- 6 Dicembre 2001
I sondaggi: scienza moderna per capire come va il mondo senza dover faticare troppo. Per capire che cosa sta succedendo, e adeguarsi. Per capire che cosa succederà, e prevenire. Una specie di magia. Si chiede un’opinione soltanto a mille persone ma è come se la si fosse chiesta a tutti gli italiani. Renato Mannheimer è uno dei santoni di questa nuova religione che ogni giorno ci dice chi siamo, che cosa facciamo, dove andiamo. Sembra un mago del futuro e invece ha un passato piuttosto particolare. Da giovane era un contestatore, un rivoluzionario, un maoista che militava nel gruppo meno modernista che esistesse tra i sessantottini, Servire il Popolo, una specie di piccola chiesa, guidata da quell’Aldo Brandirali che si era messo perfino in testa di celebrare i «matrimoni del popolo». Per Mannheimer un lungo tragitto, da una specie di medioevo politico all’analisi del presente, alle previsioni del futuro.
Mannheimer, come è andata?
«Vorrei fare un’osservazione. Io ho cominciato a fare i sondaggi già da allora. Uno dei miei primi sondaggi fu pubblicato nella rivista del Movimento studentesco. E fu criticato da uno dei leader, Salvatore Toscano. Già da allora io credevo nella necessità di indagare l’opinione pubblica. Per la verità avevo fatto piccolissimi sondaggi anche al liceo. Avevo l’idea fissa di capire quello che pensava la gente».
Tema dei sondaggi?
«Un po’ cretini: dove andare in gita scolastica, come utilizzare la macchina della Coca Cola durante l’intervallo».
E per il Movimento?
«Sondaggi generici in cui le domande erano un po’ orientate. Veniva fuori sempre quello che faceva piacere a noi…».
Anche adesso…
«No, adesso no».
I partiti vogliono sondaggi che li gratifichino. E voi li accontentate.
«Non è più così. Oggi i partiti hanno a che fare con un mercato elettorale e vogliono sapere la verità. I sondaggi che hanno in mano sono assolutamente veritieri. Magari poi ne diffondono altri che fanno più comodo».
Come una doppia contabilità: sondaggi in nero e sondaggi in chiaro…
«Meno di un tempo, comunque».
In Servire il popolo li facevate i sondaggi?
«Non c’era una grande attenzione verso l’opinione pubblica».
Tu hai ufficiato qualche matrimonio politico?
«No, però sono stato in vacanza in comune… quando bisognava dividersi anche le sigarette…».
Brandirali pretendeva la consegna di tutti i libri.
«La cultura borghese si abbatte e non si cambia. Avevamo la sede piena di libri “della borghesia” tolti dalla circolazione. E qui debbo confessare per la prima volta un mio imbroglio. Andai da Brandirali e gli dissi: “Ho trovato un cretino di un borghese che li comprerebbe tutti: non ci dà molti soldi ma tanto che ci facciamo con tutti questi libri della borghesia? Vendiamoli a questo cretino borghese”».
Il cretino borghese eri tu naturalmente.
«Ero io. E così ho cominciato a costruire la mia biblioteca con tanta roba di sociologia truffando Brandirali che secondo me se lo meritava».
Brandirali pretendeva anche la consegna di tutti gli averi.
«Alcune persone molto ricche si sono rovinate».
Come hai fatto tu a resistere alla tentazione di dargli tutti i tuoi averi?
«È stato facile. Ero povero in canna, non avevo una lira. Io sono nato a Milano da una famiglia che veniva dall’estero, dall’impero austro-ungarico con diramazioni tra Praga, Budapest, e Vienna. Mio padre venne dalla Svizzera a Milano con l’intenzione di andare in America. Ma il visto gli fu rifiutato, Milano gli piacque, erano gli anni del boom, mise su una fabbrichetta e rimanemmo qui. Quando avevo 13 anni mio padre morì e avemmo un momento di gravissima povertà. Io mi misi a lavorare a quattordici anni».
Che cosa facevi?
«L’insegnante, le ripetizioni private, il venditore di penne, l’interprete».
Ricordi?
«Ottimo rapporto con mio padre, conflittuale con mia madre. A scuola le prime manifestazioni per l’Ungheria. Ero ancora alle elementari. Da bambino io facevo il buffone. Anche adesso, ma da bambino di più. Mia madre mi rimproverava: “Non è serio fare il buffone”. Ma sbagliava».
Amici?
«Massimo Vita Zelman, l’editore d’arte. Ivo Galante».
Eri bravo a scuola?
«Assolutamente medio, né bravo né cattivo. Alla scuola pubblica c’erano i turni e allora mia madre mi iscrisse alla scuola ebraica».
Hai avuto mai problemi di tipo razziale?
«Noi tutti ne abbiamo avuti. Altrimenti la mia famiglia non si sarebbe mossa dall’Austria dove ha perso tutto. Ha perso tutto anche in Jugoslavia dove abitava prima. In Jugoslavia c’è ancora una birreria che pare mi appartenga. Un giorno o l’altro vado a riprendermela. Io stesso ho avuto dei problemi: nel ’68, ho ancora la fotografia, alla Bocconi scrissero “Mannheimer ebreo” per terra».
Tu ti senti ebreo?
«Sì. La cosa buffa è che la dimensione ebraica non è quasi mai stata portata avanti da me personalmente. Sono stati gli altri a farmi notare, sia in modo cattivo sia in modo buono, che ero ebreo. Ai tempi della guerra del Libano io ero nel partito comunista. Mi telefonò il mio migliore amico, mio compagno di sezione, e mi disse: “Guarda cosa avete combinato”. Io venivo associato a quello che facevano gli israeliani. Alla fine, a forza di associarmi, ho finito per interessarmene».
Eravamo rimasti alla scuola.
«Quando morì mio padre, il preside della scuola ebraica disse: “Questo ragazzo bisogna che lavori. Mandiamolo a ragioneria”. E così mi tolsero dal liceo scientifico. Ho avuto il complesso tutta la vita. I miei amici facevano il liceo e io no. La ragazza che corteggiavo faceva il liceo e io no. Mi misi a studiare filosofia da solo e di nascosto. Poi ho fatto la Bocconi e l’ho fatta bene. Ho finito con 110 anche se è stato un periodo molto tormentato. C’era il Movimento studentesco».
Ma tu sei andato a Servire il popolo, una specie di piccola setta.
«Abitavo a Milano da solo, senza famiglia, mia mamma si era trasferita in Austria e forse avevo bisogno psicologicamente di una ideologia forte, di una famiglia. Io non so bene che cosa mi abbia spinto, o forse ero proprio estremista, volevo veramente fare la rivoluzione. Con un gruppo di amici della Bocconi, mi viene in mente Enrico Sasson che fa il giornalista al Sole 24 Ore, Ivo Galante che era con me fin dalle elementari, Barbara Pollastrini, che era la mia ragazza, che poi ho sposato, andammo tutti insieme con Brandirali. Eravamo circa 15. Così come tutti insieme poi decidemmo di uscire e di iscriverci al Pci».
Che attività politica facevate?
«Andavamo nei comuni intorno a Milano a distribuire volantini, organizzavamo scuole, corsi di istruzione per giovani. Studiavamo i testi cinesi. È bello da studiare Mao Tse-tung. Ricordo cose interessanti. E anche cose cretine naturalmente».
Brandirali che tipo era?
«Un vero estremista, molto determinato, molto sicuro di sé, che diceva tutto su tutto. Poco democratico, non amava il dibattito».
I riti di Brandirali li prendevate sul serio?
«Non conosco nessuno che si sia sposato a Servire il popolo. Fra quelli del nostro gruppetto, che erano un po’ gli intellettuali della Bocconi, non ci credeva nessuno».
Tu ti sei sposato in Chiesa?
«Sì, venne anche Mario Capanna. Ma io non partecipai al mio matrimonio».
Spiegati meglio.
«In quanto ebreo potevo essere presente ma assente. I cattolici ammettono che tu sia lì come se non ci fossi perché stai zitto. Il secondo matrimonio, poi, l’ho fatto in Comune, con la mia seconda moglie, Maria Cacioppo».
Quali erano i tuoi miti giovanili, le letture?
«A quei tempi tutto era politica, le letture erano politiche, il personale era politico, le cose di sociologia riguardavano la politica, il matrimonio è stato politico perché ci siamo conosciuti in un contesto politico convinti entrambi di volere fare la rivoluzione».
Era il periodo dei cortei del sabato.
«Ci si andava volentieri. Si era convinti di cambiare il mondo».
Ce ne erano di cruenti.
«Mi avevano dato anche la spranga».
La spranga di ordinanza…
«Sì, ma non l’ho mai portata ai cortei. La lasciavo sempre a casa. Noi non eravamo cruenti. Ci insegnarono anche a fare le molotov. Ma non ne abbiamo mai fatta nemmeno una».
Che cosa ti piaceva del maoismo?
«Mao è un precursore dei sondaggi, dice che se non fai l’inchiesta non hai diritto di parola. Prima ascolta e poi parla».
Che cosa rinneghi di quel periodo?
«La mancanza di confronto dialettico con le culture differenti. Pensare di avere sempre ragione senza mai mettersi in dubbio».
Brandirali è finito in Comunione e Liberazione e poi in Forza Italia. Un buon esempio di voltagabbana.
«Non sono stato molto sorpreso. Di chiesa in chiesa».
Voi invece approdaste nel Pci…
«Sezione Aliotta, vicino alla Bocconi. Ci siamo iscritti nel ’73. Io poi sono uscito. Per caso avevo visto alcuni aspetti del Pci che non mi piacevano».
Linea politica?
«Linea morale. Ero incappato in alcuni aspetti di Mani pulite che non mi piacevano. Episodi piccolissimi, ma me ne sono andato».
E hai taciuto? Avresti dovuto denunciarli…
«Ho preferito andare via».
Di che cosa si trattava?
«Piccole corruzioni, tangentine. Oltretutto, nel mio animo imprenditoriale, mi sono anche arrabbiato. Ho detto: “Già che si fa, chiediamo più soldi!”. Avevano chiesto due lire, ma si può? Non ricordo le cifre ma ricordo di essere stato impressionato dalla pochezza della richiesta».
Cosa facevi nel Pci?
«Facevo anche i sondaggi, con Mario Rodriguez e Aris Accornero, ma dovevamo superare molta ostilità. Ricordo il comitato federale di Pisa che deliberò che mai avrebbero adottato strumenti americani all’interno del partito».
Chi è voltagabbana in Italia?
«Io. Sono sempre e comunque disponibile a cambiare idea. Malgrado la mia natura e il mio sentimento siano sempre quelli della sinistra, sono spesso in disaccordo con la sinistra. Lo dico sempre ai miei figli: fate quello che diceva Mao, prendete le decisioni dopo aver ascoltato gli altri e non sulla base di pregiudizi e preconcetti».
Voltagabbana è chi cambia opinione per interesse.
«E allora non sono voltagabbana. Forse avrei potuto, forse avrei dovuto. Ma non l’ho fatto. Peccato, avrei fatto carriera!».
Dai, definiamo il voltagabbana.
«Io odio quando qualcuno mi dice: “Quello lì è sempre stato coerente nella vita”. E allora? Non si è mai posto un dubbio?».
Magari se lo è posto, magari se lo pone continuamente. E rimane della sua idea.
«Ma io conosco tanti coerenti che non si sono mai posti il dubbio. Io me ne pongo fin troppi di dubbi, tutte le mattine. Ricordo le certezze dell’adolescenza, questi sono i buoni e questi sono i cattivi…».
C’è un cattivo dell’adolescenza che poi hai scoperto essere buono?
«Gli Stati Uniti».
Gli Stati Uniti sono buoni adesso?
«No, non sono buoni. Ma nemmeno cattivi. Allora erano la cattiveria per definizione».
E i buoni?
«I buoni erano gli operai. A Servire il popolo c’erano un paio di operai opportunisti tremendi. Qualunque cazzata dicessero, per il solo fatto di essere operai, era considerata la voce della verità. E noi prendevamo appunti. Poi ho imparato che ci sono operai cretini e operai intelligenti».
Chi è oggi secondo te il voltagabbana?
«Non lo so. In alcuni casi si può cambiare campo. Debbo pensarci bene».
A che cosa devi pensare? Si tratta di gente che ha preso voti dalla destra ed è passata a sinistra. E viceversa.
«Alcuni suggeriscono che dovrebbero dimettersi. Io mi sono dimesso sempre quando ho cambiato idea».
Qual è stato il più grande errore che hai commesso dal punto di vista dei sondaggi?
«Il più grande errore che ho fatto è stato tanto tempo fa, alle elezioni in cui la Dc crollò. Repubblica mi aveva commissionato un sondaggio e venne fuori il crollo della Dc. Noi guardavamo questi dati e ci sembrava impossibile».
Che cosa avete fatto? Li avete corretti?
«No, non li abbiamo consegnati. Pensavamo che fossero errati. Non ci credevamo».
Perché lo consideri un errore?
«Perché fu un errore non crederci. I sondaggi non fanno errori».
Tu sei sempre da Vespa. Sei un vespiano?
«Io non sono un vespiano. Sono sempre da Vespa perché ho un contratto. Tu lavori alla Rcs, sei un romitiano? Condividi tutto quello che dice Romiti?».
Tutto, assolutamente tutto.
«Io vado a Porta a Porta e dico delle cose. A volte sono d’accordo con Vespa e a volte no. Trovo che Vespa sia molto bravo. È scientifico, mai approssimativo».
Chi ti piace dei tuoi concorrenti e chi non ti piace?
«Dirò solo chi mi piace e che in questo momento mi viene in mente. Mi piace l’Abacus, mi piace l’Eurisko, mi piace la Doxa. Mi piace la Nielsen, il livello di accuratezza dei sondaggi italiani è molto ammirato dai colleghi stranieri. Sanno quanto sia difficile fare sondaggi politici in Italia, con tutti questi partiti, partitini, partituncoli».
Tu politicamente oggi che cosa sei?
«Sono un indipendente che di volta in volta sceglie che cosa votare».
Non sei più di sinistra?
«Ogni volta desidero valutare e scegliere».
L’ultima volta?
«Centro-sinistra, però con qualche dubbio. Non ero totalmente convinto».
Quante volte hai votato per il centro-destra?
«Per il centro-destra mai, qualche volta per il centro, repubblicani, quelle cose lì, secoli fa».
Come giustifichi la deriva a destra che c’è in questo momento?
«Io penso che sia l’incapacità della sinistra di dire le sue ragioni. Ricordi uno slogan di Rutelli?».
Solo un problema di comunicazione?
«No. Anche il fatto che la sinistra deve conciliare decine di posizioni diverse. Pensa alla guerra. Io sulla guerra sono favorevole all’intervento militare, sono contrario ad ogni forma di terrorismo, odio i kamikaze. Sono di destra da questo punto di vista: ho litigato con tutti i miei amici di sinistra. Mio figlio mi ha detto: “Papà ti ho sentito in televisione. In classe dicono tutti che sei un guerrafondaio”».
Certo, sei partito da Mao, di strada ne hai fatta.
«Obiettivamente sì».
Ma perché? Un problema di vecchiaia?
«Forse l’età, la ragionevolezza, l’esperienza. Non lo so, ma sono contento che mio figlio sia un po’ come ero io da ragazzo. Mi dà del guerrafondaio. Poi crescerà».
E diventerà di destra?
«E perché dovrebbe diventare di destra? Intanto però è bello che abbia degli ideali, almeno adesso».
Nessun commento.