- 6 Settembre 2001
Erano un terzetto. Piperno, Scalzone e Pace. Legati dalla militanza in Potere Operaio e in Autonomia Operaia. Legati anche dalla considerazione dei giudici che li sospettarono di appartenenza alle Brigate Rosse e li ritennero responsabili, come minimo, di associazione sovversiva e banda armata. Legati dalla comune latitanza in Francia. Oggi Franco Piperno fa l’assessore in Calabria, Oreste Scalzone latita a Parigi e Lanfranco Pace lavora al Foglio, il giornale di Giuliano Ferrara. Di aver fatto parte delle Br Pace continua a negarlo. Anche se racconta di esserci andato molto vicino. Ma mentre molti dei suoi ex compagni di militanza, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, Alvaro Lojacono, Adriana Faranda, Barbara Balzarani, Germano Maccari, scivolarono nella china della banda armata, lui no. La clandestinità non faceva per lui. Lui amava la notte, il poker, la vita.
Lanfranco, circola una voce. Tu sei veramente entrato nelle Br, ma ti hanno cacciato per il vizio del gioco d’azzardo.
«Non è così, ma c’è un fondo di verità. Nel settembre del 1977 si fecero molte riunioni insieme a quelli che volevano passare alla lotta armata. Seminari riservati, ad inviti, nella facoltà di Scienze Politiche, a Roma».
E tu?
«Io dissi: “Chiedetemi tutto ma non di svegliarmi alle cinque per andare a incipriare di colla un caporeparto. Dopodiché se dobbiamo dividerci le responsabilità, ce le dividiamo, ma fatemi fare delle cose che corrispondano al mio istinto”. Non se ne fece niente. Lo stile di vita che mi prospettavano non corrispondeva al mio. Io amo la notte e loro, alle 8 di sera, tutti a casa. E poi, io clandestino? Con questa mole?».
Solo per questo hai detto di no?
«Pensavo che l’azione armata andasse bene se si intrecciava con i movimenti di massa. Altrimenti era una follia. Ma ero circondato solo da gente che voleva fare la lotta armata».
Sei finito male lo stesso.
«Me lo sono cercato scientemente. Tentare la mediazione tra socialisti e Brigate Rosse durante il sequestro Moro è stato fatale».
Racconta.
«Fu Livio Zanetti, direttore dell’Espresso, a cercare Piperno e me. Ci disse: “I socialisti vorrebbero trattare con le Br”. Andai da Signorile. Poi da Craxi. Mi spiegarono che volevano smarcarsi dalla linea della fermezza del Pci e della Dc. Io cercai i contatti con Adriana Faranda e Valerio Morucci. E riuscii a raggiungerli».
Non era così difficile dunque. Solo la polizia non ci riuscì.
«Gli appuntamenti non erano facili. Ci volevano giorni».
Dove vi vedevate?
«Normalmente nei bar. La gelateria Fassi per esempio. Oppure a pranzo in un ristorante in via dei Cerchi. Vidi Adriana Faranda sette od otto volte. Ci voleva tempo, insinuare il dubbio, convincere, fare pressioni, rispondere alle obiezioni».
Hai mai avuto l’impressione di essere seguito?
«All’epoca lo Stato non mi pareva che avesse questo grande livello di efficienza».
A tuo giudizio si sa tutto sulle Br?
«Tutto».
Quindi nessun mistero da chiarire?
«Ce ne sarebbe uno. Gli ultimi cinque secondi della vita di Aldo Moro».
Chiariamolo.
«A ucciderlo non fu Moretti».
E chi allora?.
«Ricordi il quarto uomo di via Montalcini, l’ingegner Altobelli?».
Germano Maccari? Quello che avrebbe passato la mitraglietta Skorpion a Moretti?
«Non andò così».
E tu che ne sai?
«Me lo raccontò lui stesso prima del suo processo. Era indeciso se dire ai giudici la verità. Poi non lo fece. Ora che è morto mi sento libero di farlo io. Anche per dare il giusto risalto alla figura di un vero “barbaro” combattente, stimato, amato e temuto da tutti. Un vero figlio della “rivoluzione” di quegli anni, disincantato nei confronti del denaro e della politica».
Insomma…
«Nel garage di via Montalcini, davanti al povero Moro rannicchiato nel bagagliaio della Renault rossa, Moretti fu colto da una crisi di panico. Gli tremavano le mani. Provò lo stesso a sparare ma la pistola si inceppò. Non sapendo che cosa fare rivolse uno sguardo a Prospero Gallinari in cerca di aiuto. Ma Gallinari stava peggio di lui e piangeva. A questo punto intervenne Germano Maccari. Scansò tutti e due e impugnando la famosa Skorpion sparò una raffica».
Ma Maccari non era contrario all’omicidio?
«Contrarissimo. Considerava quell’omicidio un’ignominia assoluta. Però prese su di sé il peso di una decisione tremenda ma a quel punto inevitabile».
Perché raccontò queste cose proprio a te?
«Avevamo un rapporto di stima reciproca. E sapeva che io avevo dei dubbi su come erano andate veramente le cose».
Perché avevi dei dubbi?
«Qualche giorno dopo l’uccisione di Moro lo avevo incontrato all’università: era irriconoscibile. Gli erano diventati tutti i capelli bianchi. Seppi in seguito che se ne era andato dalle Br e che stranamente i brigatisti non si erano opposti a una decisione che avrebbe potuto compromettere la loro sicurezza. Evidentemente -pensai- ci doveva essere qualcosa che giustificava un divorzio consensuale del tutto inedito nelle logiche della lotta armata».
Tu sei finito nei guai anche perché hai aiutato Faranda e Morucci a nascondersi.
«Erano usciti dalle Br. Vennero a chiedermi aiuto. Tu, al posto mio, che cosa avresti fatto?».
Mi è difficile immaginarmi al posto tuo.
«Dovevano nascondersi. Erano andati via dalle Br in malo modo, portandosi dietro soldi e armi. Dormivano in treno da tre giorni. Avevano fatto su e giù, Roma-Reggio Calabria, quattro volte. Li portai da Giuliana Conforto. Quando li arrestarono a casa sua capii che avevo le ore contate».
È difficile sostenere che si tratti di una persecuzione giudiziaria.
«Accusarmi senza prove di essere uno delle Br e mandante di sei omicidi vuol dire andare al di là del diritto».
Come succede che un amante della vita, della notte e del poker finisce condannato per banda armata? Eri un ragazzo sovversivo?
«No, ero un ragazzino molto studioso. Mio padre mi aveva mandato a scuola due anni prima. A tre anni leggevo già il Resto del Carlino».
Era dura?.
«Durissima. Alle elementari facevo i logaritmi. È andata bene fino alla pubertà, quando mi sono accorto che le ragazzine avevano le tette e io i calzoncini corti».
Ricordi?
«I professori, uno per uno, uomini d’altri tempi. Quello di greco che ci spingeva verso Don Giussani. Quello di ginnastica che mi spingeva sulla pertica nonostante avessi già da allora un certo peso. Quello di italiano che soffriva di emorroidi e veniva in classe con la ciambella. Diceva: “Leggete Baudelaire e ascoltate L’après midi d’un faune”. Ma noi preferivamo James Dean, Elvis Presley e il rock».
Il primo amore?
«Il primo fremito infantile lo provai per Caterina, la prima sbiossa me la dette Concetta, una bruna che somigliava a Claudia Cardinale. Aveva 18 anni, io 12. Le feci la dichiarazione».
E lei?
«Disse, come nel film di Woody Allen: “Vai via, sgorbio”».
Come hai scoperto la politica?
«Una manganellata del terzo battaglione Padova che aveva caricato una manifestazione di mezzadri. Mi sembrò un’ingiustizia. Scivolai verso il Pci e verso i gruppi di Nuova Resistenza».
Chi erano i tuoi amici?
«Marcello Crivellini che sarebbe stato uno degli studenti di Lotta Comunista milanese. Poi divenne radicale e sposò Emma Bonino».
L’impegno politico era forte?
«Senigallia, dove abitavo, era una città rossa, ma vinceva comunque la vita da vitelloni di provincia. Giocavamo a tressette e a scopone al circolo del tennis. Facevamo le prime partite a poker».
Lo stesso poker che non ti ha fatto entrare nelle Br.
«Il gioco delle carte è una cosa importante nella vita. È assolutamente formativo. Chi bara al gioco è malvisto. Chi bara nella società no».
Bisognerebbe introdurlo all’asilo.
«Le mie figlie giocano a carte. Sono delle appassionate di gin rummy».
Il preferito di Andreotti.
«E di Marta Marzotto, di Alba Parietti e di Goldfinger».
Mogli?
«Stefania Rossini, che si occupava di storia della Resistenza e oggi è giornalista dell’Espresso. E Giovanna Botteri, che si occupava di cinema e follia alla Sorbona e oggi è giornalista del Tg3. Due figlie, una da Stefania e una da Giovanna».
La politica vera?
«A Roma, all’università, ingegneria. Una facoltà dove volevano solo studiare. Di sinistra eravamo pochissimi. Quando decidemmo l’occupazione avevamo paura di essere linciati. Per fortuna intervenne un professore di idraulica, Arnaldo Castagna, e convinse tutti che era giusto ribellarsi. Poi con Piperno e Scalzone facemmo Potere Operaio a Roma».
Eri violento?
«Qualche sassata alle vetrine l’ho tirata anche io. Ero considerato uno di destra. Non credevo al fanfascismo. Non credevo ai servizi deviati che volevano fermare la crescita della sinistra. Non pensavo che si defenestrassero gli anarchici. Ma la schizofrenia era tale che anche io ritenevo Calabresi un nemico e che considerai la sua morte un atto di giustizia proletaria».
Che cosa pensi oggi di quel delitto? Sei d’accordo che – come dice Mughini – chi sa deve parlare?
«Giampiero è uomo d’onore, ma crede che ricostruire la verità storica aiuti a ristabilire la verità giudiziaria. La domanda che mi devi fare è un’altra».
Quale?
«Sofri deve tornare libero?».
Immagino la risposta..
«La risposta è sì. E alla svelta».
Ma se tu conoscessi i nomi dei colpevoli, li diresti?
«No. Non servirebbe a nulla. E non libererebbe Adriano. Anche se venissero fuori i vari responsabili dei servizi d’ordine cui ha fatto allusione in modo un po’ mafiosetto Giampiero Mughini, vale il famoso teorema che Adriano capo carismatico non poteva non sapere».
Perché Potere Operaio si sciolse?
«Il semplice sospetto che alcuni militanti di Potere Operaio potessero essere coinvolti in una tragedia come la morte dei fratelli Mattei, i giovani fascisti bruciati vivi nella loro casa di Primavalle, fu insostenibile.».
«Uccidere un fascista non è reato». Hai mai urlato questo slogan?
«No, mai. Io non ho gridato nemmeno “Agnelli Pirelli, ladri gemelli”. L’operaismo ci aveva insegnato un certo distacco dalle cose becere».
Che slogan urlavi?
«“È ora di giocare col sangue dei padroni”».
Elegante.
«Ma pertinente con quello che pensavamo».
Dopo lo scioglimento di Potere Operaio?
«Il militare e la laurea. Poi insieme a Virno, Castellano e Maesano ho fondato il centro studi Cerpet. In quei tempi si affacciò una generazione nuova, barbara, incline alla violenza, conseguenza dell’arrivo all’università dei ceti popolari molto più determinati dei giovani borghesi di una volta. Era la base sociale dell’Autonomia Operaia».
Ma l’Autonomia Operaia eravate voi.
«Semplificazioni giornalistiche. A noi ci facevano le pernacchie. Appena prendevamo la parola ci urlavano “scemi, scemi”. Noi eravamo i cugini pompieri».
Quand’è che hai smesso di essere comunista?
«Io non ho mai smesso di pensare che il lavoro salariato sia una tragedia. Né che meno Stato c’è meglio stiamo, come diceva Marx. Penso ancora che i Paesi dell’Est fossero l’inferno su terra. È il Pci che piano piano ha cambiato».
Che cosa hai votato l’ultima volta?
«Se fossi andato a votare avrei votato Bonino e Coscioni».
Che cosa pensi della destra italiana?
«Che non mi fa paura. Berlusconi è un democristiano, un cattolico moderato. E anche Fini che destra è? È statalista, diffidente nei confronti della borghesia e dell’imprenditoria, ha forme di rapporto con i sindacati, non è una destra di rottura. La nostra, se è una destra, è una destra mollacciona».
Ti piace Berlusconi?
«È un seduttore al femminile. Vuole veramente passare alla Storia. È convinto di essere il migliore».
Ha motivi per crederlo?
«Ammettiamo pure che abbia avuto i soldi da Totò Riina. Che non è vero. Ammettiamo che sia stato aiutato da Craxi. Non si fa da zero un impero da 50 mila miliardi e non si tiene a lavorare con sé tanta gente di qualità se non si ha grande talento e capacità seduttiva».
Tu sei un voltagabbana?
«No. Sono una persona a cavallo delle cose. Ero a destra della estrema sinistra. Un migliorista rivoluzionario. Una volta sentii parlare Pino Rauti in un dibattito sull’immigrazione. Era l’unico che diceva cose sensate».
Adesso?
«Adesso non credo più alla rivoluzione. Ma non ho nulla delle idee reazionarie classiche. Certo, se oggi tu mi dici: “Andiamo a fare un dibattito sulla giustizia”, io non ci vengo se non ci sono Marcello Pera, Alfredo Biondi e Vittorio Sgarbi. Una platea di compagni che agitano le forche di sinistra mi fa venire il voltastomaco».
Anche tu ce l’hai con i giudici?
«Io consiglierei a chiunque di farsi uno stage di un paio di mesi in carcere per vedere come funziona la macchina giudiziaria. Per alcuni anni le sparate di Sgarbi contro la magistratura sono state per me il solo balsamo sul cuore».
Torniamo ai voltagabbana?
«Voltare gabbana è un movimento di fondo. Dovuto alla debolezza del rapporto fra elettore ed eletto e alla promiscuità degli intellettuali che se ne stanno lì ad aspettare prebende. Gli intellettuali italiani sono chierici, persone abituate agli onori, che vogliono il conforto del consenso. Vedere uomini intelligenti che dicono delle panzane per fare piacere a chi li ascolta mi manda al manicomio».
A chi stai pensando?
«A Umberto Eco, a Nanni Moretti, a Eugenio Scalfari, a Furio Colombo. Come si fa a titolare “D’ora in poi i reati li decide Berlusconi”?».
Beh, la legge sul falso in bilancio…
«La legge del falso in bilancio la stava facendo pari pari Vincenzo Visco».
Mastella dice che non torna da Berlusconi solo per paura delle critiche. Voltagabbana e codardo?
«“Franza e spagna purché se magna”. Mastella è la mediazione intelligente fra le sue tribù sannitiche e il potere centrale. Voltagabbanismo semmai l’ho visto attorno a Craxi. Questa cosa italiana di dare calci all’uomo ferito è insopportabile».
Giuliano Amato?
«E altri. Sono spregevoli quelli che lo fanno in forma mondana».
La Ripa di Meana?
«Il Ripa di Meana. Quelli che stavano intorno a Craxi, facevano a cazzotti per incontrarlo di straforo e si sono liquefatti sparando sul cadavere. Come Martelli che a forza di prendere le distanze si è rifatto una verginità che non è servita assolutamente a nulla. Come Signorile. Che prima mi coinvolse nel caso Moro e poi al giudice negò di avermi mai visto. Per carità di patria non cito le dodici volte che ci siamo incontrati a casa di Jimmy Hazan, brasseur d’affari dell’Iri e a casa di Livio Zanetti».
Altri voltagabbana?
«Irene Pivetti. Le ha anche detto male. Lasciando la Lega e coloro che le avevano dato il potere di essere la più giovane presidente della Camera ha perso la sua anima. Oggi non è più nessuno. Come Scognamiglio».
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