parla da produttore di film “arti”, è terribilmente conformista.
Che cosa è il film “arti”?
Il film artistico.
E chi lo fa?
E’ questo il punto. Il film “arti” non lo decide chi lo fa.
Sarebbe come dire: io faccio solo film capolavoro.
Certo. In Italia lo decidono in partenza. “Adesso facciamo una casa di produzione di film “arti””. E poi non li va a vedere nessuno. Vogliamo parlare dei critici?
Come esimersi?
Io ho un nemico, Paolo Mereghetti. Una volta era gentilissimo perché amava molto mio padre. Poi ha cominciato a odiare sia me che mio fratello, in maniera feroce. Le sue critiche dei miei film sono da denuncia penale.
Amaro destino dei critici. O parlano bene o vengono trattati male. Ma Mereghetti è un critico molto quotato. E onesto.
E intelligente. Ma io da ragazzo facevo la boxe. Penso che l’unica persona che potrebbe ricordarmi come si tira un destro è lui. Se lo incontro.
Queste sono minacce!
La violenza di Paolo Mereghetti è andata oltre.
Quanti film hai scritto e quante “palle” ti ha dato?
Io ho scritto 80 film e non è questione di “palle”. Ormai ci sono dei film che sono nella storia sociologica di questo Paese.
I fichissimi: “Comicità facilona, frizzi da dimenticare”. Sapore di mare: “Piatto e volgare”.
Yuppies: “Volgare e nocivo”. I miei primi 40 anni: “I fratelli Vanzina danno il loro peggio”. Piedipiatti: “Semplicemente indecente”. Via Montenapoleone: “Uno dei film più squallidi del decennio”. Le finte bionde: “Vacuo e banale”. Sognando la California: “Non varrebbe la pena di dedicargli tanto spazio se il 90 per cento della critica italiana non avesse deciso che ormai è ora di rivalutare anche i Vanzina”. Paolo Mereghetti non ti considera nella storia sociologica di questo Paese.
Ha scritto che siamo cattivi, acidi, freddi, calcolatori. E’ andato al di là del ruolo del critico.
Molti critici vi hanno massacrato. Non solo Mereghetti.
All’inizio siamo stati trattati molto bene dalla critica. Forse ci si aspettava che proseguissimo una commedia di grande peso. Questa grande commedia di grande peso non solo non la abbiamo fatta noi, non l’ha fatta più nessuno.
Perché?
Mancavano gli attori.
C’erano.
Ma hanno cominciato a fare gli autori. E chi faceva la commedia ha dovuto accontentarsi di attori più piccoli. La critica ha cominciato a storcere il naso quando ha visto che noi continuavamo ad avere successi con film molto esili, i film instant, fotografie molto superficiali del Paese. La critica politicizzata ha pensato che noi fossimo i cantori di quell’Italia lì. Ma la nostra era satira.
Chi è che vi ha sdoganato per primo?
Tullio Kezich, sei-sette anni fa.
Quando parlavi di critica politicizzata a chi pensavi?
Uno che ci ha sempre trattato malissimo è Morando Morandini. Sempre tosto. Ma tanti altri.
Ti ha creato dei problemi?
Io sono nato in una famiglia di intellettuali e mi sento un intellettuale, insegno sceneggiatura, scrivo libri, faccio il giornalista. Bragaglia, quando a teatro fischiavano le sue commedie di avanguardia, diceva: “Salite sul palcoscenico che facciamo a cervellate”. Io non ho paura di fare a cervellate con molti santoni culturali. Troppi hanno dimenticato che è il pubblico che comanda. Carlo Mazzacurati, il regista della Lingua del Santo, ha detto: “Questo mio film è un piccolo passo di avvicinamento verso il pubblico”. Come? Finora non si era mai posto il problema del pubblico? E adesso se ne accorge e decide di fare solo “un piccolo passo”?
Hai detto una volta che il Paese si è incanaglito. Che è meno simpatico.
Non c’è più l’attesa del valore e del merito. Vale solo il risultato, l’apparire, l’esserci. Un mondo antipatico.
Chi ti è antipatico veramente?
I radical chic, quelli di Capalbio, le mogli dei potenti. Ammiro molto Ernesto Galli della Loggia. Ma non l’ho trovato simpatico quando ha fatto la campagna contro Roma. Come antipatica è stata Marina Lante della Rovere quando ha rinnegato la sua amicizia con Craxi. Sia lei che il marito sono stati dei voltagabbana.
C’è un episodio della tua vita di cui ti vergogni?
Una sera, sotto casa mia, vidi due coatti che prendevano a calci una persona anziana. Io li avrei ammazzati ma non ho avuto il coraggio di intervenire. Mi sono vergognato moltissimo.
Come è stata la tua gioventù?
Ero molto estroverso. Avrei voluto fare il poeta. I miei miti erano Pelè, Salinger, i Beatles, Kerouac, Brigitte Bardot, Steve Mac Queen. Mi piaceva il jazz, Sartre, Céline, il cinema americano. Andavo a Londra per un concerto, in Svezia inseguendo una ragazzina che mi piaceva. Ma frequentavo anche Peggy Guggenheim e Paloma Ricasso. Poi la domenica partivo sul treno degli ultras della Roma per andare in trasferta a Bergamo. E leggevo Moravia nel gabinetto per non dover dare spiegazioni. Cominciai a fare l’aiuto regista con mio padre. Mi divertivo, giravo il mondo. Poi incontrai Renato Pozzetto e cominciai a fare lo sceneggiatore.
Il tuo film di maggior successo?
“A spasso nel tempo”. Incassò 40 miliardi. Ma “I fichissimi”, con Diego Abatantuono costò 300 milioni e incassò 8 miliardi.
Abatantuono lo hai lanciato tu.
Ma se leggi il suo libro autobiografico non mi trovi. Eppure sono io quello che gli ha scritto, all’inizio, i successi più grandi. Era l’elettricista dei Gatti del vicolo dei miracoli. In un paio di anni diventò l’attore più pagato d’Italia.
Ingratitudine umana. L’Archibugi non ti saluta, Abatantuono ti dimentica.
Sono molto amico di Diego, ci vediamo spesso, lo trovo intelligente. E’ un grandissimo attore. Un genio della comicità. Ma sono rimasto molto ferito da questa cosa.
La gente dimentica.
Solo i piccoli hanno paura del proprio passato. La forza dei grandi sta nel non dimenticare le proprie origini. Nella politica, nel giornalismo, nella letteratura, nel cinema è un continuo cambiare bandiera.
Per esempio?
E’ curioso vedere Pasquale Squitieri sventolare la bandiera dell’estrema destra. Oppure Barbareschi. Io non sopporto quelli che si schierano. L’attore impegnato è una figura superata. Il cinema è più forte della politica. Con che faccia attori che guadagnano 50 miliardi a film si schierano a favore dei diritti dei pellerossa?
Perché no? E’ meritevole.
A me gli sbandieratori stanno antipatici. La mia amica Sabrina Ferilli, lo dico con tutta la simpatia, non ha bisogno di essere la bandiera della Roma e la pasionaria degli ex-comunisti. Le bandiere non si debbono sventolare. La bandiera è la tua vita. E mi stanno antipatici anche i politicamente corretti, i nuovi ipocriti. A me piacciono le cose popolari: le donne, la musica, il calcio, le parolacce. Al momento buono una parolaccia ci vuole. E anche un po’ di violenza. Un’altra cosa che non mi piace è la mancanza di eleganza. Questo paese è diventato volgare.
Tu? Lo dici proprio tu?
Si, lo so che ho fatto dei film volgari, ma l’ho fatto per dimostrare che c’è volgarità in questo Paese.
Chi sono i voltagabbana in Italia?
I calciatori che passano da una squadra all’altra.
Ma è lavoro!
Ci sono bandiere che vanno rispettate. Come in televisione. Lo disco senza astio: Santoro, o è Rai o è Mediaset, non può essere tutte e due. Poi ci sono i giudici che cambiano pelle e fanno i politici. E i politici che passano da destra a sinistra. Dini, Mastella, Scognamiglio, Pivetti. Ma come fanno?
Ci sono voltagabbana anche nel cinema?
C’è una persona che non mi vuole più bene perché pensa, sbagliando, che io sia stato scorretto con lui. Enrico Montesano. Ho scritto per lui un film che è considerato di culto, Febbre da cavallo, uno dei suoi maggior successi.
“Commedia all’italiana sbrigativa”, scrive Mereghetti.
Lasciamo perdere. Montesano era un Pasquino naturale. Poi ha cominciato a fare politica ed è diventato antipatico. C’è anche un altro tipo di voltagabbana. Quello che si occupa di moda e vuole parlare di filosofia, che si occupa di filosofia e vuole parlare di calcio. Sei un cantante? Canta!
E Celentano guru?
Lo dico con tutta l’amicizia possibile: mi piace poco, proprio perché è un grande cantante. Uno dei momenti più belli della mia vita l’ho vissuto quando mi cantò, solo per me, io e lui nel suo studio, “ma non vorrei che tu a mezzanotte e tre…” Tutto il suo talento, tutto il mio passato.
Ricordi il tuo primo amore?
Certo, Silvia, una olandese dello Chateaubriand. Da ragazzino mi innamoravo spesso. Poi ho avuto pochi e grandissimi amori. Come Paola. Un amore durato pochissimo ma che mi ha segnato.
Sei fedele?
Sono molto attratto dalle donne. Perché non le capisco. La seconda parte della mia vita voglio occuparmi di loro. Hanno perso la loro identità e devo capire perché.
Quali amici ti sono rimasti dalla gioventù?
Luca di Montezemolo. L’ho conosciuto giocando a pallone a Villa Balestra. E Alessandro Fracassi, il produttore, figlio di un ambasciatore. Ma gli amici di famiglia erano i ragazzi Risi, Marco e Claudio. Per Marco scrissi il suo primo film che fu un grande successo, “Vado a vivere da solo”, con Jerry Calà.
“Battute di repertorio”, scrive Mereghetti.
Adesso Marco Risi fa un cinema difficile. Si sente superiore al cinema commerciale. E mi dispiace.
Ricordi una grande umiliazione?
Io, mio fratello Carlo e Renato Pozzetto andammo a leggere una sceneggiatura a Goffredo Lombardo, il grande produttore. Era il nostro primo film. Pozzetto era in grande forma. Lombardo non sorrise nemmeno una volta e alla fine ci ha praticamente mandati via. Nemmeno una risata davanti al comico più forte del momento.
E voi?
Siamo usciti e in fondo alle scale, a Largo Goldoni, abbiamo cominciato a ridere come dei pazzi, fino alle lacrime.
Il tuo film peggiore?
Banzai, con Paolo Villaggio.
Mereghetti non lo recensisce nemmeno.
Meglio così. Andò malissimo. Fu un bellissimo viaggio in Giappone ma una stupidaggine di film, scritto male, recitato male, diretto male. Costò 5 miliardi e incassò 600 milioni.
L’ultimo film che non ti è piaciuto?
A me non piace il 90 per cento dei film italiani, ma non posso dire quali. Mi creerebbe troppi problemi.
Suvvia, un po’ di coraggio.
L’ultimo film dell’Archibugi.
Tanto non ti saluta.
E così me la farò nemica per tutta la vita. Mi toglierà il saluto in via definitiva.
Ma adesso che sei sdoganato, come ti senti?
Forse ero più felice prima. Era stupendo quando i critici scrivevano cose orrende su di noi e la gente impazziva ai nostri film. Lo sdoganamento è iettatorio. Prima non dovevo dare conto a nessuno di quello che faccio. Adesso non vorrei che cominciassi a scrivere film pensando alla critica.