- 8 Settembre 2005
Willer Bordon divenne famoso, tanti anni or sono, perché pur iscritto al Pci, prese la tessera radicale. Da allora ha fatto un lungo percorso: dal movimento referendario, che ha introdotto il bipolarismo in Italia, ad Alleanza Democratica e all’Asinello. Adesso è nella Margherita dove non ha perso occasione di scontrarsi con Francesco Rutelli ogni volta che riteneva giusto difendere Romano Prodi. Un ex radical-comunista (Bordon) fa il tifo per un ex democristiano (Prodi). Sarà strano?
«Non di più di quanto non possa sembrar strano un ex radicale (Rutelli) che guida un partito pieno di ex Dc».
Rutelli fa di tutto per cancellare il suo passato radicale.
«Ma è stato uno dei capi, l’allievo più importante di Pannella».
Allora è un voltagabbana.
«No: ha sviluppato un suo percorso politico di grande coerenza, anche se negli ultimi tempi aveva fatto delle scelte politiche gravissime».
Dopo averlo triturato, adesso voi prodiani sulla questione morale siete dalla stessa parte di Rutelli.
«Con la stessa franchezza con cui lo ho criticato, non ho imbarazzo ad ammettere che sulla questione del rinnovamento delle regole si è dimostrato all’altezza di un leader».
E sul lato personale?
«La sua conversione religiosa è reale. Ma è stato grave che, sulla fecondazione ad esempio, l’abbia trasferita sul piano politico».
Basta Rutelli, veniamo a te.
«Io vengo dalla storia della sinistra anche se ho partecipato a molte battaglie radicali. Devo moltissimo a due persone, mio padre, Claudio, comunista comandante partigiano, e mio nonno, Francesco, anarchico libertario. Questo mi preservò da alcune deviazioni dogmatiche».
La doppia tessera fece arrabbiare i comunisti.
«I compagni facevano finta di non vedermi. Non passava direzione che Pajetta non chiedesse ad Occhetto ragione della mia iscrizione. Ma Occhetto stava trasformando il partito e non poteva cacciarmi. Erano in trappola. Il povero Petruccioli, mandato da Roma, mi disse: “Bisogna uscirne, troviamo una soluzione”. E trovammo la soluzione che la tessera l’avevo chiesta ma non mi era stata inviata».
Un bell’esempio di ipocrisia.
«Per i radicali ero iscritto e per i comunisti no. Partecipai per quasi un anno alla vita del partito radicale».
Una vergognosa pastetta.
«Grazie a questo mio ruolo riuscii ad avvicinare il partito alle tematiche radicali e feci andare Occhetto a parlare ad un consiglio federale radicale».
Quando fu baciato da Cicciolina?
«Il mitico servizio d’ordine del Pci fu preso per i fondelli da Cicciolina. Tutti sapevano che ci avrebbe provato. Ma Cicciolina fu bravissima e approfittò di un momento di distrazione».
I radicali una volta erano vicini alla sinistra.
«Ma oggi la maggior parte sono a destra. E con questa destra è penoso. Vederli amoreggiare con i cosiddetti “teo-con”…».
Anche Marcello Pera era vicino ai radicali.
«Io lo incontravo ai convegni radicali come ospite d’onore. Ci sono due Pera, prima e dopo la cura. Prima era giustizialista da far paura ad Antonio Di Pietro e da mettere in difficoltà Paolo Flores D’Arcais. Oggi è ultragarantista. Prima era oltre modo laicista, diceva peste e corna della legge sulla fecondazione. Oggi la difende».
Voltagabbana?
«Di quelli che mi danno fastidio perché non spiegano, hanno ragione sempre, prima e dopo, con la stessa prosopopea. Cambiare opinione si può, ma poi si sta a casa».
Sei stato uno dei più giovani amministratori d’Italia.
«Il più giovane. A 21 anni ero vicesindaco. Sono una strana bestia libertaria e di governo, due aspetti che si sono continuamente coniugati, in un equilibrio che quando funziona è meraviglioso anche se a volte ti porta a essere oppositore in casa tua. È un prezzo che si paga alla coerenza».
Per essere coerente sei passato da troppi partiti.
«La coerenza deve essere nei contenuti. Chi è più coerente? Chi cambia uno strumento in modo laico per raggiungere i medesimi obiettivi, o chi, come Gianfranco Fini, fu uno dei più forti oppositori del sistema maggioritario per poi diventarne sostenitore quando si è accorto che ne aveva grandi benefici? I partiti sono strumenti non chiese».
Sei stato vicino ad Adornato, Segni, Parisi, Di Pietro, tutti personaggi inquieti…
«Adornato si è dimenticato di quello che era. C’è qualche cosa di incredibile nel suo comportamento che lo fa diventare quasi caricaturale. Le cose che dice ora sono esattamente quelle che diceva allora…».
Ma allora è coerente…
«… basta cambiare la parola sinistra con la parola destra. Ha scoperto la scambievolezza dei poli. È come se avesse un’arma e la consegnasse prima a uno dei contendenti e poi al suo avversario».
Perché?
«E chi lo sa? Megalomania, desiderio di essere sempre protagonista. Un protagonista irrisolto, perché poi, poveretto, non è mai diventato direttore di un quotidiano come desiderava, non è mai diventato segretario di un partito di una certa decenza. Ed è addirittura l’unico di Alleanza Democratica che non abbia fatto esperienza di governo».
Gli altri?
«Peppino Ayala, sottosegretario alla Giustizia, Giovanna Melandri, ministro dei Beni Culturali, io ministro dell’Ambiente, dei Lavori Pubblici e sottosegretario dei Beni Culturali, Enzo Bianco ministro dell’Interno, Giorgio Bogi ministro per i Rapporti con il Parlamento».
E lui niente.
«Niente, mai, pur avendo brigato per il diritto e per il rovescio. L’ultimo rimpasto era più difficile restar fuori che entrare. È stato fatto ministro un signore, Caldoro, del quale la maggior parte degli italiani ignorava l’esistenza. Fra ministri, sottosegretari e viceministri sono arrivati a novantanove. E Adornato niente».
Voltar gabbana non paga…
«Adornato è uno spretato. Ha un tale livore verso quello che è stato, che è imbarazzante».
Chi sono i bolliti della politica italiana?
«Personaggi un po’ patetici che continuano a perpetuare storie che non esistono più, tipo De Michelis e La Malfa».
Filippo Ceccarelli ti ha definito campione della visibilità.
«Io faccio cose visibili. La mia è una visibilità conquistata, non ereditata».
Guido Quaranta ti ha definito gran navigatore. Ti chiamavano Pigafetta…
«Non mi chiamavano Pigafetta. Il soprannome che ho è Tex Willer. Oppure Killer Bordon. Me lo dette Storace quando nel ’96 sconfissi Gasparri».
I comunisti li hai fatti arrabbiare spesso.
«Fin da giovane. Quando ero sindaco di Muggia promossi un referendum contro la costruzione di una centrale elettrica. Si arrabbiò il professor Ippolito, responsabile delle politiche energetiche del Pci».
Poi quando hai difeso un fascista.
«Era un ragazzo accusato di far parte dei Nar, in prigione da due anni e sei mesi, che chiedeva la fissazione della prima udienza. Faceva lo sciopero della fame e pesava 49 chili. Scrissi, come sindaco di Muggia, una lettera al Piccolo chiedendo ai due deputati di Trieste, Antonino Cuffaro e Sergio Coloni, di fare qualcosa. Successe di tutto. Vennero delle donne in Comune a mostrarmi i numeri tatuati sulla loro pelle dai nazisti. Ci fu perfino uno sciopero della Cgil contro di me. Arrivò alla fine a risolvere la faccenda Luciano Violante. Non potendo darmi torto finì tutto con un documento in cui venivo considerato colpevole di non aver avvisato il partito. La solita doppia morale».
Natta ti tolse il saluto per la campagna antiproibizionista.
«Avevamo raccolto, grazie a Vanna Barenghi, la mamma di Riccardo Barenghi, 24 firme, compresa quella di Cossutta».
Litigavi anche con D’Alema.
«Una volta abbiamo litigato al telefono con urla altissime. Io ero per strada a Campo de’ Fiori e si affacciarono tutti per vedere che cosa succedeva. Un’altra volta lo definii caporal maggiore. Subito dopo scoppiò in Aula quasi una rissa tra sinistra e fascisti. Lui corse verso di me e mi disse: “Se nella confusione ti arriva un pugno volevo che tu sapessi che non è un fascista ma sono io!”».
Da ministro dei Lavori Pubblici hai promesso lo smantellamento dei cartelloni pubblicitari. Sei uno di quelli che promette e non mantiene?
«Appoggiai la battaglia di un ambientalista storico come Athos De Luca. Ottenemmo anche qualche primo risultato, ma quel governo durò solo sei mesi. Adesso ho un’altra idea…».
Ti stai ricandidando?
«Ce ne sono già troppi di ministri per il prossimo governo Prodi».
L’idea?
«Riqualificare il paesaggio e il troppo costruito. C’è da lavorare per i prossimi cinquanta anni. Buttare giù e ricostruire con qualità. Riqualificare tutte le periferie degradate».
Da sottosegretario di Veltroni volevi dare nuove divise ai custodi di Pompei. L’hai fatto?
«Volevo che indossassero la divisa, questo sì, perché molti lavoravano in borghese per fare il doppio lavoro. Si facevano pagare anche dai turisti».
Da ministro dell’Ambiente hai moltiplicato le domeniche a piedi…
«Sono dei palliativi ma creano una coscienza diffusa. Ebbi contro i cosiddetti “benaltristi”, quelli che qualsiasi cosa tu voglia fare ti dicono: “Ci vuole ben altro!”».
Però ti hanno beccato con l’auto blu in centro in un giorno di divieto.
«No, no».
Sì, sì.
«Come tutti i ministri, avevo la scorta. Ero andato al ristorante con moglie e figlia, a Campo de’ Fiori, rigorosamente a piedi. I ragazzi della scorta vollero venirmi a prendere nonostante fossimo in zona interdetta. Zac! Il minuto dopo era sui giornali. E pensare che sono sempre molto ligio. Ero uno dei pochi a usare la cintura di sicurezza».
Perché ce l’hai con la Lega?
«Nel 1996 Bossi fece la famosa dichiarazione: la prossima volta faccio eleggere soltanto degli imbianchini. In qualche modo ha fatto così, ha portato a Roma degli imbianchini. Dei duri e puri caratterizzati solo dalla fedeltà. La classe politica della Lega è di una rozzezza esagerata».
Con Castelli hai avuto un scazzo.
«Considero una follia che un signore come Castelli possa fare il ministro della Giustizia. Uno che canta in pubblico “Chi non salta italiano è”. Per non parlare dei suoi amici che vogliono usare la bandiera italiana come carta igienica. Ma il problema sai qual è? È che ci stiamo abituando. Anche io mi sto mitridatizzando, i veleni sono entrati in circolo. Manca solamente che ci facciano la pipì addosso dall’ultimo banco e noi diremo che è acqua calda».
Gioco della torre. Berlusconi o Fini?
«Berlusconi è simpatico, ma governare non è il suo mestiere. È il Vanna Marchi della politica italiana. Fini ha dimostrato di essere uno dei pochi che hanno lo sguardo più lungo del proprio interesse».
Rutelli o Veltroni?
«Ma con Rutelli non abbiamo litigato abbastanza?».
Ci parli adesso con Rutelli?
«Francesco è molto permaloso e il nostro rapporto ne ha obiettivamente risentito, anche perché anch’io del resto non scherzo. Ma adesso ci parliamo quasi tutti i giorni».
C’è stato qualche insulto?
«Sì, per iscritto. Ci siamo mandati a quel paese in modo molto duro. Uno scambio epistolare che non fa parte della mia letteratura preferita».
Bondi o Baget Bozzo?
«Per Bondi non sprecherei nemmeno la spinta. Baget Bozzo è un po’ più su. Ma è un trapassato bollito».
Previti o Dell’Utri?
«Previti è una sorta di emblema lombrosiano della malattia del sistema politico italiano. Lui è l’uomo più responsabile dopo Berlusconi della situazione italiana».
Veneziani o Socci?
«Butto Socci, così finalmente avrà un po’ di audience».
Gasparri o Storace.
«Da quando l’ho battuto il povero Gasparri mi patisce. Ha il riflesso pavloviano di quello che è rimasto scottato. Pensa che la prima volta che ci siamo incontrati in campagna elettorale mi disse: “Sei un bravo ragazzo, simpatico. Devo frenare i miei per non vincere con più di venti punti di distacco”».
Li ha frenati troppo.
«Alla fine l’ho visto letteralmente sbavare. Una volta Maurizio Costanzo mi accompagnò in un giro elettorale in un mercato di Ciampino. A un certo punto vedemmo arrivare Gasparri come una furia con gli occhi fuori dalle orbite che urlava a Costanzo: “Lei si vergogni, lei ha il dovere dell’imparzialità”. Di fronte a un Costanzo imperturbabile lui disse: “Allora sapete che cosa faccio? Vengo anche io con voi”. E Costanzo: “Prego si accomodi”. Abbiamo fatto circa 300 metri con Gasparri sotto le bandiere dell’Ulivo».
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