- 28 Aprile 2005
La «jena», una volta, non si sapeva chi fosse. Scriveva sul manifesto piccolissimi corsivi, quasi delle battute, e faceva arrabbiare molta gente. Adesso si sa che è Riccardo Barenghi, ex direttore del Manifesto, oggi approdato alla Stampa. Dal quotidiano comunista a quello della Fiat. Jena voltagabbana?
Hai fatto il percorso inverso di Furio Colombo.
«Non mi fa impressione. Non ho mai pensato di passare tutta la mia vita al manifesto. E non ho mai desiderato andare in un altro giornale militante, tipo Liberazione o l’Unità. Volevo andare in un giornale vero, con un editore vero».
Ti hanno accusato di avere tradito?
«No, ho sentito molto affetto anche da parte di chi, nell’ultimo anno, mi ha combattuto».
Però, una volta, a Omnibus, la trasmissione di La7 condotta da Antonello Piroso, prima ancora che tu lasciassi il manifesto, Vauro, commentando la tua famosa frase («Tra gli americani e i tagliatori di teste iracheni preferisco gli americani») disse: «Barenghi è cambiato. Vuole andare a lavorare al Corriere». Aveva capito tutto o è un mago?
«Beh, intanto non è il Corriere, ma è la Stampa».
Particolare ininfluente.
«Ci rimasi molto male. Avevo scritto quelle cose perché le pensavo. Dopo Omnibus, lo stesso giorno, ci fu una discussione in redazione. Protestai. Tutti dissero che Vauro aveva sbagliato».
E Vauro che cosa disse?
«Rivendicò il suo diritto di pensarlo. E se ne andò dalla riunione in maniera un po’ arrogante».
E qualche mese dopo sei andato alla Stampa.
«Vista così puoi pensare che avesse ragione Vauro. Invece aveva torto. E il sospetto di opportunismo era un po’ infamante».
Però…
«Però nella sua infamia ha avuto culo».
Non sei un voltagabbana.
«Lo sarei se smettessi di scrivere quello che penso».
Politicamente sei sempre stato coerente.
«Da ragazzino, per un po’ di tempo, sono stato di Lotta Continua».
Perché l’hai lasciata?
«Ho quasi smesso di fare politica quando ho visto quello che stava succedendo. Ricordo le prime pistole all’Università. Andavo alle manifestazioni ma con sempre minore entusiasmo. La cultura politica in realtà me la sono fatta al manifesto».
Che adesso però lasci.
«Quando sono arrivato io, tanti anni fa, c’era gente che già se ne andava, Gianni Riotta, Ritanna Armeni. Ma non esisteva la categoria del tradimento per nessuno. Se ne sono andati tanti dal manifesto, Mauro Paissan, Giorgio Casadio, Grazia Gasparri, Tiziana Maiolo».
Non è voltagabbana nemmeno la Maiolo?
«Lei sì. Era una vera estremista ed è finita con Berlusconi. Nessuno di quelli che ho conosciuto al manifesto è andato con Berlusconi. Io non andrei mai a lavorare per lui».
Chi sono gli altri voltagabbana?
«Adornato sicuramente. Tutti questi ex comunisti, ex socialisti che sono finiti con Berlusconi, non erano mossi da grandi afflati ideali. Penso piuttosto a ragioni di potere, soldi, visibilità, carriera, successo. Da Adornato non me lo sarei aspettato. Ci conoscevamo, ci frequentavamo. È un voltagabbana anche Guzzanti ma di lui non mi frega niente: non l’ho mai considerato della mia parte».
Altri ancora?
«Ferrara è un voltagabbana che rivendica e argomenta. Ha fatto un percorso lungo, duro, violento. Ha cambiato prospettiva, posizione, idea. Mastella non è un voltagabbana. La sua coerenza è essere Mastella. Si allea con chi, meglio degli altri, lo fa essere Mastella».
Quando Colombo andò all’Unità ti fece impressione?
«Andò a fare il direttore militante, scavalcando tutti in demagogia. A me l’Unità di Colombo non è mai piaciuta. Ha avuto la sua efficacia. Ha venduto. Ma era talmente esagerata che se fosse scomparso da un giorno all’altro Berlusconi non avrebbe venduto più una copia. Era un giornale scandalistico».
Colombo è un caso di voltagabbana?
«Io non lo so che cosa pensasse Colombo quando era presidente della Fiat Usa e scriveva editoriali per la Stampa o per Repubblica. Certo non era il Colombo dell’Unità. Era un altro Colombo, progressista, moderato, liberale».
Tu invece sempre di estrema sinistra.
«Andavo al Liceo sperimentale della Bufalotta. Molto di sinistra. Lotta Continua, manifesto, Fgci».
Il tuo massimo di illegalità?
«Non ho mai tirato molotov. Al massimo sampietrini. Una volta ho partecipato a una spedizione punitiva al bar del Piazzale delle Muse contro i fascisti. Andammo alle otto di mattina, troppo presto, e trovammo solo uno che stava tranquillamente bevendo un caffè. Timidamente ci avventammo su di lui. Lui fu bravissimo, assunse una posizione difensiva eccellente e non si fece nemmeno un graffio. Io ero giovane e mingherlino ma volevo partecipare e mi feci largo tra i più grossi di me e andai a dargli due pugnetti in pancia. Lui mi guardò come se fossi un moscerino e con una pedata mi allontanò, come a dire: “Lasciami perdere che ho da fare con cose serie”. Fu una frustrazione terribile».
Perché hai deciso di fare il giornalista?
«Ero convinto di sapere scrivere. Ma mi attirava anche il fatto che vedevo mia madre, Vanna Barenghi, giornalista di Repubblica, che andava a lavorare tardi. Ero un ragazzo, facevo tardi la sera e pensavo che fosse il lavoro ideale per me visto che la mattina mi piaceva dormire. Avevo aperto con degli amici un negozio di roba usata e poi una discoteca rock. Cominciai a lavorare di giorno al manifesto e di notte nella discoteca. Al manifesto non guadagnavo niente, in discoteca 18 milioni l’anno. Ma alla fine ci chiusero per troppe canne. La polizia fece un’incursione, tutti cominciarono a buttare la roba che avevano addosso ma alla fine i poliziotti trovarono una cinquantina di grammi di hashish. Arrestarono solo noi che l’unica colpa che avevamo era quella di gestire il locale. Sei giorni a Regina Coeli. Dopo due anni, assolti. Nel frattempo mi assunsero al manifesto».
E negli anni sei diventato direttore. Ma la popolarità l’hai conquistata con la Jena. Quante ne hai scritte?
«Più di mille».
Le migliori?
«Mi vengono meglio quelle sulla sinistra. L’autosatira è più efficace».
Era il caso di scrivere che preferivi gli americani ai tagliatori di teste iracheni?
«Prima di pubblicare quella frase la feci leggere in redazione. Molti non erano d’accordo ma nessuno disse di non pubblicarlo. Io dissi: è una provocazione, vediamo che cosa succede. Non successe nulla. Solo dopo la paginata di Repubblica si scatenarono le polemiche. Quasi tutti mi davano torto. L’unico che mi dava ragione, ahimè, era Marcello Veneziani».
E sul manifesto ti attaccarono. Prima un editoriale del direttore Gabriele Polo e poi uno di Rossana Rossanda.
«Quello della Rossanda fu quello che mi dispiacque di più».
Anche quando ti avevano sfiduciato non era stato un bel momento.
«Fu la somma di tante cose quella sfiducia. Politica, disagio, voglia di cambiamento».
Da una parte Gabriele Polo, Loris Campetti, Tommaso Di Francesco, Roberto Zanini, Carla Casalini. Dall’altra Norma Rangeri, Giovanna Pajetta, Andrea Colombo, Cosimo Rossi.
«Io e Roberta Carlin, che era il mio vice direttore,pensavamo che il manifesto dovesse essere prima di tutto un giornale. Altri pensavano che dovesse essere un progetto che usava il giornale per fare politica».
È vero che sei narcisista?
«Piacere non mi dispiace».
Dieta, ginnastica, vestire bene, cravatta…
«Una volta la mettevo spesso. Adesso meno. Ma sono contro la sciatteria. Diete non ne faccio, nemmeno ginnastica. Gioco a tennis e a pallone».
Sei permaloso e hai vissuto male la tua sconfitta. Non volevi nemmeno lasciare la tua stanza per ripicca.
«Era la stanza più bella del giornale. Quella di Pintor. Dopo la sfiducia mi sono detto: “Se me la chiedono, discutiamo. Ma non sarò io ad offrirla”. Non mi sono barricato, sono solo rimasto lì. E con me è venuta Roberta Carlin, così abbiamo liberato una stanza per il nuovo direttore».
È vero che ti dà la linea Giuliano Ferrara?
«Me lo ha chiesto Serena Dandini. Io ho risposto, scherzando, che semmai sono io che scrivo gli articoli di Giuliano».
Sei stato spesso a Otto e mezzo?
«Sì. Mi piacciono le trasmissioni in cui si può parlare. Nelle altre appena apri la bocca ti fanno segno che devi chiudere. Una trasmissione buona è anche Omnibus. Ma è la mattina presto, a un’ora infame».
Porta a porta?
«Ci sono andato due volte. La seconda ho litigato con Vespa e me ne sono andato. Era la notte prima della guerra in Iraq. C’era un plastico e un generale che piazzava le truppe. Non ce l’ho fatta più: “Non potete giocare a Risiko sapendo che fra poco moriranno non si sa quante persone”. Non sono stato più invitato».
Chi è che non ti piace a sinistra?
«Fassino non mi fa impazzire. Di Bertinotti non sopportavo il velleitarismo. Ma adesso gli riconosco una grande capacità politica. D’Alema mi ha sempre fatto incazzare ma anche incuriosire. Rutelli mi fa cadere le braccia. È un voltagabbana. È diventato un democristiano, proprio lui che aveva l’antidemocristianità nel sangue. Prodi è una tristezza: questa replica dieci anni dopo mi immalinconisce. Chi proprio non mi piace è Marco Rizzo. È un Cossutta senza la storia, l’intelligenza e i pregi di Cossutta. È il prototipo del comunista trinariciuto».
E a destra chi ti piace?
«Alemanno come ministro lo preferisco a Treu».
A sinistra piace Tremaglia.
«Sarà anche una brava persona. Però è un fascista. E quando meno se lo aspetta gli scappa di chiamare “culattone” un omosessuale. Riflessi condizionati. Anche Fini è pavloviano: non è fascista, ma ogni tanto – come direbbe Altan – gli vengono in mente cose fasciste che non condivide».
A sinistra piacciono anche Follini e Casini.
«Non mi convince questa sinistra che cerca il campione dall’altra parte. Come quando auspicavano la scesa in campo con l’Ulivo di Antonio Fazio. Non sono compagni che sbagliano. Sbagliano e basta».
Che tv guardi?
«Poco ma quasi tutto. I talk show, ovviamente, ma anche qualche fenomeno horror, per esempio Punto a capo».
Se comandassi tu in Rai?
«Abolirei l’Isola dei famosi e succedanei».
Quali giornali di sinistra ti piacciono? Riformista, Liberazione, l’Unità?
«Il Riformista è di sinistra?».
Claudio Velardi…
«Appunto. È di sinistra?».
Parliamone.
«Nel 1995 chiesi a D’Alema, segretario dei Ds: “Velardi che ruolo ha?”. Lui mi rispose: “Truppe speciali”. Capito? Velardi è truppe speciali. Prima lavorava per D’Alema adesso lavora per se stesso».
Liberazione?
«Il tentativo di Sansonetti è aprire il giornale, far scrivere gente, stimolare discussioni. L’unica cosa che può fare con un giornale di partito è spartitizzarlo il più possibile».
Ma ti piace?
«Un po’ più di prima».
L’Unità?
«Quella di Colombo non mi piaceva. Ma non mi piaceva nemmeno quella prima».
Gioco della torre. Bertinotti o Cofferati?
«Cofferati non ha fatto quello che doveva fare. Io avevo puntato anche il giornale su di lui. Era il nuovo leader della sinistra e si è tirato indietro. Ha deluso alcuni milioni di persone».
Codardia?
«La parola codardia non mi piace. Però non ha avuto il coraggio necessario».
Buttiglione o Mastella?
«Butto Buttiglione. Il compagno Mastella non si tocca. Non posso buttarlo dopo che sul Manifesto abbiamo fatto il titolo “Falce e Mastella”».
Sgarbi o Ferrara?
«Butto Sgarbi perché Ferrara mi invita in televisione».
E allora chi butti fra Vespa e Costanzo?
«Vespa è pericoloso. È uno dei quattro, cinque uomini più potenti d’Italia. C’è chi dice che Porta a porta è la terza camera. Io direi la prima. Anzi l’unica».
Bobo o Stefania?
«Bobo lo conosco e mi è simpatico. Stefania non la conosco e non mi è simpatica».
Cirino o D’Antoni?
«Se mi alleo con Cirino so con chi mi alleo. D’Antoni non so chi sia. Non lo sapevo nemmeno quando era segretario della Cisl. È un personaggio di cui non mi fido».
Di Cirino ti fidi.
«Neanche di Cirino mi fido. Ma non è ambiguo come D’Antoni».
Previti o Dell’Utri?
«Butto Previti. È meno intelligente e colto. Dell’Utri è meno volgare e rozzo».
Secondo te la P2 è stata davvero sciolta?
«Non lo so. Ma ormai non ce n’è più bisogno. Quello che gli amici di Gelli facevano in maniera occulta adesso si fa alla luce del sole. Interessi e poteri convergono».
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