- 1 Novembre 2001
Prigioniero di una logica di apparato, incapace di accogliere fino in fondo la sfida dell’innovazione e della modernizzazione. Ecco il ritratto, in due righe, del prossimo segretario dei Ds. È stato Fabrizio Rondolino, ex uomo immagine di D’Alema, su Sette del 13 settembre, a scrivere questa impietosa definizione di Piero Fassino. Reagisce Fassino: burocrate a me? Espressione della nomenklatura a me? «Rondolino è un amico», dice. «Ma quello che ha detto è proprio falso. Tutta la mia storia politica testimonia continui atti di rottura».
Facciamo degli esempi?
«Sono andato sulla tomba di Imre Nagy, il primo ministro ungherese impiccato dai russi nel ’56, a dire che non era un traditore ma un martire. Prima di me, non lo aveva detto nessun dirigente della sinistra che venisse dalla storia del Pci. Negli anni Ottanta, non adesso che magari è facile, dissi che in Medio Oriente c’era la questione ebraica accanto a quella palestinese. Sono io che ho portato questo partito con grande determinazione dentro l’Internazionale socialista, dieci anni or sono, quando molti del mio partito sostenevano che il socialismo europeo era morto. Quando si è trattato di entrare nell’Euro, c’era chi sosteneva, nel mio partito, che potevamo anche aspettare, che non era così importante entrare subito».
Cesare Salvi, tanto per fare un nome?
«Cesare Salvi, certamente. Ma non solo. Ricordo che, in una riunione in cui si discuteva di questo, quando entrai, D’Alema, che peraltro la pensava come me, disse: “È arrivato l’uomo della Bundesbank!”».
Basta. Mi hai convinto. Ma adesso chi lo dice a Rondolino?
«Rondolino non può non sapere che io sono l’unico dirigente nazionale del Pci che è andato sulle foibe per attestare che l’esodo degli italiani dall’Istria è qualche cosa che riguarda tutti noi. Potrei fare altri esempi…».
No, adesso ne faccio uno io. Eri uno dei pochi dirigenti comunisti attento al mondo dell’industria, alla Fiat in particolare.
«Della necessità di misurarsi con la mobilità e la flessibilità ho cominciato a parlare alla metà degli anni Ottanta».
Ce l’hai con Rondolino?
«Ma no. Rondolino è un amico. L’ho visto in fasce. Però molti poi hanno usato quell’articolo contro me».
Ci tieni tanto alla tua immagine di uomo attento alla modernizzazione?
«Sì. La sinistra deve fondare la propria identità sul mutamento e sulla capacità di tenere insieme modernità e diritti. È quello il campo della sfida: vince chi ha la proposta più convincente».
Anche Rondolino è convinto che non bisogna avere paura del nuovo. Va orgoglioso di aver convinto D’Alema a fare un servizio fotografico al timone della sua barca. Forse ti vede un po’ grigio, un po’ secchione…
«Io sono nato a Torino e sono sabaudo. Sono alto e magro e ho questa immagine un po’ austera, un po’ calvinista, tipica di chi è nato, vissuto e cresciuto in una città che è forgiata dalla cultura e dall’etica del lavoro. Una città fatta di understatment, dove nessuno deve mai superare un certo limite perché sennò viene considerato stravagante».
Ma allora ha ragione Rondolino. Sei obsoleto.
«Io sono sempre stato uno molto allegro. Amo il jazz, quando vado negli Stati Uniti vedo due musical al giorno. Mi piace ballare. Mi piace giocare a pallone. Ho giocato nella Juventus fino alla squadra juniores. Però la politica la faccio sul serio».
Va bene, dimentichiamo Rondolino. Parliamo di attualità. Berlusconi ha concluso i suoi cento giorni incassando rogatorie e falso in bilancio. E ignorando il conflitto di interessi. Però anche voi…
«Anche noi cosa?».
Avete governato cinque anni… potevate fare qualcosa.
«Beh, di cose ne abbiamo fatte parecchie. Comunque accetto la critica. Avremmo dovuto fare noi una legge che risolvesse il conflitto di interessi».
Ma non l’avete fatto. Inciucio? Baratto?
«Abbiamo tentato quattro volte di arrivare a una risoluzione del conflitto d’interesse d’accordo con l’opposizione».
Perché? Non vedete come fa Berlusconi? A colpi di maggioranza!
«La preoccupazione era quella di non dare a Forza Italia il destro di dire che quella legge era stata fatta non per risolvere un problema, ma solo per colpire il capo dell’opposizione».
Bel risultato…
«A posteriori possiamo dire che forse dovevamo forzare…».
E il falso in bilancio? Non dovevate approvarla voi la nuova legge?
«Ci siamo trovati di fronte a un ostruzionismo fortissimo. Adesso si capisce perché. Vinte le elezioni, hanno stravolto il nostro testo, quello preparato dalla commissione Mirone».
E sulle rogatorie…
«La convenzione italo-svizzera l’avevamo portata noi in Parlamento. Ma abbiamo trovato un ostruzionismo durissimo: la destra ha bloccato tutto con tremila emendamenti».
Senta Fassino. Non siete riusciti a fare in cinque anni quello che il centro-destra ha fatto in due giorni…
«Ma con una maggioranza molto più ampia di quella nostra».
Diciamolo, il centro-destra è stato più furbo di voi.
«Noi abbiamo senso dello Stato. Loro no».
Ho scoperto una strana coincidenza. Il Pci è stato sempre governato da persone provenienti dal Regno di Savoia.
«È vero. Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta, Occhetto, D’Alema. E anche il prossimo segretario dei Ds… Fassino di Torino, oppure Berlinguer sardo, oppure Morando di Alessandria».
Parlami della tua Torino.
«Mio nonno è stato un fondatore del Partito socialista, mio padre è stato uno dei più noti comandanti partigiani. Respiro politica dalla nascita. La mia prima tessera l’ho presa a 14 anni, iscrivendomi a Nuova Resistenza, un’associazione giovanile antifascista nata sull’onda della lotta a Tambroni. Ho avuto anche la fortuna di incontrare sulla mia strada uomini importanti. Come Aventino Pace, un dirigente sindacale, capo del movimento operaio torinese, uno di quelli che sequestrò Valletta quando ci fu l’attentato a Togliatti. Mi sono occupato di Fiat per 17 anni, e ho sempre seguito la sua massima: “Quando in fabbrica c’è un problema o lo risolvi tu o lo risolve il padrone” Insomma: mai tirarsi indietro e cercare sempre soluzioni».
Bertinotti invece diceva che quando c’era un sciopero lui era felice».
«Lo sciopero è un momento di lotta e la lotta non è mai un momento gioioso».
Chi c’era a Torino allora?
«Ricordo Giuliano Ferrara. Con lui ho avuto sempre un rapporto ottimo. Abbiamo vissuto la stagione del terrorismo ed eravamo tra i dirigenti più esposti quando il terrorismo cercava di infiltrarsi in fabbrica».
Torino ha prodotto segretari del Pci ma anche tanta gente che dal Pci è finita a Forza Italia. Come Ferrara, come Saverio Vertone, come Alessandro Meluzzi.
«Gli uomini hanno diritto di cambiare idea. Io sono restio a usare la categoria del voltagabbana. Men che meno con Giuliano Ferrara: il suo carattere arrogante, il suo spirito di provocazione e la sua spregiudicatezza sono a volte insopportabili. Ma non è uomo che fa delle scelte per interessi banali».
Potrebbe anche fare il grande salto indietro?
«Ho sempre pensato che Giuliano tornerà con noi. L’ho detto perfino il giorno in cui se n’è andato».
Mi fai un esempio di voltagabbana?
«Te ne dico uno: Tremonti. Ha tradito Segni nel ’94. È stato eletto nella sua lista e poi è andato a fare il ministro con Berlusconi. Poi stava per tradire lo stesso Berlusconi».
Quando?
«Sul finire del ’94, quando Berlusconi era in grande difficoltà sulla riforma delle pensioni e Tremonti, suo ministro, faceva balenare che avrebbe potuto sostituirlo».
Altri voltagabbana? Si cita sempre Mastella…
«Ma è sbagliato. Cambiare opinione non significa essere voltagabbana».
Mastella è stato eletto con voti di destra e se ne è andato a sinistra. Quale opinione ha cambiato?
«È stata una scelta politica che ha riconfermato alle elezioni successive. Se dovessimo considerare voltagabbana chiunque cambia politica vivremmo in un mondo statico».
Mastella ha già dichiarato che non va dall’altra parte solo perché ha paura di essere definito voltagabbana. Ha già fatto le valigie.
«Mastella è un uomo anche brutale ma leale: dice quello che fa e fa quello che dice. Può crearti problemi, però è leale».
Non trovi strano che chi cambia idea la cambi sempre verso il potere?
«Non sempre».
Fammi un esempio del contrario.
«Ugo Intini, uomo discusso, ma leale e onesto. È stato fatto oggetto di strali durissimi da parte nostra per il solo fatto di essere stato un collaboratore fedele di Craxi. Avrebbe potuto fare come hanno fatto altri socialisti, andare di là. Gli facevano ponti d’oro. Invece è rimasto a sinistra».
Che ricordi hai dei primi anni di Torino?
«Ho fatto le scuole elementari alla Michele Coppino. Medie e liceo dai gesuiti. All’università, prima giurisprudenza e poi scienze politiche».
I miti di allora?
«Bob Dylan, Beatles, Joan Baez, George Brassens».
Ti sentivi un rivoluzionario?
«Ho fatto il movimento studentesco. Ma con la cravatta non con l’eskimo. Qualche volta mi hanno perfino scambiato per un poliziotto».
Chi c’era nel movimento a Torino?
«Guido Viale, Federico Avanzino, Luigi Bobbio, Marco Pinnapintor, Marco Bosio, Massimo Negarville, Chiara Garavini, Enrico Deaglio. Ma io ero più giovane di loro».
Loro sono finiti nei partitini della sinistra extraparlamentare…
«Ed io nel Pci».
Eri proprio comunista?
«Se vuoi dire quel «comunismo» là, assolutamente no».
Tendenza Veltroni?
«Il Pci non rappresentava per me il comunismo».
Che cosa rappresentava allora?
«La forza di sinistra che si batteva per la democrazia nel momento in cui le bombe cercavano di sovvertire la democrazia. Mi sono iscritto al Pci perché il Pci aveva protestato contro l’invasione in Cecoslovacchia. Mi sono iscritto al Pci “contro” il comunismo. Contro quel comunismo là».
Ma allora quando Berlusconi dice: «Voi comunisti»…
«Quando Berlusconi ci chiama comunisti è uno sciocco. La nostra generazione si è iscritta al Pci contro lo stalinismo, contro la gerontocrazia sovietica, contro il totalitarismo».
Se non eri comunista che cos’eri?
«Un riformista, un socialdemocratico, come tanti iscritti al Pci, magari senza saperlo».
A Torino la sinistra ebbe una grandissima batosta, la marcia dei 40 mila…
«La lotta dei 35 giorni io l’ho vissuta tutta: ero responsabile della commissione fabbriche. Era un vecchio modo di concepire lo scontro sindacale. Pensavamo che la Fiat volesse colpire il sindacato».
Non era vero?
«L’esigenza di una ristrutturazione della Fiat era vera».
Ti senti responsabile per quella sconfitta?
«Fanno fede dichiarazioni e articoli: la mia posizione era che bisognava guardare la ristrutturazione per quello che era. Era la linea sostenuta da Sergio Garavini, da Bruno Trentin, da Luciano Lama, da Gerardo Chiaromonte. Ma era diversa la linea di Fausto Bertinotti e Claudio Sabatini che in quel momento avevano la direzione del movimento. Nella tenda dello stato maggiore puoi discutere, quando vai sul campo di battaglia devi obbedire. E quindi abbiamo partecipato a quella lotta e ne portiamo la responsabilità tutti. Io non mi tiro indietro».
Da segretario avevi un buon rapporto con Agnelli.
«L’avvocato Agnelli volle conoscermi appena venni eletto nel 1983. Fu una lunga chiacchierata, molto simpatica. Mi disse: “Senta Fassino, io capisco tutto. A Torino ci sono tanti operai e voi siete il partito che li rappresenta. Ci scontriamo, ci mettiamo d’accordo, capisco tutto: comunista Torino, comunista Milano, ci sono le fabbriche. Ma una cosa non capisco: perché ci sono i comunisti a Roma e a Napoli?».
Agnelli ha «benedetto» Berlusconi alle ultime elezioni e tu lo hai difeso…
«E sono stato rimproverato per questo».
Da chi?
«Da quelli che nel mio partito pensano ancora che del padrone bisogna parlare solo e sempre male. Io non la penso così».
E come la pensi?
«Il fatto che Agnelli abbia offerto un aiuto a Berlusconi è una prova della debolezza del primo ministro. Io ho visto l’avvocato nei mesi precedenti alle elezioni e mi ha colpito il fatto che lui fosse assolutamente convinto della vittoria del centro-destra e che la cosa gli destasse grande preoccupazione».
Di che cosa era preoccupato?
«Che potesse incidere sulla credibilità del Paese. Così va letta la sua offerta di Ruggiero per gli Esteri. Non oso pensare se, in questa crisi, non ci fosse stato Ruggiero. Pensa soltanto alle dichiarazioni di Berlusconi sull’Islam. Il disastro sarebbe stato totale. Non vado oltre, altrimenti faccio un danno a Ruggiero e poi Berlusconi lo guarda con sospetto».
Tu sei uno che ha credito anche nel campo degli avversari politici…
«Perché quando hanno ragione lo riconosco pubblicamente».
Tanto che Gianni Mura ha scritto che nei dibattiti televisivi chi non ti conosce ti scambia per uno del Polo.
«Quando si doveva scegliere il candidato a sindaco di Torino si è fatto un sondaggio riservatamente da cui risultava che il 35 per cento degli elettori del Polo, uno su tre, avrebbe visto bene Fassino sindaco».
E ti fa piacere?
«Dai gesuiti ho imparato una lezione: più che rassicurare i fedeli, bisogna preoccuparsi di evangelizzare gli infedeli».
E così perdete i fedeli.
«No. Devi sempre parlare ai «tuoi». Ma un dirigente politico che abbia come principale preoccupazione di rassicurare i suoi, non l’ho mai considerato un grande dirigente».
Avreste potuto risolvere il problema di Adriano Sofri durante i vostri cinque anni. È una grana senza fine.
«Sono tenuto alla riservatezza sugli atti compiuti come ministro della Giustizia».
Il che vuol dire che hai fatto qualcosa?
«Ho cercato di capire se c’erano i margini per una soluzione».
Margini? Non è rimasta che la grazia.
«Non bisogna mai dimenticare che ci sono stati sette processi».
Ma tu che cosa pensi?
«Penso che essendo trascorsi trent’anni da quella tragedia bisognerebbe avere il coraggio di compiere un atto che la chiuda. Un atto di clemenza».
E come ministro che cosa hai fatto?
«Mi sono attenuto a quelli che erano i vincoli della legge».
C’è qualcuno che non ti piace a sinistra?
«No».
Neanche Salvi?
«No. Anche se Salvi mi attacca spesso».
Ha detto che la pensi come Berlusconi e la Confindustria. Sei di destra.
«Dire a un compagno che è di «destra» quando non se ne condividono le idee è uno schema classico dello stalinismo. Cioé far credere che un problema c’è non perché esiste nella realtà, ma perché qualcuno ha «tradito». Non è il mio modo di fare politica».
Qual è il giornalista che ti fa arrabbiare tutte le volte che lo leggi?
«Mi irrita la politica vista dal buco della serratura, ridotta a teatrino».
Sei un po’ generico.
«Diciamo che se posso rinunciare a un articolo, rinuncio volentieri a leggere Augusto Minzolini».
Tu sei stato ministro della Giustizia subito dopo il periodo in cui stava per diventarlo Cesare Previti.
«Ma non lo è diventato».
C’è chi sostiene che lo è diventato lo stesso.
«E cosa vuoi sapere».
Perché ridi?
«Non ho capito la domanda… non sto eludendo».
Che cosa penseresti di un Paese in cui Cesare Previti è ministro della Giustizia?
«Beh, grazie a Dio è stato evitato. Le istituzioni democratiche in questo Paese hanno ancora capacità reattiva».
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