- 16 Maggio 2002
È stato uno dei maggiori agitatori della scena culturale italiana. Ha fondato il Gruppo 63. Racconta di avere fatto grande la casa editrice Feltrinelli. Ricorda di essere stato a capo di un servizio culturale dell’Espresso autorevole e provocatorio. Oggi Valerio Riva ha 72 anni ma non ha smesso di essere polemico. Anche adesso che i vecchi compagni non lo riconoscono più, lui, ex grande amico di Fidel Castro, leggendo i suoi articoli sul Giornale. «Perfino Nanni Balestrini dice che non può collaborare con me perché sono passato dall’altra parte», dice Valerio. «Nanni, che io ho creato dal nulla».
Parlami di Balestrini.
«Quando creai il Gruppo 63, insieme a Filippini, cercavamo qualcuno che conoscesse bene il mondo dei giovani scrittori italiani. Si presentò Balestrini, un giovane incerto fra etero e omosessualità, che piaceva alle donne e campava sulle spalle di un paio di anziane signore».
Ingrato?
«Se esiste un Balestrini, un Sanguineti, un Guglielmi, un Arbasino è perché ho fatto molto per loro. Eppure, pur di adulare il potere, dimenticano tutto. Guglielmi non era nessuno prima che io pubblicassi i suoi libri. Un professorino di Bologna. Quando è diventato padrone della Rete 3, mai una volta che mi abbia detto: “Valerio, vuoi fare un programma?”. Mai! Parlano di egemonia culturale della sinistra. È mafia».
Balestrini dice che stai dall’altra parte.
«Io sono sempre stato un uomo di sinistra. Sono figlio di un antifascista. Per i primi due anni delle elementari mio padre non mi mandò a scuola per non farmi prendere la tessera di balilla. Mi mandava a farmi correggere i temi da Lelio Basso. Leggevo riviste trotzkiste. L’unica cosa che non mi piaceva era il Pci, perché avevo visto molti compagni di classe fascisti diventare comunisti. Per me la vera sinistra era l’anticomunismo».
Oggi scrivi sul Giornale di Paolo Berlusconi.
«Ho cominciato con Feltri. Scrissi un pezzo contro Bobbio, raccontando la storia delle sue lettere a Mussolini. Ero stanco di leggere che un giovane professore non poteva non iscriversi al partito fascista. Scrissi: “Conosco la storia di Bobbio ma conosco anche la storia di mio padre”. L’articolo piacque enormemente a Feltri».
Lo credo.
«Scrivo quello che voglio. E rimango di sinistra».
Nell’arco della tua vita, chi hai votato?
«Ho sempre votato socialista. I primi tempi scrivevo anche sull’Avanti. Facevo il critico delle riviste musicali. Conobbi Wanda Osiris, Macario, Arbasino».
Che c’entra Arbasino?
«Faceva il capo della claque gay di Wanda Osiris».
Oggi chi voti?
«Berlusconi».
Ha ragione Balestrini.
«Uno che vuole votare socialista, non può che votare Berlusconi».
Singolare teoria. Ma poi non ti lamentare se i vecchi amici ti tolgono il saluto.
«Io non sto dietro al potere, non vado a chiedere posti».
Sei consigliere di amministrazione della Biennale. Dentro alle polemiche causate da Sgarbi.
«Sgarbi aveva tutte le ragioni, ma le ha usate nella maniera sbagliata».
Che cosa voleva?
«Voleva, come direttore delle Arti Visive, Robert Hughes, il critico d’arte di Time, un australiano di grande ingegno, contrario a tutta l’arte povera, favorevole alla pittura-pittura e alla scultura-scultura. Ma uno come Hughes non puoi comandarlo. E questo ha fatto andare in bestia Bernabè che invece pensa, come tutti questi manager, che è facile fare cultura. Sai, quelli che dicono: “Picasso? Che ci vuole? Lo so fare anch’io”».
Com’è finita?
«Bernabè ha fatto nominare un certo Bonami, un fiorentino quarantenne del tutto ignoto».
Ma allora perché dici che Sgarbi ha sbagliato?
«Perché con le sue esternazioni inopportune ha impedito la discussione all’interno del consiglio. Sgarbi si sta giocando la carriera. Ha dei vizi psicologici gravi».
Però ti piace.
«In Italia non siamo più abituati ad avere personaggi del genere. Sgarbi è il Curzio Malaparte di adesso. Malaparte era un uomo dagli improvvisi successi, dalle improvvise passioni e dalle improvvise cadute. Mussolini lo mandò al confino. A Capri. Un anno a Capri. Mica male».
Chi manderesti al confino, tu?
«Tanti, ma non per un anno. E non a Capri. Tutti quelli che sono andati a contestare alla Fiera del Libro di Parigi li avrei messi su un treno blindato e li avrei portati al confine. Compresi quelli che hanno dato loro corda».
Stai parlando di noti intellettuali. Di Consolo, di Tabucchi.
«Intellettuali? Chi è Consolo? Chi è Tabucchi? Ma santo cielo! Tabucchi è andato bene solo fino a quando ha copiato Pessoa. Adesso vorrei dire una cattiveria ma non la posso dire…».
Tanto so che la dici.
«Adriano Sofri. Il suo, in un certo senso, è come un confino. Sta a Pisa, non può uscire dal carcere, non fa il giro di Capri ma ha tutte le televisioni che vanno da lui».
Se è innocente…
«La verità la sa Lanfranco Pace…».
Perché non la dice?
«Per lavorare. Anche io sono stato messo al bando quando ho detto che le sentenze di Sofri erano più che vere».
Chi ti ha messo al bando?
«A me non sarebbe dispiaciuto scrivere sul Foglio».
Non è un dramma.
«Ti racconto una storia drammatica. Aldo Ricci ha scritto un romanzo, Il tonto, in cui ha radunato tutti i documenti che dimostrano che Mauro Rostagno è stato eliminato perché sapeva la verità sul caso Calabresi. Bene, oggi è ridotto in condizioni miserevoli, non riesce più a fare niente, gli hanno portato via i soldi…».
Come può funzionare una cosa del genere?
«Il ricatto. Se Sofri racconta tutto, molti giornalisti vanno in galera…».
Dimmi il nome di un adulatore.
«Carlo Feltrinelli».
Come? Proprio il figlio del tuo grande amico Giangiacomo?
«La casa editrice Feltrinelli l’ho fatta io. Quando è morto Feltrinelli, loro si sono trovati col culo per terra e si sono potuti salvare solo vendendo i diritti degli autori che avevo portato io. Da Garcia Marquez, a Boris Pasternak. Adesso che cos’hanno? Isabella Allende? Ma non scherziamo! Tabucchi?».
Perché Feltrinelli è morto?
«Il giorno che detti le dimissioni mi disse: “Se sentirai che sono morto sappi che sono loro che mi hanno ammazzato, quelli che oggi mi stanno attorno”».
Quindi è stato fatto fuori dai suoi.
«Dovevano fare sei attentati ai tralicci quel giorno. C’era il congresso del Pci a Milano. Il black-out doveva servire per rimandarlo e impedire che Berlinguer venisse nominato segretario. Ma uno per uno gli attentatori degli altri tralicci si tolsero di mezzo. Un solo attentato è stato fatto. Quello in cui Giangiacomo è morto».
Siamo in piena dietrologia. Ma intanto dimmi, perché ce l’hai tanto con il figlio del tuo amico?
«È un uomo mediocre. Non coraggioso come il padre. Un giorno mi chiese di aiutarlo a scrivere, a quattro mani, un libro sul padre. Lo vidi fumare le stesse sigarette del padre, le Senior Service, e accenderle con lo stesso gesto del padre. Mi commossi e gli consegnai tutto il materiale che avevo. E lui scomparve. Dopo un po’ uscì il suo libro. Intitolato Senior Service. Dove c’è scritto che ero un confidente dei servizi segreti. Lo avrei ammazzato».
E adesso di chi ci vogliamo vendicare… Raccontami, hai litigato anche con Garcia Marquez?
«Non tolleravo che fosse diventato un cortigiano di Castro. Litigai con lui quando scrissi che nell’Autunno del patriarca si era ispirato a Fidel Castro. Mi disse: “Mi stai distruggendo! Verrò ucciso!”».
Preoccupazioni più che comprensibili.
«Garcia Marquez è un grande. Non mi aspettavo che fosse codardo».
Castro rappresenta una tua incompiuta. La sua biografia non è mai uscita.
«Con Carlos Franqui che era stato direttore del giornale Revolucion e il primo portaparola di Castro avevamo fatto un centinaio di ore di intervista con Fidel. Parlava anche sette ore di seguito».
Fidel è logorroico…
«Ripeteva sette volte la stessa frase. Un giorno Carlos mi disse: “I tempi sono cambiati, questo libro non lo faremo mai, però il materiale lo dobbiamo portare via. Dobbiamo salvare la storia di questa rivoluzione”. Così lo portammo in Europa. Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. I castristi non mi perdonarono mai. E fu in quella occasione che Giangiacomo Feltrinelli mi vendette. Ottenne i diritti di pubblicazione in tutto il mondo del diario di Guevara in Bolivia ma in cambio promise ai cubani che mi avrebbe licenziato dalla casa editrice».
La tua uscita dalla Feltrinelli non l’hai proprio digerita.
«Ma all’Espresso ho incontrato un secondo Giangiacomo: Livio Zanetti».
E alla fine avete litigato, come al solito.
«Livio Zanetti stava offendendo la mia dignità».
Racconta.
«Si era innamorato di una redattrice della mia sezione. Un giorno mi disse: “Devi farmi un piacere personale. Scindiamo il tuo servizio in due, Cultura e Spettacoli. E facciamo lei capo degli Spettacoli”. “Non puoi spezzare quello che ho creato per darlo alla tua donna”. E detti le dimissioni».
Tu sei considerato un buon maestro.
«Ho creato Rita Cirio, Pasquale Chessa, oggi vicedirettore di Panorama. Anche Barbara Palombelli. Anche Irene Bignardi. Mica male come talent scout, vero?».
Certo e anche un po’ gradasso. Ricordi qualche adulatore nel mondo culturale italiano?
«C’è un caso di adulazione di cui mi secca parlare, perché in fondo mi intenerisce».
Riguarda chi?
«Alberto Bevilacqua. L’avevo conosciuto quando voleva assolutamente entrare nel Gruppo 63.
Il Gruppo 63 allora era molto di moda. Volevano enatrarci tutti.
«Certo. Bevilacqua mi dava appuntamento al Caffè Rosati e mi domandava perché non lo volessimo. E io lo prendevo in giro, affettuosamente».
L’episodio?
«È più recente. Un giorno Bevilacqua telefonò a Goffredo Parise che faceva parte della giuria del premio Strega: “Devi darmi una mano per vincere”. Parise gli rispose: “Tu devi darmi qualcosa in cambio se vuoi il mio voto”. “Ma cosa? Dimmi! Ti do tutto quello che vuoi”. Parise lo tenne 20 minuti al telefono, sospeso… ».
Alla fine, cosa voleva Parise?
«Questo non te lo dirò mai. Si trattava di uno scherzo pecoreccio nel quale Bevilacqua cascò come un piccione».
Che tipo era Parise?
«Un grande scrittore di destra. Un grande ritrattista. Pungente, preciso. Ricordo, sul Corriere, uno splendido ritratto di Furio Colombo, “l’uomo di plastica”. Colombo: ecco un bell’esempio di adulatore del potere. Ieri presidente della Fiat Usa. Oggi direttore dell’Unità».
Era anche lui nel Gruppo 63.
«Scriveva su 15, la nostra rivista finanziata da Feltrinelli. Quando venni via da Feltrinelli nel ’68 ci chiedemmo che cosa fare di 15, io convinsi Umberto Eco che era meglio chiuderla, come volevano anche gli altri. Facemmo una votazione e misteriosamente Furio Colombo, che noi consideravamo il tappetino di Eco, votò per Feltrinelli. Evidentemente Eco aveva mandato avanti Colombo, il tappetino, per vedere le reazioni. Ci fu una lite terribile».
E come finì?
«Che 15 chiuse e loro, Colombo, Eco, Balestrini, fecero un giornale identico chiamato Compagni virgola».
Una volta tu hai parlato delle «patetiche feste Feltrinelli».
«Ho conosciuto tutte le donne Feltrinelli, da Bianca Delle Nogare a Sibilla Melega. Con Bianca Delle Nogare non c’erano feste, si andava a mangiare a casa di Feltrinelli, in piazza San Babila, una casa imbarazzante perché Feltrinelli aveva costellato l’anticamera con corna di cervo».
Memoria di caccia…
«Quaranta paia di corna, una esagerazione… Quando arrivò Nani Destefani cominciò la trasformazione della casa editrice. Bianca l’aveva arredata in stile Mondrian. Il povero Luciano Bianciardi voleva suicidarsi perché l’aveva messo contro una parete tutta linee nere e quadrati rossi, gialli, bianchi. La Destefani cambiò stile: caminetto, poltroncine rococo. Ma durò solo sei mesi perché fu cacciata, accusata di tradire Giangiacomo con il capo ufficio stampa. Feltrinelli, per riaversi dalla separazione, partì con Luli, la sorella di Carlo Ripa di Meana, per andare a comprare una barca, l’Eskimosa, in Norvegia. Arrivati sul posto Luli disse: “Io in barca non ci torno”. E prese l’aereo. Feltrinelli tornò solo ma ad Amburgo conobbe Inge Schöntal. La portò in Italia e cominciarono le grandi feste».
Ah, «Le grandi patetiche feste…».
«Feltrinelli era capace di bloccarti tutta la sera in interminabili discussioni sul plusvalore. Una sera arrivò il questore di Milano accompagnato da un giovanotto. La Inge mi portò da lui e mi disse: “Ecco nostro grante nuovo autore libri cialli. Parlate”. Io chiesi al giovanottino: “Lei scrive libri gialli?”. E lui disse: “Mi diletto”. “Ma ne ha scritti?”. “Uno”. Non aveva scritto nessun libro giallo. Aveva trovato una scusa per venire a vedere che cosa succedeva nel covo degli intellettuali di sinistra. Era Luigi Calabresi».
Chi è lo scrittore italiano più sopravvalutato?
«Camilleri. Scrive racconti dal linguaggio piatto, semplici sceneggiature per la Rai. È uno scrittore di plastica, inventato. Come Baricco. Dietro di lui c’è il vuoto».
Salviamo uno scrittore?
«Non so chi».
Busi?
«È un Arbasino per poveri. Allora salvo Arbasino. I suoi rap mi piacciono».
E tra i giornalisti? Il peggiore?
«Un bluff è sicuramente Mario Pirani, come direttore. L’ho conosciuto quando abbiamo fatto insieme l’Europeo. Una delusione».
Come andò la storia dell’Europeo?
«Un giorno mi chiamò Angelo Rizzoli e mi disse: “Voglio trasformare l’Europeo in un giornale culturale. L’unica persona che può fare questo giornale è lei. La copro d’oro. Ma prima devo licenziare tutti i redattori. Sono dei mascalzoni, dei mangiapane a tradimento”».
Ha detto proprio così? Tutti? E tu andasti?
«No. Ma dopo la lite con Zanetti chiamai Rizzoli per dirgli che accettavo. Mi disse: “Sarebbe disposto a condividere la direzione? Mi hanno chiesto di sistemare Pirani”. Pirani era sostenuto da Martelli ma io non lo sapevo. Avrei dovuto subito dire arrivederci. Ma avevo paura di rimanere senza lavoro. Dopo un anno, comunque, accettai la proposta di Bruno Tassan Din di dirigere il settore libri della Rizzoli».
Era il periodo della P2.
«Che entra anche nella storia del Gruppo 63».
Questa è nuova.
«Anche Gervaso voleva a tutti i costi entrare nel Gruppo 63 e noi non lo volevamo».
E Gervaso?
«Insieme a Pier Carpi propose a Licio Gelli di fare un gruppo alternativo al Gruppo 63. Gervaso, Pier Carpi, Maurizio Costanzo: erano loro tre che dovevano fare l’operazione».
Ma non la fecero.
«No, ma si cominciò a parlare di P2».
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