- 12 Settembre 2002
Una vita da vicedirettore. Di Alberto Statera, di Nini Briglia, di Andrea Monti, di Carlo Rossella. E soprattutto di cattivo carattere. All’Espresso, all’Europeo, a Epoca, a Panorama: ogni volta grandi polemiche, grandi litigi. Un destino da secondo? Una scelta? Pasquale Chessa, 55 anni, sardo di Alghero, fra qualche settimana insegnante di Storia del fascismo in Europa a Scienze Umanistiche alla Sapienza di Roma, uomo con il Dna a sinistra che lavora a Panorama, come se lo spiega?
«È capitato. Mi sarebbe potuto capitare anche di fare il direttore. Ma sarebbe stato peggio. Non avrei potuto farlo bene come mi sarebbe piaciuto. Meglio fare il vice».
Hai avuto molti direttori…
«Ho cominciato alla radio, al programma di Maurizio Costanzo, Buon pomeriggio. Avevo poco più di vent’anni. Quando me lo presentarono dissero: “È uno molto potente. Si aumenta l’età per sembrare più grande di noi”. Ho lavorato con lui, e con Dina Luce, per cinque anni».
Direttore successivo?
«Livio Zanetti, all’Espresso. Quando mi fecero vicedirettore di Epoca mi telefonò per farmi i complimenti. A modo suo. Mi disse: “Per me, i vicedirettori non contano un cazzo”. Appena arrivato mi rimproverò subito. In riunione di redazione, per darmi un tono, sfogliavo vecchi numeri dell’Espresso. Mi fulminò: “Se il nuovo giovane redattore, con il bassissimo stipendio che prende rispetto al mio, non ascolta quello che sto dicendo, c’è qualcosa che non funziona in questo giornale”».
Terzo direttore, Mario Pirani, Europeo.
«Ottimo giornalista, pessimo direttore. L’Europeo andò subito male».
Poi arrivò Lamberto Sechi.
«Il quale pensava che gli uomini portati da Pirani fossero tutti dei sottopancia politici, dei nullafacenti, dei pazzi».
Lo pensò anche di te?
«Di me aveva un giudizio negativo di seconda mano: creativo e fancazzista. Fu sconvolto quando per tre sabati consecutivi mi scoprì in redazione a lavorare».
Dopo Sechi, Claudio Rinaldi.
«Cinico, abile, intelligente. Uno dei migliori. Insieme a Carlo Rossella…».
Non correre. Ci sono altri direttori.
«Certo. L’inadeguato Giannella, il furibondo Vaccari, l’ottimo Statera».
Andrea Monti, a Panorama.
«Alterne simpatie. Era uno che esercitava il massimo dell’adulazione, soprattutto con i subalterni, fino all’ultimo redattore, a scopo di controllo sociale. Dopo Panorama gli ho sentito pronunciare una frase illuminante: “Ho passato tutta la vita dando ragione agli altri, adesso mi sono rotto i coglioni”».
Anche Giuliano Ferrara.
«Tra i più bravi direttori che abbia mai avuto, soprattutto per questa folle idea di fare un giornale futurista, surrealista, con una grande lucidità culturale».
Nini Briglia lo hai avuto direttore sia a Epoca che a Panorama.
«Dovrei parlare male di Briglia e bene di Rossella, o viceversa. Ma il primo è direttore generale della Mondadori e l’altro il mio direttore attuale a Panorama. Questa intervista è molto difficile».
La cortigianeria non è una cosa negativa in assoluto.
«L’ho anche scritto su Panorama: il vero ruolo dell’intellettuale deve essere quello che è tratteggiato nel Cortigiano di Baldassarre Castiglione, seguire una retorica del potere, ma non essere a questo asservito. Come dire: fai la dedica al Principe, ma non cambiare il contenuto del tuo libro».
Quando Nini Briglia arrivò alla direzione di Panorama, disse a tutti i vicedirettori: «Ragazzi, mettetevi da parte, ne faccio di nuovi».
«Appartiene ai diritti del direttore. Dicono che sia il mio nemico assoluto. Ma la sua ragion di Stato lo ha costretto a fare la parte del Nemico. Briglia è un amico. Ancora».
Il tuo direttore attuale è Carlo Rossella.
Trovo fulminanti le sue battute, i suoi raccontini sublimi. Chiamali se vuoi pettegolezzi. Lo accusavano di essere geniale ma inaffidabile. Errore. Ma su certi suoi cinismi haute da gamme non sono d’accordo. Anzi, rimango basito. Quando ha fatto la copertina sulla stanza insanguinata di Samuele, vendemmo uno sfracello di copie. Dissi: “Dio ci conservi Rossella. Però lo punisca anche un po’”».
Racconta la tua giovinezza.
«Faccio parte della minoranza catalana all’interno della minoranza sarda».
Sei orgoglioso di essere sardo?
«Sì. Non ho l’ottusa fierezza di chi è rimasto a coltivare il proprio provincialismo sterile, ma non sono nemmeno un marrano rinnegato».
La tua famiglia?
«Cinque fratelli in tutto, ma si narra che mio padre ne avesse 19. Tutti figli e nipoti di agricoltori proprietari. Molto litigiosi. Una grande famiglia, anzi enorme. A casa nostra non c’era il frigorifero».
Eravate poveri?
«Il contrario. Ai benestanti il frigorifero non serve, alla mattina arriva sempre la roba fresca. Ricordo il giorno in cui andai con mia madre a comprare il frigorifero. Eravamo diventati poveri. La crisi dell’agricoltura».
Che tipo eri?
«Leggevo volentieri. Studiavo malvolentieri. Allora mio padre mi mandava in campagna a fare il bracciante. Sveglia alle quattro e partenza con la littorina, insieme ai contadini».
Che cosa facevi?
«La cosa più cretina. Portavo il trattore col letame. Mia madre insisteva perché studiassi. Il riscatto, diceva, avviene con la cultura. Lei era maestra. Adesso è poetessa, scrive poesie in catalano».
Che vita facevi?
«Quella del bar: juke box, feste da ballo, passeggiate ai giardini, corteggiamenti. Pochi. Molto biliardo, molte carte. Poi la liberazione».
La liberazione?
«Il presalario. Mezzo milione per le spese universitarie. Partii alla conquista di Roma. Scelsi Lettere perché non c’era a Sassari, così i miei non potevano opporsi al mio trasferimento».
E a Lettere?
«Asor Rosa, Sapegno, Colletti, Romeo, Argan, Garroni, Santo Mazzarino… Studiavo, studiavo e studiavo. Nel ’68 cambiò tutto. La politica, le discussioni, gli slogan. Quello a cui rompevamo di più i coglioni era l’etruscologo Pallottino. E lui diceva che noi eravamo dei figli di papà, che rubavamo gli esami. E allora mandavano avanti me e Fraschetti, io perché ero un fuorisede sardo e Fraschetti, ora cattedratico di Storia Romana, perché era figlio di un camionista, credo, entrambi con un libretto pieno di trenta e lode».
Hai fatto realmente il ’68?
«L’età era giusta giusta. Ma non venni preso dall’ubriacatura. Ma non mi perdevo un gruppuscolo, però. Per un provinciale a Roma che mangiava alla Casa dello studente era un modo sicuro di farsi tanti nuovi amici. Servire il Popolo, i gruppi bordighisti napoletani, i giovani comunisti romani, il gruppo leninista di Vincenzo Sparagna. Mai Lotta continua. Andavo, ascoltavo, alla terza riunione scappavo. Io avevo fatto il boy scout, mica venivo dall’Azione Cattolica. In quel periodo cominciai a frequentare la Rai».
Ti ritieni un voltagabbana?
«Metà di Lotta Continua è diventata berlusconiana? Non mi sembra un peccato grave».
No?
«Fa parte di una dinamica di concorrenza. Pietrangelo Buttafuoco del Foglio è l’unico giornalista di destra che viene dalla destra. Tutti gli altri vengono da sinistra».
La domanda era: sei un voltagabbana?
«Pur riconoscendo tutti gli errori della sinistra antagonista di allora non ritengo di dover diventare un militante dell’altra parte».
Hai fatto il ’68, adesso lavori per Berlusconi.
«Non faccio parte dello staff politico di Berlusconi. Io lavoro per la Mondadori. E c’ero prima di lui».
Non sei un normale lavoratore. Sei un dirigente di alto livello di Panorama.
«Questo è uno dei motivi per cui non volevo dare questa intervista. I giornalisti con i giudici, non dovrebbero rilasciare interviste».
Ma poi l’hai data…
«Non so se questa risposta ti sembra potabile: il giornalismo è un mestiere, nei giornali ci sono dei ruoli e questo non impedisce di avere proprie idee».
Non è potabile. Il ruolo di redattore è diverso da quello di vicedirettore.
«Sono vicedirettore agli affari speciali, che però non sono molti… Io sono stato fatto vicedirettore di Panorama da Franco Tatò».
E Berlusconi dov’era?
«Ma Berlusconi non era entrato ancora in politica. La logica dello scontro prima non c’era».
Berlusconi è sempre stato anticomunista, se ne fa un vanto…
«Mi costringi a fare un complimento a Berlusconi? Nessuno mi chiede nulla…».
Stiamo menando il torrone…
«Ho scritto un libro intervista con Renzo De Felice, Rosso e nero, e ho capito che per essere antifascisti non bisogna necessariamente essere comunisti, e per essere anticomunisti non bisogna essere necessariamente di destra».
Sempre torrone è.
«La risposta vera che non ti posso dare è molto semplice: nella guerra della Mondadori ho fatto il tifo per De Benedetti e poi De Benedetti se ne è andato e io sono rimasto prigioniero. Vuoi che dica questo?».
Dimmi solo chi sono per te gli adulatori.
«Giuliano Ferrara e Furio Colombo sono i massimi rappresentanti della cortigianeria nel senso positivo, quello di Baldassarre Castiglione. La parola giusta è sprezzatura: l’arte di far sembrare le cose difficili come se fossero facili. Attualizzato al giornalismo, nel senso di Giulio De Benedetti, mitico direttore della Stampa, che affermava: “Valletta penserà domani ciò che io scrivo oggi”. Emblematico Sgarbi: è riuscito a sottrarre alla sinistra il monopolio della difesa delle bellezze naturali e artistiche. Ma la destra non ha capito e l’ha cacciato. Oppure con tutta l’amicizia che gli porto, Leonardo Mondadori. L’ultimo suo libro è un inno a Dio, che è un bel modo di essere cortigiani».
E i cortigiani nel senso di adulatori?
«Mi fanno paura i piccoli peccati. Giampiero Mughini quando scrive un articolo per pubblicizzare se stesso firmando con uno pseudonimo. Oppure un noto intellettuale italiano, Beppe Scaraffia. Quando recensii un suo libro, mi fece sperticati complimenti per posta elettronica. Poi mandò una lettera a Panorama per protestare contro la recensione».
Tu sei molto amico di Francesco Cossiga. Stai scrivendo un nuovo libro con lui.
«Sardità. Ma al di là delle stimmate nuragiche, per me è la possibilità di sedermi sul palco principale della scena politico-culturale e vedere la storia che stiamo attraversando, senza essere costretto a nessuna militanza. Un privilegio».
È un po’ matto come dicono?
«Conosco benissimo quella vena scherzosa, sassarese, che si chiama “cionfra”. Per una battuta nella quale la verità si coniuga alla cattiveria, i sassaresi sono disposti a sacrificare anche il padre».
È molto adulato?
«Sì, adulato, soddisfatto e contento. Ma non ne tiene conto. Il massimo è godere dell’adulazione senza mai dover pagare. Mentre l’adulato è spesso costretto ad essere adulatore nei confronti del suo adulatore».
Tu sei un adulatore?
«Non ne ho la fama. Ma posso raccontare di una piaggeria mancata».
A chi?
«A Berlusconi».
Racconta.
«Europeo. Direttore Salvatore Giannella. L’ufficio stampa di Berlusconi si mette d’accordo con Giannella per “una giornata con Berlusconi”. Mezz’ora di tempo. Ma diventa una delle interviste più belle che abbia mai fatto. Li conservo ancora quei nastri».
Domande polemiche?
«Tutte. Con gentilezza un po’ condiscendente. Risposte fulminanti. Sulla Sme, se ne parla ancora. Berlusconi disse: “Io non conosco nemmeno il cavalier Barilla”. In quel momento si aprì la porta e un segretario disse: “C’è il cavalier Barilla al telefono”».
E Berlusconi?
«Disse: “Touché”, perché era sempre molto sportivo. Poi raccontò tutti i suoi rapporti con Craxi. Spiegava: se uno è proprietario delle tv, sta combattendo una battaglia contro il monopolio, è amico del presidente del Consiglio, che fa? Non lo fa intervistare prima delle elezioni? Il suo discorso non faceva una grinza. Suonava solo un po’ sfrontato. Berlusconi ha una specie di inferiority complex quando sta con una persona, ma appena se ne va vince il superiority complex e decide ciò che vuole. Gli mandai l’intervista da leggere e lui la rimandò al direttore Giannella del tutto riscritta».
E tu?
«Una furibonda notte di trattative con il direttore. Ma non vorrei che apparisse come un atto di coraggio. Io ero dispostissimo a compiacere un intervistato così brillante come Berlusconi. Ma non telefonò a me».
Se avesse telefonato a te?
«Avrei tolto tutto quello che chiedeva, se non fossi riuscito a convincerlo di accettare la mia versione. Io voglio il mio potere. Se faccio la marchetta la faccio io, non il mio direttore. La mia impuntatura non era eroica, era strumentale, legata all’idea che ho della mia professione. Che non è un’idea virginale».
Berlusconi ti ha perdonato?
«Prima che diventassi vicedirettore di Panorama mi invitò a pranzo. Voleva conoscere le mie idee sulla pubblicità. Era convinto che i giornalisti culturali ce l’avessero con la pubblicità».
Non ti dava fastidio andare a collaborare con un anticomunista viscerale?
«Credo ci sia ancora un modo di fare il giornalista, che ti consente di scegliere. Mi auguro per esempio che il mio direttore non mi chieda mai di fare un pezzo sul conflitto di interessi».
E se te lo chiedesse?
«Mi verrebbe voglia di difendere Biagi. E anche Santoro».
Quali giornalisti preferisci leggere?
«Non mi perdo Pintor, Bettiza, Curzio Maltese, Pigi Battista. E Alta Società».
Chi ti perdi invece?
«Guzzanti. Santoro. Ma mi sembra un po’ ingiusto buttare lì dei nomi, fra tanti. Col risultato che tutti si incavolano».
E se cercassimo seriamente di individuare qualche voltagabbana?
«Mi preoccupa di più il conformista».
E allora dimmi chi sono i conformisti.
«Questi storici che usano il termine “revisionista” come un’arma contundente. Bongiovanni, che non se ne dimentica nemmeno quando parla bene del suo ultimo libro sul Diario. Oppure Tranfaglia che quando ho fatto il convegno su De Felice al quale partecipò anche Denis Mack Smith, sostenne che avevo invitato tutti i nostri amici. Invece se un nemico aveva De Felice era proprio Denis Mack Smith. Ci metterei anche De Luna. Mi sento spesso come quel personaggio di Sterne che, entrato in un salotto, dopo mezz’ora riusciva ad avere tutti contro».
Tu per chi voti?
«Dopo il ’68 non ho più fatto politica. Ora mi sento un agnostico».
E quindi non voti?
«Non voglio dire per chi voto. Sono sempre stato un moderato di sinistra».
E allora per chi voti?
«Non ho mai votato a destra. Nemmeno quando ne avrei avuto voglia».
Va bene, facciamo il gioco della torre.
«Troppo facile scegliere fra opposti».
E allora: Panebianco o Galli Della Loggia?
«Butto Panebianco. Galli Della Loggia è l’originale».
Scalfari o Caracciolo?
«Salvo Caracciolo. Mettilo nel conto della cortigianeria per un vero padrone di giornali. Gli avevo proposto di scrivere la sua biografia. Aveva accettato. Avevamo già il contratto. E un titolo: Il Principe. Ma poi non se ne fece più niente. È stato dissuaso da Rinaldi».
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