- 19 Giugno 2003
C’è chi lo ricorda corrispondente dalle grandi capitali del mondo, chi impettito conduttore di Big Bang, chi portavoce di Silvio Berlusconi, chi intervistatore del Papa. Oggi Jas Gawronski è europarlamentare di Forza Italia. Pochi sanno che, se le cose fossero andate in maniera diversa durante il fascismo, oggi Jas sarebbe proprietario della Stampa di Torino.
Tuo nonno Frassati è stato il fondatore della Stampa.
«È vero, ma mio nonno era un antifascista dichiarato. Era stato nominato ambasciatore a Berlino e si era dimesso nel 1922 per protesta contro Mussolini. Il regime lo costrinse a vendere il giornale alla famiglia Agnelli».
Glielo hai mai ricordato all’avvocato Agnelli? Gli hai detto «Sei qui al posto mio»?
«Certo. Ma si trattava di una ipotesi improbabile. Mio nonno mi diceva: "Occupati di tutto tranne che di giornalismo"».
E tu infatti…
«Ho cominciato a fare il giornalista a 21 anni. Approfittavo dei miei soggiorni in Polonia per collaborare alla Gazzetta dello Sport. Ricordo una Coppa Davis di tennis, un Giro ciclistico della Pace. Poi cominciai con la Rai».
Cominciamo dall’inizio.
«Sono nato nel 1936 da padre polacco e madre italiana. Mio padre era ambasciatore a Vienna. Nel 1939 siamo arrivati in Italia e ci siamo stabiliti dal nonno Frassati».
Scuola?
«A casa, con l’aiuto di due professori. In tre mesi si faceva tutto, compreso l’esame. Nel resto del tempo giravo il mondo. A Parigi da mia sorella, a New York dai miei cugini».
Un ragazzino internazionale.
«In America una volta ho falsificato la patente per poter fare un viaggio da New York in California con una automobile di quelle che ti danno da portare da una costa all’altra. Mi dettero anche la mancia perché avevo consegnato sano e salvo un canarino nella sua gabbietta. Cinque dollari».
Il primo lavoro fisso?
«Al Giorno di Baldacci. Poi mi scoprì Enzo Biagi e feci l’organizzatore dei suoi servizi televisivi. Fu il mio primo contatto col giornalismo di serie A. Attraverso Biagi conobbi Zavoli e lavorai anche con lui. Infine divenni assistente e poi successore di Ruggero Orlando a New York».
Fino alla tue grandi interviste. Il Papa…
«Il Papa lo intervistai due volte. La prima intervista non è mai uscita».
Racconta.
«Ero stato invitato a pranzo. Mentre mangiavamo lui parlava. Tornai a casa, sbobinai l’intervista, era tutto pronto quando mi telefonò il segretario: "Il Papa ci ha ripensato e preferirebbe che l’intervista non uscisse". Fine».
Roba da piangere per una settimana.
«Esatto. Ma mi diedero un’altra possibilità. Di nuovo a pranzo. Non si capiva nemmeno la seconda volta se erano d’accordo o no».
C’era un registratore, c’era un microfono…
«Loro non hanno la mentalità dell’intervista, non è che dal fatto che ci sia il microfono ne traggono una conclusione. Insomma la pubblicai. Per un paio di giorni stetti un po’ in apprensione. Poi uscì tutta intera sull’Osservatore Romano. E tirai un sospiro di sollievo».
Come si arriva a frequentare un Papa?
«L’avevo conosciuto a Varsavia, da vescovo. Quando venne nominato Papa mi vidi un paio di volte col segretario. Una sera, a Castelgandolfo, mentre stavo per andare via, mi disse: "È libero? Vuole rimanere a cena?". E sono rimasto a cena con papa Wojtyla».
Deve fare un po’ impressione sedersi a tavola col Papa, anche se Demetrio Volcic ha detto di te che sei uno che sa mangiare bene in cinque lingue.
«È talmente normale che dopo un po’ ti senti normale anche tu».
Di che cosa si parla a cena col Papa?
«È lui che comincia a parlare e a fare domande. È curioso, interessato. Mi chiedeva dell’America, il mio giudizio sui politici».
La prima intervista l’hai mai pubblicata?
«No, non si disobbedisce al Papa. Aveva detto cose che non voleva dire. Si era lasciato andare a giudizi sulle persone. Nella seconda i giudizi erano più sulle situazioni, sul comunismo, sul capitalismo».
Anche Messori ha intervistato il Papa.
«Domande scritte, risposte scritte. La sua non è un’intervista vera, in cui le domande sono conseguenza ogni volta delle risposte. Ad un certo punto gli ho fatto una domanda molto bella. "Scusi Santità, glielo chiedo con grande umiltà, lei mi dà l’impressione di essere più favorevole al comunismo che al capitalismo: vuole veramente dare questa impressione?". Era una domanda forte, registrata, conseguenza di quello che lui aveva appena detto».
Hai intervistato anche Fidel Castro.
«Un grandissimo personaggio, un idealista convinto di essere l’unico in grado di salvare Cuba. L’intervista la conduceva lui, diceva quello che voleva, era un fiume in piena, andava per conto suo. Da mezzanotte alle tre e mezza del mattino».
Il giornalista deve essere un po’ adulatore?
«Gli italiani sono tutti un po’ ruffiani. Il loro campione è Amadeus».
Amadeus il presentatore?!
«L’adulatore principe. Leccapiedi di tutti quelli che telefonano, com’è bravo, com’è intelligente. Adulazione dell’idiozia di massa, esaltazione della mediocrità».
Come è nata la tua amicizia con Agnelli?
«Negli Stati Uniti. Amava l’America, ci andava spesso e mi chiamava».
Però quando è morto, non hai scritto nulla.
«E per lo stesso motivo, adesso, su Agnelli, preferisco non parlare».
I funerali – come diceva lui – sono l’unico posto dove ci si può imbucare con facilità.
«Qualcuno è corso in Tv a declamare la sua amicizia ancora prima dei funerali».
E poi adesso questa valanga di pettegolezzi su Vanity Fair.
«Forse perché la giornalista era straniera tutti hanno cominciato a raccontare».
Susanna Agnelli, Marellina Caracciolo, Nicola Caracciolo, Lupo Rattazzi, Furio Colombo. Riservatezza poca.
«La giornalista ha telefonato anche a me, ma io le dissi che non avevo nulla da dire».
Tutti a dichiarare che Agnelli li chiamava alle sei di mattina.
«Se avesse chiamato alle sei di mattina tutti quelli che l’hanno detto, le sei di mattina sarebbero durate quattro ore».
Il tuo nome è stato trovato nel dossier Mitrokin. Sei una spia sovietica?
«C’è scritto che ero "da coltivare". Vuol dire che non sono mai stato "coltivato"».
Ritieni il dossier una cosa importante?
«Certi nomi che ci sono fanno pensare che non sia un documento attendibile. Viola? Zincone? Corbi? Sono fregnacce».
Una montatura?
«Una deduzione a cui non posso arrivare. Però ho forti sospetti».
I sovietici hanno mai fatto qualche tentativo di incastrarti?
«Certo. Soprattutto con le donne. Quando stavo a Mosca, Igor Sedyk, il mio angelo custode, il giornalista incaricato dalle autorità di seguirmi, veniva a cena da me insieme alla sua fidanzata e regolarmente si ubriacava. Rituale un po’ ripetitivo e sospetto. La ragazza, appena lui si addormentava, rivolgeva le sue attenzioni verso di me».
Tutte le volte?
«Tutte le volte».
Dalla finestra di casa tua sventola una bandiera americana.
«Due piani sotto casa mia c’è la sede dei Comunisti italiani di Armando Cossutta. Quando è scoppiata la crisi irachena hanno appeso la bandiera della pace. E io quella a stelle e strisce. Mi hanno chiesto di toglierla. Io ho risposto di togliere quella della pace».
Mi sembra di capire che eri favorevole alla guerra.
«Oltre Berlusconi».
In che senso?
«Berlusconi ha avuto molto coraggio nell’andare contro i sondaggi, ma poi è rimasto stretto nella morsa Quirinale-Vaticano».
Che cosa doveva fare secondo te?
«Mandare i nostri soldati. I polacchi lo hanno fatto».
Quattro gatti.
«È il simbolo che conta. Quando è successo mi sono sentito molto polacco e poco italiano».
Il tuo amico Papa polacco non approverebbe la tua posizione.
«Ho un grandissimo rispetto per lui. Ma lui non può non fare il pacifista. È il suo dovere e il suo mestiere».
Nel senso che è obbligato ad assumere una posizione alla quale non crede?
«No. Ne è convinto. Se non fosse Papa direbbe la stessa cosa».
Ti rendi conto che stai dicendo che il Papa sbaglia?
«Io ho la mia opinione ferma e decisa. Ma non sono assolutamente convinto che sia quella giusta. Se qualcuno mi convince che sbaglio sono disposto ad ammetterlo».
Quando hai cominciato a fare politica?
«Nel 1979. Il Partito repubblicano mi chiese di entrare in lista per le europee. Risultai primo dei non eletti, dietro a Susanna Agnelli. Due anni dopo Susanna si dimise e io presi il suo posto. Feci anche le successive elezioni, sempre con i repubblicani. Ma quando entrarono in un governo di centro sinistra, un po’ troppo a sinistra per i miei gusti, me ne andai».
Poi, nel 1994, arrivò Berlusconi. Lo conoscevi?
«Nel 1984 ero entrato a Mediaset, avevo fatto Big Bang. Poi avevo partecipato alla nascita dell’informazione, con Zucconi, Bocca, Levi, Montanelli. Grandi nomi, piccoli risultati».
Berlusconi ti offrì la candidatura per il Polo ma arrivò il veto di Minniti, An.
«Le cose non andarono così. Domenico Minniti, uno che ho smesso di salutare, doveva selezionare le candidature per le europee. Io come deputato uscente mi ero convinto di essere candidato, non sapendo che Berlusconi aveva deciso di escludere gli uscenti. Minniti non rispondeva alle mie telefonate. Solo a poche ore dalla chiusura delle liste capii che ero escluso. Mi andò bene. Divenni portavoce di Berlusconi e poi senatore».
Il tuo giudizio su Berlusconi?
«Un uomo troppo buono che non si accorge quando gli remano contro. Al Quirinale c’è qualcuno più fedele ai salotti della Verusio che al governo della Repubblica. A Palazzo Chigi c’è qualcun altro che pensa che il presidente del Consiglio sia ancora Dini».
Siamo piombati in piena adulazione.
«La bontà in politica può essere un difetto».
In che senso è buono?
«Non caccia mai nessuno».
Vallo a dire a Santoro e a Biagi.
«Di quella frase in Bulgaria credo che si sia pentito».
Di fatto Santoro e Biagi sono fuori.
«Di fatto, vedrai, torneranno».
In ogni caso sono stati stoppati.
«Per Santoro non mi dispiace tanto. Per Biagi sì».
Fammi un esempio della bontà di Berlusconi.
«Ha fatto una squadra, un governo. Dico: anche se è un genio si sarà anche sbagliato su qualcuno, no? Eppure non ha mai sostituito nessuno. È troppo buono».
Un difetto vero di Berlusoni?
«All’inizio non aveva senso del ritmo. Faceva discorsi troppo lunghi. Adesso è migliorato.».
Non gli scrivevi tu i discorsi?
«No, i suoi discorsi li scriveva già Ferrara. Il mio ruolo era di comunicare con l’esterno. Partecipavo agli incontri, ascoltavo le telefonate».
Che consigli gli davi?
«Di non parlare coi giornalisti ogni volta che ne incontrava uno per strada. Ma lui era irruente».
Non ti dava troppo retta.
«Ci provava. Tra il Berlusconi di allora e quello di adesso c’è un abisso! Era già perfetto allora ma adesso è super-perfetto».
Il portavoce è anche un adulatore.
«No. L’adulazione nuoce all’adulato».
Berlusconi è circondato da una corte di adulatori.
«Un po’ ce ne sono. E non credo che gli piaccia. Ma stenta ad imporre un comportamento».
Non fa altro che scrivere decaloghi di comportamento.
«Li fa per Forza Italia, come regole astratte e generali. Ma è troppo rispettoso del singolo per dire: "Devi fare così, non devi fare cosà"».
Tu e Furio Colombo avete due carriere parallele. Entrambi giornalisti, entrambi vicini alla Fiat.
«Con la Fiat non ho avuto nulla a che fare. Io ero vicino all’avvocato Agnelli. Vicino alla Fiat era Colombo».
Entrambi scrivevate per la Stampa. Due persone incanalate su strade più o meno simili e oggi finite su sponde opposte.
«Nel senso che lui ha cambiato strada. Non c’è niente di male, intendiamoci. A un certo punto della sua vita gli è girato qualcosa che a me appare storto. Ma lui è convinto che sia dritto».
Per esempio?
«Sull’Unità deve essere impazzito. Ma avrei potuto impazzire anche io. La grande distinzione è la buona o la cattiva fede».
Hai mai avuto la tentazione di voltare gabbana?
«No. Però non mi dispiacerebbe. Macerarmi dentro. Cambio o non cambio? Passare notti insonni a struggermi».
Un tuo difetto?
«Il mio difetto è di non essere aggressivo, di non avere nemici e di non essere ambizioso».
E anche di dire i pregi quando ti chiedono i difetti. Sicuro di non avere nemici?
«Sicuro».
Mario D’Urso che chiama il suo cane Jas lo consideri un amico? Jas a cuccia, Jas dammi la zampa, Jas mangia la pappa. Non è carino.
«Lui dice che siccome il cane proveniva dalla Polonia, Agnelli gli ha suggerito di chiamarlo Jas. Ne dubito. Quello che è certo è che qualsiasi cosa Agnelli gli avesse chiesto di fare lui l’avrebbe fatta. D’Urso è una persona con un cuore enorme. Certo fa una vita e ha interessi molto distanti dai miei».
Dimmi nomi di voltagabbana.
«Dotti… Mastella… Per un politico è difficile resistere alla tentazione di governare. Mi piacerebbe un ritorno di Dini a destra».
E Bossi?
«Quando in Europa mi chiedono di spiegare Bossi io non ci riesco. Non so che cos’è Bossi. È simpaticissimo, energico, ma è un alleato scomodo e complica la vita del governo».
Altri casi di voltagabbana?
«Voltare gabbana non è considerato un peccato mortale dagli italiani. Pensa a Bobbio.
Ti riferisci all’intervista che ha dato a Pietrangelo Buttafuoco per il Foglio in cui ha ammesso la sua debolezza nei confronti del fascismo?
Esatto. È rimasto un mito anche dopo che ha confessato il suo peccato. Ma c’è un caso clamoroso».
Chi?
«Alessandro Meluzzi. Quando eravamo senatori non lo salutavo. Mi fa ribrezzo per tutti i salti della quaglia che gli ho visto fare: Pci, Psi, Forza Italia, indipendente, lista Dini. Ha cercato anche i Verdi e poi "Elefante rosa", lista per le amministrative di Torino».
Tu hai molti amici a sinistra. Ezio Mauro…
«Ogni tanto ci vediamo a colazione e cerca di convincermi a mollare Berlusconi».
Frequenti anche Carlo Caracciolo.
«Sono convinto che se un giorno parlasse con Berlusconi andrebbero assolutamente d’accordo».
Con Caracciolo fai anche un mitico poker, un «poker rosso» con Gigi Melega e Claudio Rinaldi. Dicono che vinci sempre tu.
«Non sarebbe elegante smentirli».
Chi gioca meglio?
«Claudio Rinaldi. Però si infogna. Quando perde entra nel panico. Caracciolo è il più calcolatore, il più equilibrato. Melega è troppo innamorato del poker per poter vincere. La troppa passione lo offusca».
E tu?
«Io sono il giocatore perfetto».
Un enorme peccato.
Un uomo altrimenti quasi perfetto: un liberale, anti-comunista, di una destra che in Italia non ha mai trovato spazio, uomo di cultura e gusto, di mondo e di donne… ma c’è la macchia: da sempre debitore di altri politici truffaldini, Berlusconi è solo l’ultimo.
E quindi continua ad avere ragione Travaglio: <>
Come fa, guarda caso, Stas’, il figlio di Jas… ed anche lo stesso Jas, ultimamente, deve aver riscoperto un po’ di sano liberalismo al di là di Berlusconi, se è vero come è vero che se l’è presa alquanto per la vittoria di Trump, anzi: di quel “popolano” di Trump, in gergo liberal-conservatore…
Un enorme peccato.
Un uomo altrimenti quasi perfetto: un liberale, anti-comunista, di una destra che in Italia non ha mai trovato spazio, uomo di cultura e gusto, di mondo e di donne… ma c’è la macchia: da sempre debitore di altri politici truffaldini, Berlusconi è solo l’ultimo.
E quindi continua ad avere ragione Travaglio: <>
Come fa, guarda caso, Stas’, il figlio di Jas… ed anche lo stesso Jas, ultimamente, deve aver riscoperto un po’ di sano liberalismo al di là di Berlusconi, se è vero come è vero che se l’è presa alquanto per la vittoria di Trump, anzi: di quel “popolano” senza gusto di Trump, in gergo liberal-conservatore…
La citazione di Travaglio non si può mettere?
La scrivo senza virgolette, sennò ciò che ho scritto non ha senso.
Sono un liberal-conservatore, un montanelliano, all’estero voterei a destra, voterei per uno Chirac, per una Merkel… è solo qui in Italia che non posso votare a destra, perché l’Italia non è un paese normale, in Italia non c’è mai stata una destra normale, è tutto territorio di ladrocinio e basta.
Sicché mi ritrovo spesso a votare da tutt’altra parte… ma ancora aspetto il ritorno di un nuovo Einaudi.
Questo il pensiero di Travaglio, che collego idealmente a ciò che Gawronski mi evoca sebbene, invece, nella sua carriera e vita egli abbia fatto tutt’altro, a mio avviso “genuflettendosi” ai Berlusconi di turno, che non hanno la classe, il gusto, la nobiltà, il lignaggio di un antico liberal-conservatore come Jas Gawronski apparentemente ha. Me ne dispiace molto.
Errata corrige: CHE (non “di”) un antico liberal-conservatore come Jas Gawronski apparentemente ha.