- 13 Novembre 2003
Nella sua prima vita era un democristiano di successo. Sconfiggeva il grande Gava a Napoli e combatteva con audacia lo strapotere di De Mita. Alla fine era diventato un ministro autorevole ed ascoltato. Nella seconda vita venne massacrato da Mani Pulite e dintorni. Se la cavò con molte assoluzioni, un po’ di prescrizioni e una condanna per finanziamzento illecito dei partiti. Conobbe la galera ed ebbe un infarto con annessa estrema unzione e il sesto by pass. Nella terza vita, la resurrezione. Opinionista di successo, best seller in libreria, mondanità e nuovo potere politico. «C’è anche un’altra vita, la prima», ricorda Paolo Cirino Pomicino. «È una vita di cui vado orgoglioso: ero una persona seria e facevo il neurochirurgo al Cardarelli di Napoli».
Non è passato alla storia per quello. Parliamo degli altri periodi.
«Dal consiglio comunale di Napoli, al ministero del Bilancio. Un crescendo di soddisfazioni».
Tutto facile?
«Mica tanto. Ebbi il mio primo intervento al cuore. Devo salva la vita a Spadolini che aprì la crisi di governo per Sigonella. Approfittai del tempo libero per fare una coronografia. Mi dissero che se non mi operavo subito ci lasciavo la pelle. Chiesi al mio medico: posso continuare a fare politica? Lui disse: “Ci sono molti modi di morire. Lasciando la politica sceglierebbe il modo più malinconico”».
E non è morto.
«Ripresi la corsa affannosa della politica. Mandammo a casa De Mita. Andreotti divenne presidente del Consiglio».
Erano i tempi in cui si facevano i congressi.
«I congressi erano importanti. Adesso c’è l’ortodossia caporalista. Tutti in fila per due. I congressi non servono più perché i partiti non ci sono più».
I partiti non hanno fatto una gran figura.
«Li hanno individuati come covi di malaffare e non lo erano. Poi si è visto che il malaffare nelle società industrializzate è ovunque».
Bella soddisfazione.
«In politica non c’è niente di meglio dei partiti».
E quando un’azienda prende in mano l’Italia?
«La vicenda di Forza Italia è stata ed è un dato emergenziale. Il dramma è che non si è evoluta. Lo dicevo spesso a Berlusconi: “Forza Italia diventerà un partito quando farà un congresso e dieci persone si alzeranno per dire: caro Berlusconi, noi sosteniamo un’altra tesi, siamo l’opposizione”».
Non mi sembra il caso.
«Combattei duramente De Mita che voleva sciogliere le correnti che erano il sale della democrazia nei partiti. Oggi il berlusconismo deteriore ha infettato tutti».
Mi faccia capire.
«È la personalizzazione della politica: la Lega con Bossi, An con Fini, l’Udc con Casini».
Leadership.
«No, non leadership. Personalizzazione. Se tenti di cambiare il segretario, il segretario chiude il partito e se lo porta a casa».
Chi sono stati i suoi amici?
«Quello che mi era più caro era Pino Amato. Ero ancora un giovane deputato quando fu ammazzato a Napoli dalle Br. Un altro era Franco Caltagirone. Veniva spesso a cena a casa mia. Eravamo amici anche se ci divideva Sbardella».
Sbardella era andreottiano come lei.
«Eravamo nella stessa corrente ma in contrapposizione».
Vi massacravate anche come sottocorrenti.
«Contrapposizione, non massacro».
Lei rimase deluso da Caltagirone.
«A un certo punto è scomparso. Come la Moratti. Ero molto amico della Moratti. Mi invitava alle sue feste. Mi veniva a trovare al ministero ogni settimana. Quando sono comparsi i miei guai è scomparsa lei. Non mi ha più chiamato. Neanche quando stavo per morire. Lo scrissi in uno dei miei libri. Lei lo lesse e mi chiamò: “Hai perfettamente ragione. Non mi sono comportata bene”. È una donna di grande coraggio».
E Caltagirone?
«È stato un grande amico, mi ha dato anche un importante contributo nel 1993 per la mia corrente».
Quanto costava la sua corrente napoletana?
«Eleggevamo tre deputati e due senatori, Polizio, Iannuzzi, D’Angelo, Fantino e me oltre a diversi consiglieri regionali. Due miliardi».
Un affare.
«Spendevo meno di quanto preveda la legge di oggi. La politica costa e va finanziata. Il problema è farlo alla luce del sole. Se un industriale è contento della mia politica, perché non deve finanziarmi?».
Perché lei modifica i suoi comportamenti in base alle richieste dell’industriale.
«Io non li ho mai modioficati e ci sono le sentenze a dimostraralo. E ho mantenuto intatta la mia libertà. Prenda Caltagirone».
Lo prendo.
«Ha finanziato la mia corrente. Ma io ho scritto che fa l’editore con la visione del padrone delle ferriere. Tant’è che quando ho presentato il libro a Napoli, sul Mattino, il suo giornale, non è nemmeno uscita la notizia».
Caltagirone e Letizia Moratti sarebbero due voltagabbana?
«La seconda no. Il primo forse non era un vero amico».
Parliamo dei politici voltagabbana.
«Il trasformismo parlamentare è il naturale corollario di un sistema maggioritario».
A me fa impressione pensare a un signore di destra, magari di estrema destra, che ti dà il suo voto e tu lo porti al centro-sinistra come ha fatto Mastella. La prossima volta quel poveretto non vota più.
«Può apparire un pugno in faccia. Ma io le dico una cosa che le apparirà esecrabile: io penso che la politica debba essere tolta dalla piazza e riportata nel palazzo».
Sembrerebbe esecrabile in effetti. Rimane il caso Mastella.
«È stata solo una valutazione diversa in corso d’opera».
Un nome di voltagabbana?
«Lamberto Dini. Destra o sinistra per lui pari sono».
Voi avete fatto diventare una voltagabbana, Irene Pivetti, presidente del partito (Udeur 1999 ndr).
«Ma voi chi? È stato Mastella. Ma c’è un esempio alto di cambiamenti poco comprensibili».
Esempio alto?
«Facciamo arrabbiare il mio amico Francesco Cossiga?».
Cossiga non è un voltagabbana. È un imprevedibile. Uno si sveglia la mattina e si chiede: «Dove starà oggi Cossiga?».
«Ma allora è come la Regia Marina Borbonica».
Che cosa fa la Regia Marina Borbonica?
«È un detto napoletano. La Regia Marina, quello che dice la sera non vale la mattina. Cossiga prima tende la mano a Berlusconi, quindici giorni dopo appoggia il governo D’Alema, poi litiga con D’Alema e va a fare i comizi con Berlusconi. E poi fa eleggere il figlio nel centro-destra e poi critica il centro-destra. Cossiga è l’esempio colto di una politica impazzita».
Faccia un po’ di autocritica. Che cosa ha sbagliato?
«Ho contribuito a non chiarire per tempo il funzionamento della politica. Quando tu consenti il finanziamento dei partiti sotto banco autorizzi tutti a dire e a parlare in nome di partiti e di correnti. Capito? E buona notte al secchio».
Buona notte al secchio nel senso che rimaneva attaccato qualcosa alle mani dei singoli?
«Poteva accadere. Le sentenze hanno detto chi finanziava la poltica e chi se stesso».
Lei prendeva qualsiasi cosa?
«Assolutamente no. Ero selettivo. Spesso ho rifiutato finanziamenti».
Stento a crederlo.
«E fa male. Corrado Ferlaino, una volta, per una cortesia che gli avevo fatto, venne a casa mia con 100 milioni per la mia corrente. Io rifiutai. Gli dissi: “Non sei un sostenitore della mia politica. Sei un amico. Non ha senso che tu finanzi la mia corrente”. Litigammo per questo».
Sono curioso. Uno arriva a casa sua: 100 milioni. Mille banconote da 100 mila lire.
«Una sopra l’altra fanno un mattone, circa».
Un bel mattone. Per cose come questa lei è finito in galera. Come ricorda quei diciassette giorni?
«Di quei giorni ricordo Peppino, il compagno di cella. Aveva una bellissima voce. Dopo le sei ci facevamo una splendida ora di cantata. Canzoni napoletane».
Come passava la giornata?
«Scrivevo. Mi arrivavano molte lettere. Poi avevo le raccomandazioni dei carcerati. Uno mi chiese addirittura di intervenire sul giudice. Gli risposi: “Guarda, hai proprio sbagliato palazzo”».
Non sembra sconvolto al ricordo.
«Il carcere non mi ha segnato perché l’ho vissuto come una battaglia politica. Volevo perfino fare una festa, il primo anniversario dell’arresto. Mi dissuase Wanda, la mia ex moglie. Volevo invitare tutti, il maggiore della finanza che mi aveva arrestato, il mio compagno di cella. I giudici no. Non sarebbero venuti. Non hanno il senso dell’umorismo».
Un’immagine cinematografica: mentre la prima Repubblica si sfascia e i partiti scompaiono, lei festeggia nella villa sulla via Appia Antica il matrimonio di sua figlia. Presenti tutti i potenti di un mondo che sta disintegrandosi. Era il 1992.
«Non era una villa mia. Era in affitto».
Quanto pagava?
«Cinque milioni e mezzo. La lasciai quando la proprietaria me ne chiese dieci».
Torniamo alla festa.
«500 invitati. Tre presidenti della Repubblica. Un’ex, Cossiga, uno in vigore, Scalfaro, e uno futuro, Ciampi».
E mezzo Parlamento.
«E tutti i finanziatori della mia corrente, Franco Ambrosio, Francesco Zecchina, Salvatore Pagliotto. Zecchina era rimasto colpito quando, venuto a portarmi il “contributo” per la campagna elettorale, 150 milioni, e io lo avevo rifiutato. Gli avevo detto: “Francé, non ne ho bisogno”. Lui se ne era andato via perplesso e aveva detto agli amici: “Ma che ho fatto a Paolo? Ce l’ha con me?”».
Buttava via 150 milioni?
«Non ne avevo bisogno. La mia corrente avevo appena avuto il finanziamento della famiglia Ferruzzi».
Lei è sempre stato andreottiano?
«Sì, ma atipico. All’inizio Andreotti voleva dire Franco Evangelisti e i siciliani. Io e Vincenzo Scotti facemmo espandere la corrente, prima in Campania poi in tutta Italia. Alla fine eravamo il 20 per cento della Dc».
Come erano i suoi rapporti con Andreotti?
«Ottimi ma anche critici. Ancora oggi gli do del lei».
Ha mai litigato con lui?
«Molte volte. Litigi politici. Per esempio, quando l’ho portato di forza nell’esperienza di Democrazia Europea di D’Antoni. Avevamo concordato l’intesa con Berlusconi. Se mi avessero ascoltato, oggi Andreotti sarebbe presidente del Senato e noi avremmo i venti parlamentari che ci avevano assicurato».
Perché non chiudeste l’accordo?
«Zecchina trasformò una questione estetica in questione politica. Disse: “Io sono stato ministro dell’Ulivo fino a due mesi fa. Non posso presentarmi col centro-destra”. E anche Andreotti si tirò indietro. Si arrabbiò quando gli dissi che a lui non importava il successo elettorale perché era senatore a vita».
Quando era cominciata la sua resurrezione? La sua terza vita?
«Mano a mano che cresceva l’autorevolezza di Geronimo, lo pseudonimo con il quale firmavo i miei articoli sul Giornale».
Aveva scelto la destra.
«Ero e resto di centro. Io credo di essere stato, e di essere ancora oggi, uno dei maggiori critici della politica economica del governo. Causo qualche mal di pancia a Belpietro».
Il mal di pancia più grosso?
«Quando il direttore del Giornale, Belpietro, mi dice: “Per favore la smetta di trattar male Tremonti”. Ma poi pubblica tutto».
Viene sempre fotografato in feste, accanto a gnoccolone stupende, ha ripreso alla grande l’attività mondana.
«Ma che dice? Si e no tre, quattro feste l’anno. Mi diverto e ho scritto anche una canzone».
Più bella di quella di Berlusconi?
«Non c’è contesa. L’ho scritta con un mio amico carissimo, Volia Chitis, un ebreo russo napoletano. La canzone si chiama ’Mbraccio a tte. È bellissima. Cantata da Mina sarebbe meravigliosa».
Elias Canetti parlava del «potere del sopravvissuto».
«Chi ha delle idee non muore mai. Mentre ci sono persone viventi che sono morte».
Un esempio?
«Mezzo Parlamento».
Voglio un nome.
«Un mio caro amico, Sergio D’Antoni. Chi lo sente più? È vivo? Sembra non avere un’idea, e se ce l’ha non ha il coraggio di sostenerla».
Lei è il consigliere ombra del Cavaliere?
«No. Una volta Berlusconi mi chiese di fare il suo consigliere, nel suo staff. Ma rifiutai. Ogni tre o quattro mesi però non resisto alla tentazione di dargli qualche consiglio. Ma da uomo libero».
Vi vedete a cena?
«Quelle volte che ci vediamo, ci vediamo alle due di notte. Quell’uomo fa troppe cose».
Dicono che il suo erede sia Casini.
«Casini alla guida di un partito del 30 per cento? Impensabile.».
Mi sembra di capire che il suo leader non la convince tanto.
«Casini si è berlusconizzato senza essere Berlusconi. Ha alimentato la concezione proprietaria del partito».
Ma non ha 20 mila miliardi liquidi.
«Ha capito? Bisogna garantire alla politica la libertà, chiedendo a chiunque sostenga un partito di contribuirvi…».
Lei non fa altro che parlare di soldi ai partiti.
«Qualcuno dovrà pur pagare i costi della democrazia».
Nella Casa delle Libertà c’è libertà.
«Qualche volta ho l’impressione che ci sia un tasso di libertà ridotto perché il sostegno economico è un sostegno per l’intera Casa delle Libertà come accadeva nel centralismo democrataico del vecchio Pci».
Mentre ai tempi delle correnti…
«Ogni corrente aveva i suoi sostenitori. Qui tutti oggi sembrano dipendere dal Cavaliere».
Si potrebbe dare l’otto per mille ai partiti.
«Bisogna fare entrare in testa agli italiani che finanziare la politica è dovere civico».
È dura. Ne avete fatte troppe.
«E allora stiamo tutti nel centro-destra e nessuno elegge più nessuno. Sono tutti nominati dai vertici».
Che vita fa lei adesso, che salotti frequenta?
«Poca mondanità a dire il vero».
Non dica bugie. L’altro giorno era all’apertura del Jackie O.
«Beatrice Mannozzi, la proprietaria, è una mia vecchia amica. Ci sono andato con Daniela Santanché».
L’hanno vista anche al Billionaire.
«Il 14 agosto, festa di Sergio Dompè, industriale farmaceutico».
Quelle feste sono il regno dell’adulazione.
«Capitava soprattutto nelle feste milanesi. Tutti a fare i complimenti al ministro napoletano, intelligente, sveglio».
Quali sono i centri dell’adulazione più spinta?
«Dove esiste un partito personale l’adulazione è inevitabile. Vince la cortigianeria e quindi la mediocrità. E così questa coalizione è in grado di esprimere pochi ministri di spessore. Però questo è un problema di entrambi i poli».
Un caso di adulatore. Nome e cognome.
«Emilio Fede. Adulazione bonaria, non interessata. Vespa è accondiscendente, acritico più che adulatorio. Come Anna La Rosa. Come Socci quando ha intervistato Berlusconi. Un vero tappetino».
E Marzullo?
«Marzullo è una sorta di parrucchiere. Shampo, barba, taglio di capelli. Un’oretta veramente rilassante. Adornato potrebbe considerarsi un voltagabbana. L’unico articolo che non sono riuscito a pubblicare sul Giornale fu quando Adornato e Guzzanti fecero una serie di articoli sull’odio politico. Io scrissi subito un pezzo: “Sono d’accordo che ci sono campagne che attivano l’odio politico. Ma quando l’odio politico era contro di noi, Guzzanti e Adornato coltivavano l’odio politico».
Gioco della torre. Mimun o Mentana?
«Butto Mentana. È libero sempre dalla stessa parte».
Panorama e L’espresso?
«Butto L’espresso. Panorama si fa leggere».
Ha letto l’ultimo editoriale di Rossella su Berlusconi?
«D’accordo. Era un soffietto».
Socci o Veneziani?
«Butto Veneziani. È troppo di destra».
Socci è di sinistra?
«No, ma mi piace quella sua barba incolta».
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