- 23 Gennaio 2003
Mimun o Mentana, chi butti giù dalla torre? «Mentana, senza pietà». Con Arturo Diaconale, direttore de L’opinione, mini quotidiano di aria liberale, decidiamo di partire dal fondo, dal gioco della torre. Nel suo ufficio romano di via del Corso, sede della redazione del giornale e della società con la quale organizza convegni politico-culturali, cominciamo a buttar giù gente dalla torre. Solo dopo – abbiamo deciso – parleremo di voltagabbana, di leccapiedi, e del suo passato alla redazione romana del Giornale di Montanelli quando insieme a Guido Paglia, Andrea Pucci e Antonio Tajani cercavano di indirizzare verso i socialisti un giornale che il grande Indro voleva molto polemico nei confronti di Craxi e soci. Allora Diaconale, perché butti Mentana? «Perché è uno che crede di essere il migliore di tutti. Ha un incredibile complesso di superiorità. Con lui ho avuto mille scazzi. Una volta mi disse, in un dibattito: “Come ti permetti di dare lezioni di democrazia a me?”. Ma chi sei? Dahrendorf? Lo mandai a quel paese».
Non ti viene il sospetto di essere un po’ intollerante?
«Sono molto geloso della mia libertà ed autonomia. Per conquistarla ho sacrificato una carriera comoda. Limitare la propria vita professionale a uno strumentino piccolo come L’opinione può essere anche visto come una scelta di grande arroganza, però sono felicissimo perché posso evitare i compromessi».
Intanto dei magnifici quattro della vecchia redazione romana del Giornale, l’unico rimasto fuori dai nuovi organigrammi della destra vittoriosa sei tu».
«Quando ci penso mi incazzo. Poi ci penso meglio e mi riempio di orgoglio. Gliel’ho detto a Berlusconi. Sono sopravvissuto al centro-sinistra, sopravviverò anche al centro-destra».
Torniamo alla torre. Cofferati o D’Alema?
«Salvo D’Alema. Cofferati condanna la sinistra a un ruolo di eccessiva marginalità».
Bossi o Fini?
«Butto Bossi. Troppo padano».
Sarai mica razzista.
«In certi settori del mondo lombardo c’è la totale incapacità di capire la politica. Forse fa parte del Dna, forse è un problema di alimentazione…».
Riformista o Foglio?
«Butto il Foglio. Il Riformista è più moderno».
Maltese o Travaglio?
«Butto Maltese. Travaglio nella sua protervia è simpatico. Maltese è la quintessenza del livore ingiustificato».
Flores o Moretti?
«Butto Flores. Anche lui troppo livoroso. Non mi piacciono i giornalisti che scrivono con perfidia».
Tipo?
«Quelli dell’Unità, Furio Colombo, Antonio Padellaro. Però mi piace Piero Sansonetti. È un giornalista che picchia, ma senza cattiveria».
Livorosi solo a sinistra?
«Anche a destra. Vittorio Feltri, per esempio, a volte lo è».
Feltri sì e Belpietro no?
«Anche il Giornale a volte è livoroso. Per esempio non ha capito che i provvedimenti giudiziari contro i no global erano un errore. Non si può essere garantisti a giorni alterni».
Ricordi quando il Giornale lo facevate voi?
«Certo. Guido Paglia vicedirettore, Andrea Pucci, Antonio Tajani, Giancarlo Perna, Paolo Liguori, Goffredo De Marchis…».
Quasi tutti di destra e di estrema destra.
«Guido Paglia veniva da un’esperienza di Avanguardia Nazionale. Tajani era monarchico. Io ero culturalmente un liberal libertario…».
Con trascorsi nell’estrema destra…
«Mi ero infilato da ragazzo nella Giovane Italia dove avevo trovato dei professori un po’ anomali. Massimo Brutti, che adesso sta nei Ds, ci faceva lezione di cultura politica».
Quanti anni avevi?
«Diciotto. Uscii dalla Giovane Italia e fondai un gruppo culturale che si chiamava Ordine Umano».
Nome sospetto.
«Da non confondere però con Ordine Nuovo».
Potevate scegliere un nome migliore.
«Se è per questo Ordine Nuovo, inizialmente, era gramsciano. Solo dopo è diventato nazista».
Chi c’era in Ordine Umano?
«Massimo Brutti, Massimo Magliaro, oggi alla Rai, Costantino Federico, oggi sindaco di Capri, Aldo Palmieri, che è stato amministratore delegato di Benetton. Tranne Magliaro e me, oggi quasi tutti sono su posizioni di sinistra».
Un po’ di confusione.
«Era un periodo in cui gente di estrema destra finiva in Potere Operaio. Avevo amici come Franco Papitto, che oggi scrive su Repubblica, e che allora militava in Primula Goliardica, emanazione universitaria del partito di Pacciardi. Il ’68 travolse tutti. A Valle Giulia, a fare a sassate con la Polizia, c’erano anche quelli dell’estrema destra. Guido Paglia, per esempio. Anzi, erano loro a fare più casino visto che erano i più esperti a dare fuoco alle camionette».
Come sei arrivato al giornalismo?
«Cominciai all’Aga, l’agenzia della Confindustria. Poi fui assunto al Giornale di Sicilia, il giornale di Pirri Ardizzone. Direttore era Roberto Ciuni. Un grande giornalista incappato nello scandalo della P2».
Voglia di scorciatoie.
«I meccanismi di selezione della classe dirigente di questo Paese sono stravaganti. Tanta gente pensò che la massoneria fosse uno di questi meccanismi».
Quando sei arrivato al Giornale?
«Nell’85. Il primo servizio che feci fu sulla vicenda Sme-De Benedetti. Scrissi a favore di Berlusconi. Montanelli si incazzò e mi tolse il servizio. Non sopportava che si scrivessero cose filo-editore».
Ricordi il clima della redazione?
«Solidarietà, grande amicizia, anche troppa. Io ero amico fraterno di Guido Paglia. Eravamo stati compagni di scuola, al liceo Castelnuovo».
Lo stesso liceo del mitico preside comunista Gianbattista Salinari preso a schiaffi da Paolo Serventi Longhi?
«Un episodio vergognoso. Serventi Longhi lo conosco benissimo, da quando faceva il craxiano duro e puro, accanto a Giuliana Del Bufalo. Io ero segretario dell’associazione stampa romana e lui mi chiedeva di promuovere la scissione del sindacato unico perché “non si poteva convivere con quei mascalzoni dei comunisti”».
Le tue origini?
«Sono nato in Abruzzo. Media borghesia. Vado molto fiero del nonno di mio nonno che venne condannato a 19 anni di carcere duro dal governo borbonico come rivoluzionario. Era una democratico mazzinian-garibaldino».
I tuoi miti?
«Garibaldi appunto. Prima di Craxi. E il Padova. Da ragazzo ho vissuto anche in Veneto e ho giochicchiato nell’oratorio dove si allenava la squadra di Nereo Rocco. C’erano Hamrin, Pin, Scagnellatto. Una volta ho pure giocato con loro. Pioveva. Scagnellatto fece un grande rinvio ed io ebbi l’infelice idea di colpire il pallone, pesantissimo per la pioggia, di testa. Una capocciata tremenda. Momenti ci rimango».
Tu sei un tifoso sfegatato della Lazio. È perché sei di destra?
«Io non sono di destra. Sono liberale».
Si dice: i laziali sono di destra e i romanisti di sinistra.
«Il tratto distintivo dei tifosi laziali è che sono critici. Con vaga tendenza al masochismo. I tifosi della Roma sono passionali. Accettano assolutamente tutto».
Tu facevi parte di un gruppo di laziali…
«Mimun, Curzi, Caprettini, Paglia, Mazza… facevamo le cene con Cragnotti».
Tutti di destra, tranne Curzi.
«Curzi è simpaticissimo».
Roma inciuciona…
«Bisogna separare le passioni politiche dai rapporti personali».
Di giorno a ffa a botte ’n Parlamento, la sera tutti a magnà da Fortunato…
«A Roma si ha la consapevolezza che il potere è aleatorio e che la tolleranza è un bene assoluto».
Come è finita la redazione romana del Giornale?
«È esplosa. Aveva strappato troppo potere a Montanelli. Era riuscita anche a condizionare la linea politica del Giornale. Noi eravamo vicini a Craxi e contro De Mita. Avevamo un piano: Paglia condirettore, io capo a Roma tenendo Montanelli come simulacro, grandi onori, grande rispetto ma niente potere. Ma Montanelli era furbo come una faina. Noi della redazione romana venivamo vissuti come fascio-craxiani, e come berlusconiani. Non poteva sopportarlo. E nominò Federico Orlando condirettore».
Federico Orlando era la vostra firma di punta.
«Era il commentatore reazionario, specializzato in comunisti cattivi che mangiano i bambini, nella sinistra che è un disastro, nel sindacato che ha rovinato il Paese».
E allora?
«Si allineò prontamente. Il nostro era stato un peccato di presunzione, di onnipotenza. Paglia se ne andò. E me ne andai anch’io. Tajani rimase. E divenne capo della redazione romana. Non fu un gran bel comportamento».
Un tradimento?
«Era berlusconiano. Si allineò e divenne antiberlusconiano. Salvo poi ridiventare berlusconiano. Insomma un voltagabbana. Io capisco le debolezze umane e non gliene facevo assolutamente una colpa. Paglia invece lo insultò selvaggiamente».
Come comincia l’avventura dell’Opinione?
«Renato Altissimo, segretario del Partito liberale, mi disse che voleva trasformare il settimanale Opinione in un quotidiano di area. L’idea mi piaceva ma alla vigilia della trasformazione il Pli si è liquefatto e io mi sono trovato con un quotidiano che aveva un contratto pubblicitario e poteva accedere ai contributi statali. Allora ho riunito i redattori e ho detto: abbiamo sei mesi di sopravvivenza. E siamo partiti».
Hai fatto anche Ad armi pari, una trasmissione televisiva.
«Avevo preso come vicedirettore all’Opinione Luigi Locatelli, liquidato da Rai 2. Un giorno gli dissi: mi piacerebbe fare un programma condotto da uno di destra e uno di sinistra».
Minoli dice che l’idea era sua.
«Minoli ha la sindrome di Marconi, tutte le invenzioni sono sue».
E poi?
«Berlusconi vinse le elezioni e mise la Moratti alla Rai. La Moratti mise Locatelli a capo di Rai 3. Locatelli mi chiamò per fare il programma. Ma ebbi molte difficoltà per trovare il coconduttore, quello di sinistra. Rifiutavano tutti, Riotta, Deaglio, Fuccillo, Lerner. Avevano paura di essere tacciati di collaborazionismo».
Alla fine hai trovato Renzo Foa.
«Che spesso, in trasmissione, si rivelò più a destra di me».
Tu sei amico di Cesare Previti…
«Andavamo tutti e due all’Argentario. E lui era amico di Giancarlo Rossi, mio cognato. Siamo entrambi laziali. E mi ha invitato spesso sulla sua barca, il Barbarossa».
Tu sei andato sul Barbarossa?
«Sì, sono andato sul Barbarossa. E mi ha invitato spesso a cena a casa sua».
Aragoste?
«Mai. Ma ho trovato molta gente, trasversale come sempre. Da Barbara Palombelli a Marcello Pera».
Una tua frase: la Rai è un palazzo d’inverno occupato da un partito leninista.
«È vero».
C’era Saccà, c’era Mimun, c’era Longhi. Leninisti?
«Foglie di fico».
Adesso il partito leninista che occupa la Rai è il Polo.
«In Rai sono stati compiuti degli errori. L’errore di fondo è stato quello di non contrapporre al progetto leninista e bulgaro dell’Ulivo un modello nuovo di autentico pluralismo. Se tu fai la Casa delle Libertà, devi applicare il principio ispiratore della Casa delle Libertà. Invece da noi l’informazione o è di parte o non è informazione».
Santoro è stato sostituito con Socci…
«Io avrei fatto una trasmissione con Santoro e con Socci. O avrei messo accanto alla trasmissione di Santoro una trasmissione fatta da Socci. Moltiplicare le fonti, non eliminarle».
Roberto Cotroneo ha scritto nel 1993: l’Opinione è roba da conventicola pseudogarantista, con l’armamentario del trasversalismo liberale socialista più bieco e una rubrica che lancia insulti.
«Linguaggio veterostalinista».
La tua rubrica era effettivamente un po’ pesante…
«Vivace».
Hai scritto di La Malfa che l’insuccesso gli ha dato alla testa, di Leoluca Orlando che era mafioso e paranoico, di Giuseppe Ayala che ha succhiato il sangue di Falcone e Borsellino, della vedova Tarantelli che l’unica sua cosa memorabile resta l’assassinio del marito.
«Pubblicai un servizio su quelli che hanno fatto fortuna sulle tragedie. Era un servizio cattivo, pesante. Frasi perfide che non scriverei più. Resta il fatto che lo sfruttamento delle tragedie, anche familiari, è una pessima abitudine».
Hai scritto il Manifesto degli irriducibili. Un documento per dire a Forza Italia: noi ci siamo da subito ma vedrete, appena si vincono le elezioni, arriveranno i voltagabbana. Chi lo firmò?
«Paglia, la Del Bufalo, Giorgio Torchia, Filippo Pepe. Trecento firme circa».
I voltagabbana sono arrivati?
«E come no? Pensa a Ferdinando Adornato. Prima insegnava il marxismo leninismo, poi la democrazia progressista, poi la liberal-democrazia di sinistra, poi è diventato liberal nell’accezione americana, poi è diventato liberal nell’accezione europea e adesso è diventato liberale e basta. Mi lascia sconcertato che voglia insegnarle il liberalismo a me».
E poi?
«Federico Orlando. Non si può passare la vita a fare il reazionario conservatore e poi ritrovarsi a fare i girotondi».
Parliamo di Paolo Guzzanti, il tuo vicedirettore…
«Paolo è sempre stato un liberale. Faceva l’editorialista dell’Opinione nel ’92. Era un liberal anche quando stava a Repubblica. Voltagabbana semmai è Scognamiglio. Una volta gli feci un titolo cattivo: “Vieni avanti Carlino”».
L’Ariosto è una voltagabbana? Prima frequentatrice del Barbarossa e poi grande accusatrice di Previti…
«Semmai voltagabbana Vittorio Dotti».
Mastella?
«Mastella non è un voltagabbana, è un artista. Formica diceva che la politica è sangue e merda. Mastella sa che alle volte basta soltanto la merda».
Parliamo degli adulatori?
«Dentro Forza Italia c’è una tendenza adulatoria nei confronti di Berlusconi che imbarazza lo stesso Berlusconi. Bisogna ricordare che Forza Italia nasce in maniera anomala, con una struttura di tipo aziendale, non politica. Nello schema aziendale il capo non viene messo in discussione».
L’adulatore principe?
«Non c’è. Schifani è un adulatore un po’ troppo ingenuo nella sua voglia di dire che Berlusconi ha sempre ragione».
Bondi?
«Bondi mi sembra un fratacchione, uno che parla con fare compito, con tono basso, misurato, un abate uscito da qualche abbazia cistercense».
Vedi adulatori in Tv?
«Anna La Rosa ha fatto dell’adulazione una professione. Anna è simpaticissima, è una mia vecchia amica, è brava. Le hanno dato quello strumento e lei utilizza quello. Onore al merito. Guarda che ci vuole abilità. Io non sarei capace. Perché mi romperei le palle».
Tu per chi voti?
«Per Forza Italia. Ma ho votato per tantissimo tempo radicale. E mi sono battuto perché i radicali approdassero a destra. A destra una forza laica può esercitare un certo peso. A sinistra o sei massimalista o non esisti».
L’Opinione mi piace, però è facile non fare compromessi, in un piccolo giornale, con i soldi del sussidio statale all’editoria.
L.Pavese