- 15 Gennaio 2004
Appena assolto, Giulio Andreotti fece un discorso al Senato. Con una lunga citazione elogiativa nei confronti di Giuseppe Ayala, senatore Ds, ex pm del maxiprocesso di Palermo, ex sottosegretario alla Giustizia, amico personale di Giovanni Falcone. «Ai tempi di Ayala», disse Andreotti, «i pentiti venivano gestiti correttamente. Oggi mi faccio la stessa domanda che si fecero Ayala e Falcone: chi c’è dietro un pentito che mente? Chi lo manda a tentare di sviare le indagini?».
Senatore Ayala, un grande riconoscimento.
«Certo. Andreotti ha letto una mia testimonianza ai giudici di Caltanissetta nel processo per l’omicidio di Falcone. Si riferiva a Pellegritti, quel pentito che addirittura incriminammo per calunnia».
Andreotti intendeva che voi gestivate i pentiti bene e Caselli no?
«Bisognerebbe chiederlo a lui».
Io invece lo chiedo a lei.
«Andreotti sostiene che io e Falcone gestivamo i pentiti molto professionalmente».
E che se fosse continuato così?
«Avrebbe avuto meno guai pure lui».
Non era più gentile prendere le distanze da una interpretazione del genere? Era un attacco a Caselli.
«Io non me lo aspettavo. Ascoltando la citazione di Andreotti mi rendevo conto che lo faceva per stabilire una contrapposizione tra noi e Caselli. Ma lui parlava pro domo sua. Era un pezzo della sua difesa».
Lei è d’accordo su questa teoria?
«Non voglio fare il presuntuoso. Però è vero che qualche volta i pentiti non sono stati gestiti con la professionalità necessaria e che probabilmente noi avevamo. Alcuni colleghi si sono lasciati prendere per mano dai pentiti. Ma non sto pensando neanche lontanamente a Caselli».
Ai vostri tempi era più facile. Non c’era ancora la riforma dell’art. 513. Il fatto che il pentito debba venire in aula a ripetere le sue accuse non aiuta il pm. Lo stesso processo Andreotti, se fosse stato celebrato ai tempi vostri, avrebbe avuto un finale diverso?
«Direi di no. Quando c’è una assoluzione, vuol dire che l’impianto accusatorio non ha retto».
Una volta qualcuno le ha chiesto: «Lei preferirebbe essere giudicato da Carnevale o da Caselli?».
«E io ho risposto da Carnevale».
È una gaffe?
«No. È una battuta ironica. Legata alla separazione delle carriere. Caselli ha sempre fatto il pm, è abituato ad accusare. Carnevale ha sempre fatto il giudice. Mi raccomando, chiarisca che era una battuta».
Io lo chiarisco, ma lei lo ha chiarito con Caselli? Si è seccato? Le ha telefonato?
«Le battute non hanno bisogno di chiarimenti e non possono offuscare un’antica amicizia».
Dei ministri della Giustizia con cui ha lavorato chi le è piaciuto di più, Flick o Diliberto?
«Bravi tutti e due».
Un po’ di coraggio.
«Flick era sovrastato dalla sua competenza tecnica e capiva poco la politica. I suoi disegni di legge avrebbero avuto miglior sorte se avessero coinvolto gli altri. Diliberto era più politico».
Fu criticato quando andò ad accogliere Silvia Baraldini all’aeroporto.
«Non fu una bella mossa. Io non lo avrei fatto. Ma era in sintonia con la sua ideologia. E non era così grave, rispetto a ciò che vediamo oggi. Si ricordi che, senza l’intervento di Scalfaro, Berlusconi avrebbe fatto Previti ministro della Giustizia».
Che cosa pensa di Berlusconi?
«Mi fa simpatia. È un grande seduttore, una persona piacevolissima. Ma ha la struttura mentale dell’imprenditore. Non riesce a pensare che ai suoi interessi. E poi dovrebbe rassicurare gli italiani».
Su che cosa?
«Sulla sua altezza. Non l’ha mai comunicata. È più di un metro e 70 o meno?» Tutti se lo chiedono.
«È un nodo che non ha mai sciolto».
L’Italia ha diritto di sapere. Secondo lei?
«1,68. Ma non lo sa nemmeno lui. Non vuole saperlo. Pensa: il popolo mi ha votato e io sono alto il giusto».
Non sia perfido. Lei è uno e 92.
«Però abbiamo tutti e due la passione per il Milan».
È vero che lei ha una macchinetta del caffè dono di Berlusconi?
«Sì. Gaggia. Me la regalò per il Natale del 1993».
Generalmente regala orologi di lusso, collier.
«Io ho avuto una macchinetta di caffè che alla fine si è rotta».
Lanciamo il messaggio: la macchinetta si è rotta.
«Chi vuole capire, capisca».
Sandra Patrignani ha scritto: «Ho fiducia nella magrezza di Ayala».
«È una donna spiritosa».
Non è una grande definizione per un magistrato.
«Non mi offende».
Cesara Buonamici ha detto: «Ha i modi del vero signore». Cristina Parodi: «Gli giova il modo in cui si porge». Miriam Mafai: «Alto, elegante e bon vivant». Tutti giudizi leggeri.
«Un amico una volta mi ha spiegato: "Tu non sei un uomo, sei una icona". A nessuno viene in mente di dire che sono un magistrato straordinario, un uomo che ha rischiato la vita. Viene dato per scontato. Una volta Marcello Sorgi, direttore della Stampa, mi disse: "Gli uomini importanti non sempre sono simpatici, non sempre eleganti, quasi mai bon vivant. Allora meraviglia uno come te". Capisce?».
Capisco.
«Però Antonino Caponnetto disse a Saverio Lodato, disse: "Ayala era l’unico magistrato di cui mi fidavo ciecamente". Caponnetto non ha pensato alla mia eleganza».
Giancarlo Perna ha scritto che anche Falcone la considerava piuttosto «leggero». La chiamava borotalco.
«Una bufala. Perna avrebbe dovuto chiedersi perché Falcone volle che io fossi per dieci anni il pm dei processi istruiti da lui. Perché chiese a Paino, procuratore della Repubblica, di mandare sempre Ayala ai dibattimenti dei suoi processi».
Lei rimase coinvolto in una storia di debiti.
«Uno scoperto in banca di 500 milioni. Ma riguardava l’attività di mia moglie, una signora benestante alla quale capitò di dover ristrutturare immobili di sua proprietà. Lo scoperto, comunque, fu onorato nei tempi previsti».
Non era una furbata avere un conto corrente insieme.
«Tra marito e moglie è del tutto normale. E poi chi poteva immaginare che si indagasse sui miei conti? Nello stesso periodo chi indagava sui conti di Squillante e di Metta?».
Perché successe?
«Fu un periodo di follia, si disse che giocavo d’azzardo, che avevo giri di belle donne».
Che fosse un farfallone era di dominio pubblico.
«Ma era falso. Io ho avuto, è vero, una storia parallela a quella del mio matrimonio. Con quella che è diventata la mia seconda moglie. Non lo negherò mai, non me ne vergognerò mai».
Mai giocato d’azzardo?
«Ho giocato. Come qualsiasi italiano. Mi sono divertito. E non gioco più da anni».
A che cosa giocava?
«Chemin de fer durante le feste, e qualche poker. A casa o al circolo. Giocavamo anche a una specie di ramino che chiamavamo "sballo"».
E Casinò?
«Sono i luoghi più tristi del mondo. Avrò fatto qualche puntata alla roulette».
Vincendo?
«Vincite clamorose mai. Qualche vincitina. Io non sono un perdente».
Lei è senatore ma non si è mai dimesso dalla magistratura. Doppia pensione.
«Lo prevede la legge. Tutto solare e trasparente».
Forse non proprio elegante.
«Non faccio di mestiere il parlamentare. Se smetto voglio tornare a lavorare. Odio fare il pensionato».
C’è chi sostiene che non sia corretta questa intercambiabilità tra magistratura e politica.
«Il problema c’è. Ma devo risolverlo sulla mia vicenda personale?».
Quattro legislature, la prima in Sicilia con i repubblicani.
«Poi in Romagna, in Puglia e in Basilicata».
Un grande girovagare.
«Non potevo presentarmi in Sicilia. Con tutti quelli che incontri c’è il rischio che salti fuori qualche foto mentre baci un capobastone».
Ha mai baciato qualche mafioso?
«Credo di no. Stia sicuro che me lo avrebbero fatto notare subito».
E quella fotografia insieme a Michele Greco?
«Appunto. Ero andato con degli amici in un locale pubblico ad ascoltare Peppino Di Capri. Greco si sedette al tavolo accanto, per i fatti suoi. C’era un fotografo. Nella foto vennero tutti, quelli del mio tavolo e quelli del suo tavolo. E comunque a quel tempo Greco era incensurato. Aveva perfino il porto d’armi».
Quella foto servì alla Parenti per gettare un’ombra su di lei. E lei rispose che era incapace o matta.
«Ma parliamo ancora della Parenti? È un reperto».
Se alle prossime elezioni vincerà il centro-sinistra, lei farà il ministro?
«Sono stato due volte vicinissimo a fare il ministro della Giustizia, prima con Ciampi e poi con Prodi. Quando un autobus è passato due volte è difficile che passi la terza».
Perché fallì con Ciampi?
«Perché ero repubblicano e La Malfa non votò la fiducia al governo Ciampi».
Le è dispiaciuto?
«Fare il ministro non mi sarebbe dispiaciuto. Ma non ne ho fatto una malattia. Oltretutto quello della Giustizia è un ministro a metà, perché la giustizia è gestita dai magistrati. Sui quali non ha alcun potere».
È il grande cruccio di Castelli.
«Castelli minaccia un’ispezione via l’altra. È solo propaganda politica. Se fossi io il ministro non farei propaganda. Ma interventi per fare funzionare meglio la Giustizia».
La seconda volta, con Prodi, che cosa non funzionò?
«D’Alema mi disse che aveva pensato a me ma Prodi aveva preso un accordo con Flick».
C’è stata una terza volta. Quando glielo chiese Berlusconi.
«Io ero il presidente di Alleanza Democratica».
Il partito di Ferdinando Adornato.
«E di Willer Bordon, Giorgio Bogi, Enzo Bianco, Giovanna Melandri».
Ci fu una riunione con Berlusconi.
«Mica segreta. Berlusconi aveva vinto le elezioni e iniziò le consultazioni. Per Ad andammo io, Bordon e Bogi e ci incontrammo con Berlusconi e Letta. Berlusconi lasciò intendere che gli sarei piaciuto come ministro della Giustizia».
Lasciò intendere?
«Magari era solo una battuta. Io dissi: "Chi perde non va a fare il ministro". Finì con una risata. Io non sono un voltagabbana».
Infatti ha detto: «Sarò molto severo con chi si è fatto eleggere in uno schieramento e va con gli altri». Parlava di Mastella?
«No. L’operazione Mastella era tutta politica. Caduto il governo Prodi, c’era bisogno di un governo perché eravamo sul filo di lana per l’ingresso dell’euro. Mastella non fu voltagabbana. Ferdinando Adornato, invece, si inventò lo slogan: "Non farti telecomandare"».
E poi è passato dalla parte del telecomando.
«Questo lo dice lei».
E Paolo Guzzanti?
«Oggi dice cose molto di parte, di quella parte che prima non era la sua parte. L’Italia è un Paese di navigatori. E lo skipper che cosa fa?».
Che cosa fa lo skipper?
«Legge il vento e orienta la vela in funzione della direzione».
Lei questo lo disse anche di padre Pintacuda.
«Padre Pintacuda è uno, ma l’elenco degli skipper è lungo: ad onta del suo peso, come skipper anche Giuliano Ferrara non è male».
Che cosa pensa della televisione del centro-destra?
«Esagera».
Però, anche quella del centro-sinistra?
«Sia la destra che la sinistra hanno mangiato tanto. Ma la sinistra ha usato coltello e forchetta, la destra ha mangiato con le mani. È una questione di stile, ma anche di sostanza».
Sono più voltagabbana a destra o a sinistra?
«I casi più clamorosi sono da sinistra a destra».
Misserville era nel governo di centro-sinistra in cui c’era anche lei. E veniva dal Msi. Non era un voltagabbana?
«Accidenti. Fu addirittura invitato ad uscire dal governo».
Giorgio La Malfa è voltagabbana?
«Suo padre diceva che il Pri rappresentava l’altra sinistra. Comunque il congresso ora possono farlo in una cabina telefonica».
È peggio un voltagabbana o un adulatore?
«L’adulatore non fa danni. È solo stupido».
Lei viene adulato?
«Non mi sono mai sentito adulato. Apprezzato sì».
Più da magistrato o da politico?
«Da politico. Ero un personaggio emergente».
Aveva una esposizione mediatica un po’ esagerata.
«Me la portavo dietro dai tempi del pool antimafia».
Anche Di Pietro è stato un fenomeno di adulazione?
«Un fenomeno da psicologia di massa. Se a quei tempi ci fosse stata l’elezione diretta del capo dello Stato sarebbe stato un gran bel candidato».
Che cosa ricorda dei tempi del pool di Milano?
«Che ero preoccupato, anche se molti di quei magistrati li sapevo professionalmente molto attrezzati».
E molto fotografati, intervistati, protagonisti. Voi del pool di Palermo invece?
«Grande riservatezza. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare. Il fenomeno del pool di Milano fu una cosa straordinaria. Faceva saltare un sistema di potere consolidato che sembrava invincibile».
Torniamo agli adulatori. Dove allignano?
«Sono affascinato dal trio Vito, Schifani, Bondi. Non si può accendere una televisione senza beccarsi una dichiarazione di Schifani. Ma ora Bondi lo sta fregando».
Violante ha detto che la mafia non ha più paura da quando il premier è Berlusconi.
«Una frase poco opportuna. Io non l’avrei mai detta».
Ma lo pensa?
«Ci sono cose che si pensano e non si dicono».
Mi dica quello che pensa.
«Alcune leggi di fatto premiano chi pratica l’illegalità. I condoni per esempio. Ma anche le rogatorie, il falso in bilancio, la Cirami, il Lodo Schifani. Il mafioso, se vede premiare l’illegalità, pensa: "Ottimo". Insomma la mafia non soffre per queste leggi».
Che giudizio dà degli avvocati parlamentari?
«Avvocati in Parlamento ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Ma le pare normale che il difensore del premier, Gaetano Pecorella, persona intelligente, simpatica e preparatissima, sia presidente della commissione giustizia della Camera?».
Lei ebbe un momento di freddezza con Falcone.
«Roba da siciliani permalosi. Ma la colpa era sua che era più permaloso di me. Qualcuno gli aveva riferito che non volevo andare a Roma con lui, per non essergli sottoposto. Era falso, ma era sgradevole. Lui avrebbe dovuto venire da me e dirmi: "Ma che sei matto?". Invece rispose: "Lui? Sono io che non ce lo voglio"».
Due siciliani doc.
«Stronzi. Ci perdevamo in sciocchezze nonostante fossimo così amici che sua moglie ci chiamava "i due fidanzati". Eravamo legatissimi, ai limiti dell’omosessualità».
Durò tanto la vostra incomprensione?
«Un po’. Poi ci siamo visti a cena. Alla Fornarina, saletta riservata, io e lui soli, cinque minuti per chiarire tutto e poi siamo scoppiati a piangere, due bambini, con le mani nelle mani attraverso il tavolo. Quei cinque mesi erano scomparsi».
E’ un narciso.
Se non ricordo male, in una intervista aveva rinnegato di essere stato un P.M.del POOL con Falcone, aveva asserito di essere un magistrato giudicante.
E’ stato il primo (uno dei primissimi) ad arrivare sul luogo della strage dove morì Borsellino, pare che la famosa agenda rossa,venne recupearata da lui che la consegnò all’ufficiale dei Carabinieri e poi sparita.
Quando avvenne la strage di Capaci dove mori Falcone, quel giorno con Falcone ci doveva essere anche Ayala, come avveniva in quasi tutti i fine settimana, quella volta Ayala declinò l’invito di Falcone, restò stranamente a Roma.
Nel geergo mafioso: un condannato a morte viene evitato da tutti.
Le circostanze lo accusano, la verità la sa solo lui e la sua coscienza.