- 6 Novembre 2003
Un signore distinto, pizzetto bianco da gentiluomo, tratto nobile, potrebbe sembrare un aristocratico del secolo scorso. Vincenzo Trantino è il presidente della Telekom Serbia, la commissione al centro di polemiche roventi per l’attacco violento che la destra ha rivolto a Fassino, Prodi e Dini e per quel gruppo di improbabili accusatori all’arrembaggio, guidato da Igor Marini. In mezzo a questa sarabanda, Trantino, avvocato catanese, parlamentare del Msi, e poi di An, da 9 legislature, è stato attaccato e criticato. Ma sempre premettendo che è un galantuomo. Un termine, galantuomo, che anche lui ama usare quando parla di se stesso.
Quanto tiene al suo galantomismo?
«Diceva Pirandello: “Essere eroi è facile, basta fare cose straordinarie”. Essere dei galantuomini è difficile. Occorre tutta un’esistenza. Non sgarrare mai. Mai abusare di un debole. Mai lucrare su una posizione. Dopo 31 anni di mandato parlamentare, 41 anni di toga, mi trovo nelle condizioni di rivendicare questo titolo. Al mio piccolo nipote di dieci mesi lascio un testamento spirituale: “Tuo nonno è stato un galantuomo, in senso siciliano”».
In senso siciliano?
«In senso siciliano galantuomo è camminare sui vetri. Da noi l’onestà costa di più.».
Lei ha detto di se stesso: «Ho armadi che profumano di pulito», «Sono un voltairiano che subisce il fascino delle persone per bene». Non dovrebbero essere gli altri a dire queste cose?
«Do l’impressione di uno che ci tiene ad accreditarsi? Non è così. È una sintesi della mia vita. Non sostengo di essere un uomo straordinario dico solo che sono un galantuomo. Una persona normale. quando essere normali è difficile. Faccio parte del partito trasversale della pubblica morale».
Insieme a chi?
«Nomi?».
Nomi.
«Giuliano Pisapia a cui affiderei le chiavi di casa. E poi Anna Finocchiaro, Gerardo Bianco, Giovanni Bianchi, Franco Marini Sergio Enrico Boselli, Ottaviano Del Turco. Ovviamente non parlo di quelli del centrodestra».
Non sarebbe elegante. Parliamo del partito trasversale della disonestà.
«Non posso fare nomi. Non è atto di viltà, un termine che non conosco. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».
Almeno quantifichiamo.
«Non esiste un Parlamento famelico dove si fanno “operazioni” disinvolte. C’è però un buon venti per cento di parlamentari, impuniti, che pensano che il tempo di queste “operazioni” non sia finito mai».
Lei, oltre che galantuomo, è molto vanitoso. Lo dicono tutti.
«Sì, è possibile. Ho fatto molte cose nella mia vita, alcune bene altre meno, ma ho subito la tragedia della periferia, non sono mai stato corteggiato dai giornalisti. In questo isolamento ci può essere qualche caduta nella vanità innocente, tipo: “Ma perché nessuno parla delle cose che ho fatto per i diritti degli esclusi, per dare forza ai più deboli?”. Io non sono un pavone. Sono un uomo che vuole far conoscere le battaglie che combatte. Se gli altri si dimenticano di me, rinfresco loro la memoria. Autotutela».
Per un galantuomo come lei, non è seccante trovarsi impelagato in una baraonda?
«Non lo dico per vanità: sono un capitano di lungo corso, abituato alla navigazione complicata. Però mi colpisce la solitudine. È una confidenza che le faccio. Ho scoperto la ferocia della politica. Una barbarie che non rispetta valori, schiaccia qualunque sentimento».
Lei pensava che avrebbero trattato meglio un galantuomo come lei?
«Non volevo privilegi. Ma per la prima volta mi capita di svegliarmi di notte. Avevo sempre dormito tutto d’un fiato, ininterrottamente. Adesso mi sveglio anche tre volte e faccio lunghe pause durante le quali mi interrogo: “Dove ho sbagliato?”».
In mezzo a questa Armata Brancaleone di testimoni falsi, riciclatori di danaro, spioni, testimoni anonimi.
«L’osservazione è pertinente, ma si risolve subito. Su sessantadue persone convocate quelle non in odore di incenso sono soltanto due. Paoletti perché fu il primo che venne e Marini attirato da Paoletti. Dopodiché zero. Altri non ne ho mai attenzionati! La Commissione non è la corte dei miracoli».
Torniamo alla vanità. Un mio collega l’ha vista al matrimonio di Emanuele Filiberto e dice che lei era elegantissimo ma di una eleganza un po’ circense. Sembrava un vecchio domatore di cavalli.
«Guardi la fotografia. Le sembro un domatore? Ero in tight, come richiesto a tutti gli invitati. Non era vanità».
Lei è uno snob?
«No. Accetto la definizione di raffinato, di elegante. Snob è frivolo».
Fa il baciamano.
«Lo considero igienico, un gesto di grazia nei confronti dell’altro sesso».
Alla sua età un avvocato generalmente insegna all’università.
«Il professore deve fare il professore, l’avvocato l’avvocato».
Taormina fa l’avvocato, il politico e il professore.
«Ha troppi talenti da impiegare».
Nella sua biografia lei ha scritto: «Definito il più giovane oratore d’Italia».
«Il mio primo comizio l’ho fatto a sedici anni. Ero uno sconosciuto. Quando passavano per le strade con la macchina e gli altoparlanti, dicevano: “Stasera parlerà il più giovane oratore d’Italia».
Il fenomeno.
«Mi chiamavano anche il trascinatore di folle».
Impegnativo.
«Disastroso. Una volta, alla fine di un comizio, mi issarono sulle spalle e mi portarono in trionfo fino alla sede del mio giornale, il Corriere di Sicilia. Quella volta peraltro non finì bene. Io ero monarchico, il direttore, Giuseppe Longhitano, socialista. Mi disse: “O il re o me”. Io scelsi il re. Qualcuno sostiene anche che mi chiamano “trascinatore di folle” perché una volta un fedelissimo, un certo Papotto, cercò di abbracciarmi mentre io chiudevo lo sportello e avviavo la macchina. Nello sportello rimase chiuso anche il cappotto di Papotto».
Il cappotto di Papotto.
«E Papotto, imprigionato dal cappotto, fu trascinato per un po’ dalla mia macchina».
Da qui trascinatore di folle. Anche come avvocato lei è un grande oratore vecchio stile.
«Con il vecchio codice nelle corti di Assise non bastava l’analisi della norma, ci voleva la mistica culturale per coinvolgere i giudici nelle grandi tragedie. Poi è venuto il nuovo codice che impone un tecnicismo diverso. Sicché quelli della mia generazione si sono trovati come chi nel cuore della notte deve andare in bagno e sbatte contro le porte perché è una casa nuova».
Nel processo Dell’Utri lei ha preso la parola e ha citato Aristotile, Esopo, Fedro, il paradosso di Epimenide, Boezio e Oscar Wilde.
«L’argomentare giuridico va temperato con passaggi di natura culturale. Come quando arredando una casa essenziale si mette anche qualche pezzo d’epoca. Questa è la mia cultura. Non è la ricerca della citazione colta. Proprio nel processo Dell’Utri io spiegai ai giudici la teoria del peso del fumo».
La spiega anche a noi?
«Come si fa a pesare il fumo?».
Ammesso che serva, non lo so.
«Basta pesare il sigaro prima di fumarlo e sottrarre quello che resta, la cenere».
E tutto ciò serve a Dell’Utri?
«Serve a dire che in quel processo c’è solo fumo».
Funziona?
«Fino a questo momento la mia vita ha avuto più successi che altro. Ho fatto con grande dignità la mia parte».
Lei è anche uno scrittore.
«Ho scritto tre libri. Memorie di un pubblico cittadino, Certi del dubbio e Dialogo con Timoteo. Li ha editi una delle case più eleganti di Sicilia e d’Italia, Edizioni Novecento di Palermo, che fa libri d’arte e libri preziosi».
Franco Cordero, sulla Repubblica, l’ha un po’ bistrattata.
«Cordero ha piegato al livore del momento il suo giudizio. Siccome ero un bersaglio in quel momento, chiunque poteva far partire la sua freccia. Beh, fino a quando non toccano il mio patrimonio morale, facciano pure, non mi interessa. C’è anche chi parla bene di me».
Chi?
«Due nomi per tutti: Giampaolo Pansa ha scritto che sono un galantuomo di provata onestà. Michele Serra ha usato tre espressioni che mi hanno dato conforto e balsamo: “Eleganza istituzionale, intelligenza politica, correttezza umana”».
Lei è ancora monarchico?
«Sempre».
Vorrebbe il re?
«Io voglio la monarchia».
Sarà difficile.
«Io vivo in una Repubblica e la rispetto. Per me la monarchia è un fatto culturale».
Mi faccia capire: se fosse per lei, farebbe tornare il re?
«Ovviamente costituzionale».
I nostri reali le andrebbero bene?
«La monarchia non fa diventare tutti belli, bravi e buoni».
E allora?
«Non si può giudicare un re se non ha fatto il re. L’ultimo re che ha avuto l’Italia, Umberto II, resta un grande italiano».
E il principe ereditario?
«Il principe ereditario non è il re. Comunque il nipote, Emanuele Filiberto, è un giovane maturo, intelligente e simpatico».
Taormina e Grazia Volo mi hanno detto che a difendere un innocente non c’è nessun gusto, che la massima soddisfazione si ha nel far assolvere un reo confesso.
«Io la penso diversamente».
È mai riuscito a fare assolvere un colpevole?
«Ho avuto un ricco carniere di difese. È possibile. Ma non ne ho contentezza».
Lei ha difeso molti imputati in processi per delitti di passione.
«Processi che si sono svolti alla periferia dell’impero. Se solo il 10 per cento fossero stati celebrati a Roma o a Milano io a questo punto avrei un palmarès diverso».
Che cosa pensa dei voltagabbana?
Cambiare idea si può. Però un deputato eletto non ha scelta: deve restituire i doni, vale a dire il mandato parlamentare. La crisi di coscienza è consentita. Ma la gente che mi ha votato ha diritto alle mie dimissioni».
Non mi ricordo un solo caso di dimissioni.
«Lei mi fa cadere nella trappola della autoreferenzialità. Io farei così ma sarei vanitoso se lo dicessi».
Sono peggio i voltagabbana o gli adulatori?
«Diceva Almirante che la gratitudine è il sentimento della vigilia. L’adulatore accontentato è perso. Ma è emarginabile, è innocuo».
Invece il voltagabbana?
«È pericoloso. Stravolge patrimoni di crediti e di fiducia. Non ha morale».
Voi ne avete avuti nel Msi?
«Oh! Tutti quelli della scissione. Si offrirono per aiutare un governo. Io ero il prediletto dell’onesto Alfredo Covelli. Ero il suo ventricolo destro. Però non l’ho seguito. Almirante non finì mai di apprezzare questo gesto».
Chi erano gli altri?
«Non erano mezze calzette. Nencioni, De Marzio, Roberti».
Avete avuto altri voltagabbana?
«I voltagabbana sono come la zizzania. Misserville era uno dei duri e puri. Per me resta ancora inspiegabile come abbia fatto a passare con Mastella e diventare sottosegretario del governo D’Alema».
Il gruppo di Mastella è composto per metà di voltagabbana.
«Ha poteri di seduzione straordinari. Per lui chi non esercita il potere è un castrato».
Lei è un castrato?
«Io sono coerente».
Pivetti, Scognamiglio, Dotti. Sembra che cambiar partito non renda.
«Sono perversioni. Come quelli che pur avendo una bella donna al proprio fianco vanno con le prostitute».
Lei che è un galantuomo non prova fastidio nello stare nella stessa coalizione con Borghezio o Boso? Vorrei vederla a cena con loro.
«A cena con Boso o con Borghezio non andrò mai».
E gli adulatori?
«Berlusconi esercita un potere magnetico, Bondi è attratto da lui. E anche Schifani. Sono pervasi dal suo magnetismo. Che esiste».
Anche lei ne è pervaso?
«Sì».
Lei pensava da bambino che avrebbe fatto l’avvocato e il parlamentare?
«Pensavo che avrei fatto il frate. Avevo una vocazione teologica. Frequentavo un convento francescano, avevo scelto anche il nome nel caso avessi preso i voti: padre Giovanni Crisostomo. Ricordo l’odore di muschio, di sacro, il “mattutino” recitato con i frati. Ricordo l’aria mistica, la permanente attesa. Vivevo in levità. Ma ero molto legato a mia madre. Non ce la feci a lasciare casa».
Che cosa non le piace di Fini?
«Non è passionale. Però per fare il leader serve di più essere razionali».
C’è stato un momento in cui stava per diventare segretario del Msi.
«Confermo questa storia. Ma Donna Assunta Almirante sta per mandare alle stampe un libro in cui descriverà questo passaggio. Per un atto di riguardo debbo tacere».
La commissione Telekom Serbia è ormai un teatro mediatico con i suoi personaggi. Che impressione le hanno fatto i vecchi dirigenti della Telekom, Pascale, Agnes?
«Uomini senza tempo e senza politica, sempre in prima fila, abbonati al successo. Personaggi culturalmente intriganti».
Tra i commissari, Calvi?
«Mi piace. Non l’ho mai sentito, tranne qualche eccesso, su posizioni ostili».
Taormina?
«È un solista e fa fatica a fare squadra. Però ha grande autonomia e acuta intelligenza».
Calderoli?
«È duttile nell’apprendimento. È medico ma parla di diritto con proprietà di linguaggio».
Vito?
«È un uomo chiuso, di difficile lettura. Gli hanno scaricato addosso di tutto».
Si è messo a fare l’investigatore privato.
«Se si fa una cosa per fini di mandato, tutto è giustificato. Se c’è devianza, nulla è giustificato. Io ancora non ho avuto la prova che Vito abbia deviato».
Chi, nella commissione, non si è comportato bene?
«Solo Kessler. Ha avuto un comportamento veramente volgare. Ha detto che non crede alle mie parole».
Brutta cosa per un galantuomo.
«Io gli ho risposto che gli auguravo di vergognarsi e che se questa vergogna riusciva ad essere intollerabile me lo facesse sapere».
Igor Marini?
«Forte memoria e lucidità espositiva. Ma segue una sua attività che potremmo definire pseudologia fantastica. Quando uno si innamora della propria versione fino a considerarla vera».
E la signora Dini?
«L’audizione più spettacolare. Ha posto subito la distanza fra noi e lei. Come dire: mi avete disturbata, ma lo sapete con chi parlate?».
Quali sono i giornalisti che non sopporta?
«Uno solo. Non so neppure come si chiama. Non mi saluta mai. Quando ci incontriamo a Montecitorio cammina dritto, fa finta di non vedermi. Ma lui non si cura di me, io non mi curo di lui e siamo pari e patta».
Un’ultima curiosità. Lei ha detto che tutto è cominciato con una telefonata anonima. Io ho provato a farle una telefonata anonima. Non ci sono riuscito. Non si arriva fino a lei, a San Macuto, da anonimi.
«È strano. Io ricevo tante telefonate di persone a me sconosciute».
La sua segreteria le passa telefonate anonime?
«No. Ma mi passa telefonate di gente che non conosco. Se il nome mi evoca qualcosa io rispondo».
Ma questa non è una telefonata anonima.
«Anonima nel senso che è una persona che non risulta a me nota».
E ricorda il nome dell’anonimo?
«No. Che importanza aveva per me? Diceva: l’avvocato Paoletti sa tutto. A chi interessava il nome? Mica mi stava dicendo che sapeva chi aveva commesso la strage degli innocenti».
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