- 15 Aprile 2004
Un vero plotoncino. Gli avvocati in Parlamento sono 76. Tra loro Gaetano Pecorella, 66 anni, mitico difensore degli studenti durante gli anni della contestazione, oggi legale di Silvio Berlusconi.
Come mai questo assembramento?
«La novità non è che ci siano tanti avvocati in Parlamento. È che ci siano tanti magistrati».
Non sono tanti.
«Una cinquantina credo, quasi quanto gli avvocati».
A me risultato 76 avvocati e 13 magistrati. E meno visibili.
«Luciano Violante, Anna Finocchiaro, Francesco Bonito, Massimo Brutti. Tutti grandi protagonisti della vita politica».
Sinceramente: che cosa pensa dei magistrati?
«Sono cambiati. In peggio. Non salutano più gli avvocati. Sono una casta faraonica. Nel senso che si frequentano e si sposano tra di loro. Se hanno un’amante è anch’essa un giudice. Agli inizi io andavo a suonare la chitarra nei campi intorno a Milano con Gherardo Colombo e altri magistrati. Dopo che sono diventato parlamentare in Forza Italia, e avvocato di Berlusconi, passo nel corridoio, li saluto e loro guardano da un’altra parte».
Sono antropologicamente diversi.
«Uno che dedica la vita a giudicare gli altri non può che avere un’alta considerazione di sé. Come fa un giudice a stare tranquillo davanti a un imputato? Non lo immagina in carcere per venticinque anni?».
Aboliamo i tribunali?
«Per carità, senza giustizia non si vive. Però per fare il giudice bisogna avere una pazzesca fiducia nella propria capacità di non sbagliare».
Mi racconta le sue origini?
«Padre pugliese e madre pisana. Mio padre era uno degli undici figli di un falegname. Faceva il commercialista a Milano».
Padre fascista e nonno anarchico, giusto?
«Mio nonno era uno di quelli che quando il re veniva a Milano finiva in cella per tutto il tempo della visita. Mio padre era un fascista passivo, un fascista buono. Odiava la violenza ma era affascinato dall’autorità. Io la pensavo come mio padre fino ai diciotto anni».
Dopo i 18 anni?
«All’università ebbi un periodo di militanza cattolica. Fui inizialmente scosso dal disordine portato dal movimento degli studenti. Votai contro la prima occupazione della Statale. Poi fui trascinato dall’entusiasmo dei giovani. La contestazione, però, mi apparve non tanto come un movimento di sinistra ma come un grande movimento di rinnovamento».
Lei era assistente universitario.
«Assistente del professor Delitala e lavoravo nello studio del professor Pisapia. Quando cominciarono i primi pestaggi da parte della polizia cominciai a difendere gli studenti».
Infatti dicono: da Soccorso rosso a Berlusconi. Un bel salto.
«Io non ho mai fatto parte di Soccorso rosso. Quelli di Soccorso rosso erano i difensori dei brigatisti, Francesco Piscopo, Giuliano Spazzali, Sergio Spazzali, Edoardo Arnaldi. Io, insieme ai miei amici Marco Ianni, Luca Boneschi, Luigi Mariani, Michele Pepe, difendevo quelli del Movimento sudentesco».
Il più a sinistra era lei.
«Se dovessi darmi una definizione mi collocherei nella tradizione liberal americana. L’individuo viene prima dello Stato».
Anche Furio Colombo si definisce liberal, all’americana. Eppure siete su posizioni diametralmente opposte.
«Non mi pare che Colombo abbia il rispetto per gli avversari politici che ho io e che avrebbe qualunque liberal americano. Noi non insultiamo e non demonizziamo come fa lui».
Lei si candidò alle elezioni regionali con l’estrema sinistra.
«Con Democrazia proletaria, il partito di Mario Capanna. Ma non fui eletto».
Il massimo di violenza che ha vissuto?
«Odiavo la violenza. Ricordo un ragazzo picchiato che sbatté la testa contro il muro dell’università lasciando tracce di sangue. E chi lo picchiava era un assistente universitario. Poi ci fu quel ragazzo inglese, che fu sprangato mentre andava in bicicletta. Fu per queste violenze che il nostro gruppo di avvocati si staccò dal Movimento studentesco».
Per chi votava?
«Socialista. Qualche volta radicale».
Nel 1982 difendeva Tassan Din.
«Fu la svolta. Era la prima volta che difendevo un imprenditore importante. E difendevo anche Angelo Rizzoli».
Perché lo fece?
«Perché facevo l’avvocato».
Allora non era una svolta.
«L’avvocato deve fare le sue scelte tenendo conto di un solo limite: l’effettività della difesa viene meno se si prova ripugnanza per il cliente. Se mi chiedessero di difendere quel belga che ha massacrato quattro ragazze, direi probabilmente di no se fossi convinto che è colpevole».
Perché è un mostro?
«Quanto più uno è un mostro tanto più ha diritto di essere difeso. Ma in quel caso, umanamente, ci terrei talmente tanto che venisse condannato che non farei bene il mio mestiere».
Per uno che è sempre stato dalla parte dei deboli è un bel salto passare a difendere un potente che paga.
«Il potente che paga aveva una grande attrazione per uno che fino ad allora non aveva praticamente mai guadagnato una lira. Però quella non fu una scelta mia ma di Tassan Din. Una scelta che dimostra quanto vada indietro nel tempo la politicizzazione della magistratura. Evidentemente Tassan Din ritenne che avermi come difensore rappresentava una buona entratura presso magistrati che erano considerati di sinistra».
Che impressione le fece la prima parcella vera?
«Una buona impressione. Erano più di cento milioni».
Che cosa ci fece?
«Niente di particolare, sono sempre stato un risparmiatore».
Qualcuno dice tirchio.
«Tirchio per certe cose e scialacquatore per altre. Non mi fermo davanti al costo di un libro. Mi piace comprare una bella macchina. Ma non amo spendere sui vestiti. Dipende».
Che tipo era Tassan Din? Avevate anche rapporti personali?
«Non siamo mai stati amici intimi, ma io lo consideravo un uomo di grandissima intelligenza imprenditoriale. Faceva una vita abbastanza monacale. Lavorava dalla mattina alle sei fino a notte inoltrata».
Quando lei era parte civile nel processo di piazza Fontana si oppose al trasferimento a Catanzaro. Quando assunse la difesa dei presunti colpevoli chiese subito il trasferimento a Catanzaro. Voltagabbana giudiziario?
«Nel momento in cui l’avvocato sceglie di difendere un imputato, deve rinunciare alle sue idee e deve fare tutto quello che gli è consentito dalle leggi nell’interesse del suo cliente. In ogni caso, visto che tutti i processi sono stati spostati a Catanzaro, che ragione c’era perché questo restasse a Milano?».
Fu accusato di essere un voltagabbana anche quando si presentò alle elezioni con Forza Italia. Furono i militanti di destra ad arrabbiarsi. Dissero: come possiamo votare l’avvocato dell’ultra sinistra, il difensore degli assassini di Ramelli, un nostro militante?
«Io non avevo difeso gli assassini di Ramelli. È vero che avevo rappresentato una certa area di sinistra, ma non sono mai stato identificato con il Pci, il Movimento studentesco era scomparso e io non facevo più da anni processi politici».
«Badante tuttofare». Così l’ha apostrofata Filippo Mancuso. Lei rispose chiamandolo «vecchio instabile».
«Non ho ancora capito perché la sua ambizione frustrata di diventare membro della Corte Costituzionale l’abbia spinto ad attaccare non solo chi aveva deciso, ma anche chi non c’entrava nulla come me».
Evidentemente ce l’aveva con lei.
«Invece di essermi riconoscente. In quegli anni, pur potendo avanzare la mia candidatura per la Corte Costituzionale a cui tenevo tantissimo, considerai che lui si era candidato prima, era più anziano e aveva alle spalle una carriera importante. Così rinunciai. La sua fu una gratuita aggressione che non gli perdonerò mai».
Le persone che se ne vanno da Forza Italia ne escono con rancore.
«Non è rancore. È rabbia determinata da ambizioni non appagate».
Mancuso chiamò «bandito» Cesare Previti. Anche Taormina si era espresso duramente nei confronti di Previti. È un personaggio imbarazzante questo Previti?
«È un fondatore di Forza Italia».
Se se ne andasse da Forza Italia tirereste un sospiro di sollievo?
«Vivremmo più serenamente se finissero questi processi che sono un modo indiretto per attaccare Berlusconi. Non sempre mi sono trovato d’accordo con Previti ma ammetto che ha dato a Forza Italia un grosso contributo».
Previti si è difeso confessando di essere un grande evasore fiscale. Per un ex ministro è una figuraccia.
«Per dimostrare che non era un corruttore doveva per forza ammettere di essere un evasore. Quei 21 miliardi o erano il frutto di una corruzione o erano il frutto di una parcella».
Parcella sulla quale non aveva pagato le tasse.
«Una cosa non commendevole ma non degradante».
Taormina disse che non esiste al mondo un avvocato che prende una parcella di 21 miliardi.
«Era il due per cento su un’operazione di mille miliardi. Se prendo due milioni facendo guadagnare cento milioni al mio cliente nessuno mi dirà che sono un ladro. Anzi, io prenderei di più».
Quanto prese dalla Rizzoli per il caso Tassan Din?
«Circa 400 milioni, se ricordo bene. Ma il caso è durato sei anni».
C’è stato un momento di tensione tra lei e Previti, dopo la condanna.
«Io dissi una cosa ovvia, che la condanna di Previti non era una condanna anche per Berlusconi. La responsabilità penale è personale».
Lei disse: non è detto che Berlusconi sappia quello che fa Previti. Sarebbe come dire che Previti viene condannato perché corrompe i giudici a titolo personale.
«In teoria io potrei fare un accordo illecito con un magistrato senza avvertire il cliente. Primo perché è pericoloso mettersi nelle sue mani. Secondo perché ammetterei di non essere in grado di vincere».
E chi le dà i soldi per pagare il giudice?
«Il cliente, ma non per pagare il giudice, per pagare la parcella dell’avvocato».
Visto poi che ci sono parcelle da 21 miliardi.
«Io non sto parlando di Previti».
Dicono di voi che se perdete in prima istanza non andate in Appello ma in Parlamento. Cambiate le leggi e poi vincete.
«Poi in realtà non vinciamo lo stesso».
Siete degli ottimi avvocati ma dei pessimi legislatori.
«Il coltello dalla parte del manico ce l’ha sempre il magistrato. Tu puoi scrivere qualunque cosa nella legge. Poi la legge la applica lui».
È più facile difendere i deboli o i potenti?
«I potenti hanno bisogno di molta solidarietà. Sono i più fragili davanti al giudice. Tassan Din ha vissuto in modo drammatico la sua carcerazione, si è ammalato e ha fatto una morte terribile».
Sono viziati.
«Io non ho mai visto piangere un rapinatore. Ma ho visto piangere i ricchi e i potenti».
Berlusconi è molto adulato?
«Esistono due fenomeni diversi. Uno è la piaggeria per il capo. In Forza Italia c’è sicuramente, c’è il desiderio di stargli vicino, di toccarlo, di essere guardato da lui. Poi c’è l’ammirazione. Mia moglie, che ha 36 anni…».
Giovanissima.
«Trent’anni meno di me. Per lei Berlusconi non sbaglia mai. Come il Duce: ha sempre ragione. Quando tu vedi in un leader la persona con cui identifichi molti dei tuoi sentimenti, finisci nel culto della personalità».
Berlusconi ama il culto della personalità?
«No. Gli piace che la gente lo apprezzi. Ma ama il rapporto franco, diretto, che scavalca le gerarchie».
Populismo.
«Lo chiami come vuole, ma la gente lo segue».
Esistono adulatori doc: Bondi, Schifani, Vito.
«Quando il tuo leader viene di continuo attaccato tu finisci per dover essere sempre in prima linea nel difenderlo».
Chi sono gli adulatori?
«Più che di adulatori parlerei di imitatori. Molti cercano il consenso del capo imitandolo. Essere simile al capo gratifica».
L’homo berlusconianus non è un fenomeno spontaneo. Lo ha inventato lui con i suoi comandamenti, niente barba, niente profumo, niente gomma americana.
«Uno degli uomini che oggi hanno più peso in Forza Italia è Ferdinando Adornato, che ha la barba e non se la toglie di sicuro per fare piacere a Berlusconi».
Adornato viene considerato dalla sinistra un voltagabbana.
«Non è un voltagabbana. Ha seguito un percorso culturale assolutamente coerente».
E Paolo Guzzanti?
«Mi pare che sia liberale quanto prima».
Ai tempi di Repubblica non era tanto liberale.
«La categoria dei giornalisti è strana. Vorrei capire perché qualcuno quando scrive su un giornale scrive in un modo e quando scrive su un altro scrive in un altro modo».
Ha perso amici da quando è passato a Forza Italia?
«Forse qualcuno».
Un suo amico, il giornalista Massimo Fini, una volta si rifiutò di stringerle la mano.
«È tipico del suo carattere, quasi un vezzo».
Disse che si era stufato della gente che dopo avergli dato per anni del fascista ora gli dava del comunista.
«Fini non è comunista, è troppo disordinato».
L’abitudine di dare del comunista a tutti l’ha inventata Berlusconi. Come il complotto dei giudici comunisti.
«Sappiamo tutti che Gherardo Colombo è di Magistratura democratica. Che Greco viene da Lotta continua. Che D’Ambrosio ha sempre scritto sull’Unità».
E la Boccassini?
«Per la Boccassini è un fatto personale, non è un fatto politico. Ha assunto il ruolo di vendicatrice».
Di Pietro è comunista?
«Di Pietro ha una storia strana. Lui stesso dice che viene dai Servizi».
Davigo è comunista?
«Davigo è uno che vuole cambiare il Paese, uno che pensa di sapere che cosa è il bene degli altri. D’altra parte, se fa il magistrato, deve avere questa presunzione. Disse: rivolteremo questo Paese come un calzino».
Dicono che voi fate leggi veloci e processi lenti.
«Non facciamo neanche leggi veloci per la verità».
Dicono che non fate altro che usare cavilli.
«Un avvocato ha il dovere deontologico di usare quello che lei chiama un cavillo».
Ma il politico che si difende a forza di rinvii fa una figuraccia.
«I rinvii si dimenticano, le condanne si ricordano».
Grazia Volo, difensore di Previti, mi ha detto che la cosa che la rende più felice è fare assolvere un reo confesso.
«Io sono molto più felice quando riesco a fare assolvere un innocente. Se faccio assolvere un colpevole sono solo orgoglioso».
Gioco della torre. Dotti o Ariosto?
«Eliminare una bella donna fa sempre dispiacere».
Secondo lei Dotti sapeva?
«L’Ariosto dice che sapeva».
Ma voi dite che l’Ariosto è inattendibile.
«Il tutto è accaduto in un momento in cui era molto forte il conflitto politico tra Dotti e Previti. C’è un riscontro logico, anche se non fattuale».
Boccassini o Colombo?
«Io sono tendenzialmente misogino. E poi non ho mai amato le persone aggressive. Butto la Boccassini».
Dell’Utri o Previti?
«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
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