- 1 Agosto 2003
"Qual è stata la prima cosa che hai fatto appena tornata dall’Iraq?" Giovanna Botteri, inviata del Tg2 e del Tg3 a Bagdad durante tutta la guerra, non ci pensa molto: "Una doccia calda, un pranzo normale, e tante lavatrici. E poi ho cercato di dormire".
La prima cosa che hai mangiato?
"Cioccolata e prosciutto crudo. Mi ero abituata talmente al basso livello che dopo un po’ a Bagdad rimpiangevo il riso con salsa di fagioli. E’ l’ultimo ricordo commestibile che mi è rimasto".
Hai sofferto per la mancanza di cibo?
"Non esageriamo. Avevamo l’adrenalina a mille e si lavorava troppo per avere tempo di soffrire la fame. Ma ci sono stati due o tre giorni in cui realmente non avevamo niente da mangiare. Ho perso sei chili".
Ti chiamavano la velina di Saddam.
"Autocensura c’è stata, ma non era nostra. Era quella degli iracheni che avevano giustamente paura. Noi anzi abbiamo raccontato come man mano questo muro di autocensura ha cominciato a sgretolarsi. Anche se, nel momento in cui qualcuno aveva voglia di dire delle cose, tu non potevi non porti il problema morale che quella persona stava correndo dei gravissimi rischi. Tutto il nostro materiale veniva passato al setaccio dalle autorità irachene. I giornalisti della carta stampata potevano proteggere le loro fonti. Ma quelli delle tv no".
Avresti preferito essere una dei giornalisti "embedded", quelli "arruolati" nell’esercito americano?
"Per carità, no. Era perfino difficile distinguerli dai soldati veri. Giravano su jeep militari, erano vestiti con la divisa, avevano la medaglietta col gruppo sanguigno, erano rasati. Una volta fermai un gruppo di soldati chiedendo di un medico e mi risposero: "Guarda che sono un giornalista come te". Ed io: "Calma. Giornalista come me? Mettiamo un po’ di distanza"."
I giornalisti embedded erano proprio militarizzati?
"Ce ne erano migliaia. I primi che sono arrivati, Cnn, Fox erano proprio soldati, sia esteticamente che psicologicamente. Gli mancavano le armi, anche se un paio di loro hanno raccontato di aver sparato".
Tu non ti sei sentita un po’ "embedded" dall’altra parte?
"Assolutamente no. Non si può paragonare la pressione che noi avevamo da parte del ministro dell’Informazione, Al Sahaf, detto Alì il comico, con il condizionamento degli embedded. Acconto a ognuno di noi c’erano i "minders", degli interpreti che ci dava il ministero dell’Informazione. In realtà erano i nostri controllori, le nostre guardie, i nostri spioni. Alla fine quando è apparso chiaro che la guerra ci sarebbe stata, i minders, con i quali avevamo ormai stabilito un buon rapporto di amicizia e di confidenza, hanno cominciato ad aprirsi, a raccontare. Ma eravamo noi che avevamo paura per loro. Il regime reggeva come una catena del terrore. Tu eri violentato da quello sopra e violentavi quello sotto. Nel momento in cui questa catena è apparsa come qualcosa che si poteva spezzare, gli stessi minders hanno cominciato a raccontare e a parlare".
Quindi nessuna pressione reale?
"Di un altro tipo. Chi fa televisione non può raccontare cose che non filma. Se la gente, per paura, raccontava solo la propaganda del regime, io quello potevo raccontare".
Parlavate spesso con le vostre famiglie?
"Era molto difficile chiamare. Però potevamo ricevere le telefonate".
Tua figlia era preoccupata?
"E’ stata molto protetta da suo padre che per tutto il tempo è venuto da Trieste a Roma. Era lui che si è preso tutte le paure, che guardava tutti i Tg per vedere se c’ero o se non c’ero. Ma fino a un certo punto. A scuola non si parlava altro che della guerra".
C’era competizione e concorrenza fra voi?
"Per nulla. Gabriella Simoni, che faceva il Tg5, è la mia amichetta del cuore ed era nelle mie stesse condizioni di mamma al fronte. Noi due non potevamo mai dimenticare che avevamo dei figli e che dovevamo pensare mille volte a quello che stavamo per fare. C’era solidarietà e aiuto".
In Italia si diceva che c’era tensione far te e la Gruber.
"Avevamo orari diversi. Facevamo cose diverse. Non c’è mai stata nessuna lite. Abbiamo condiviso un’esperienza dura. Era talmente difficile tutto quello che stavamo vivendo che non c’era tempo per baruffe".
Eravate tante donne e qualcuno vi ha criticato perché facevate un po’ le dive, tutte con l’etnolook della pashmina. Insomma, vi truccavate un po’ troppo.
"Quando mi dicono queste cose casco dalle nuvole. Non avevamo luce, acqua, eravamo in condizioni pessime dal punto di vista del truccarsi. Alla Gruber dovrebbero farle un monumento perché in quelle condizioni è riuscita ad apparire sempre perfetta".
La stessa cosa non si può dire di te. Sembravi un incrocio fra Marx e Gabriele La Porta.
"A mia discolpa, io me ne sono strafregata. Ma io sono un’inviata e posso farlo. Lilly è anche una conduttrice. Ha un’immagine da difendere".
Una donna racconta meglio la guerra?
"Racconta cose diverse. Gli uomini sono affascinati dalla strategia militare, dalle avanzate, dai calibri, dai carri armati. Il loro occhio va su altre cose perché la loro vita è diversa. Noi pensiamo ai bambini, alla scuola, alla spesa, alla quotidianità. La cosa che mi sconvolge di più della guerra è lo stravolgimento della vita di tutti i giorni. Andare in una casa e sentire una mamma che dice che la sera dà il valium ai bambini è scoordinare tutte le sicurezze che uno ha.”.
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