- 26 Novembre 1997
“Falcone era un credulone. Io glielo dissi. Tu credi troppo alla gente e poi ti pugnalano alle spalle. Se avesse dato retta ai miei informatori e al mio istinto…” Antonino Caponnetto, creatore del famosissimo pool dell’ufficio istruzione di Palermo, padre professionale e spirituale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, si trascina dentro un senso di colpa.
“Quel telegramma…se non lo avessi stracciato, se non lo avessi buttato nel cestino. E’ una pagina che pochi conoscono: io non riesco ancora a darmi pace di aver dato retta a Giovanni”.
Per capire il senso di colpa di Caponnetto bisogna risalire all’anno in cui chiese al Csm di trasferirsi a Firenze. Il lavoro del pool aveva già dato grandi risultati nella lotta contro la mafia. Falcone era pronto a sostituire Caponnetto. Ma a Caponnetto arrivarono delle informazioni dal Csm.
“Mi dissero che Falcone non sarebbe passato. Gelosie, interessi di bottega. Allora lo chiamai e glielo dissi. Insieme scrivemmo un telegramma al Csm per revocare la mia richiesta di trasferimento. Era sera tardi e decidemmo di spedirlo la mattina dopo. La mattina dopo Giovanni arrivò nel mio ufficio come una furia. Strappa quel telegramma, mi disse, mi assicurano che il voto sarà favorevole. Cercai di farlo ragionare. Ci sono dei Giuda che ti colpiranno alle spalle. Lui era scaltro nelle indagini ma terribilmente ingenuo nei rapporti umani. Alla fine purtroppo strappammo il telegramma. Come avevo previsto, al Csm i Giuda lo trafissero. Fu nominato Antonino Meli. In pochi giorni distrusse il pool, emarginò Falcone, vanificò tutto il nostro lavoro”.
Antonino Caponnetto parla di Falcone come di un figlio.
“Giovanni, Paolo Borsellino, Guarnotta, Peppino Di Lello: stavamo insieme giorno e notte. Lavoravamo come pazzi. Eravamo di idee politiche diversissime ma non parlavamo mai di politica. Non c’era tempo, l’emergenza mafia sovrastava tutto. I nostri uffici erano dentro un bunker. Io dormivo in caserma. Unica precauzione: variare il percorso dalla caserma al palazzo di giustizia tutti i giorni. Nonostante ciò organizzarono un attentato anche contro di me. Era Mannoia che doveva farmi saltare. Io avevo la deprecabile abitudine della puntualità. Uscivo dalla caserma sempre alle nove meno cinque. Mannoia aveva scoperto che quello era l’unico punto debole della mia protezione. Imbotté un’auto di esplosivo e la piazzò lé davanti. Poi si mise all’ascolto delle frequenze della polizia. Senté che era segnalata in zona un’auto di incerta provenienza. Non era la sua ma Mannoia si allarmò e portò via auto e tritolo. Qualche giorno dopo io lasciai Palermo per Firenze”.
Convivere con la paura, sapendo che prima o poi può capitare a te di dover pagare il tuo impegno per riportare la legalità in una regione sotto il dominio della criminalità organizzata. E’ capitato ai suoi due “figli”, prima a Giovanni e poi a Paolo. Uno dietro l’altro a pochi mesi di distanza.
“Qualche settimana prima della strage di via D’Amelio Paolo Borsellino aveva capito che stavano organizzando il suo attentato. Sapeva che era arrivato il tritolo per lui. I suoi comportamenti, le sue frasi lasciavano capire che era cosciente del pericolo. Alla figlia che partiva per una vacanza disse: lasciami il numero che se mi ammazzano ti telefono. C’era un buco nella sua protezione: la casa della madre in via D’Amelio. Per questo chiese alla questura che fosse disposta la rimozione delle auto. E’ ancora oggi uno dei miei chiodi fissi, sapere chi è stato il responsabile di questa gravissima omissione, chi se ne è fregato. Sarà stato punito qualcuno per non aver preso un provvedimento che avrebbe salvato la vita al mio Paolo?”
Oggi si sanno molte cose degli attentati, i nomi degli esecutori se non quelli dei mandanti dei livelli più alti. Che cosa prova Antonino Caponnetto nei loro confronti?
“Un senso di rabbia profonda. Vorrei avere la capacità che hanno i Borsellino di perdonare. Io non ho una fede cosé intensa, assoluta, totale. Io non ho perdonato nessuno, non ci riesco. Sento che sarei più vicino a Paolo se perdonassi i suoi assassini, ma è troppo difficile”.
Che cosa ricorda di Paolo e di Giovanni?
“Di Paolo la sua umanità. Di Giovanni i suoi occhi pieni di luce il giorno in cui, quasi di nascosto, si sposò con Francesca. Eravamo solo in cinque, il minimo: loro due, i due testimoni, il sindaco Orlando. I suoi occhi erano luminosi. Il giorno dopo tornò quello di sempre, con quel suo sguardo assorto, ironico, diffidente, velato di malinconia come hanno molti meridionali”.
Antonino Caponnetto parla lentamente, quasi sottovoce. Ha 77 anni. Passa la vita, da quando è in pensione, girando l’Italia, una scuola dietro l’altra, predicando legalità. Si vede che fa fatica ma il suo pellegrinaggio non conosce soste. Una media di un incontro al giorno negli ultimi quattro anni. Una decisione presa il giorno della morte di Borsellino.
“All’obitorio avevo appena baciato il volto di Paolo sorridente. A un telecronista impietoso dissi: “Tutto è finito”. Non avevo capito che dovevo raccogliere la fiaccola che Paolo aveva raccolto da Giovanni. Me ne vergogno ancora. Ventimila persone davanti al palazzo di giustizia me lo urlavano: non ci lasciare, torna a Palermo! Io decisi che avrei cominciato a girare per le scuole, per spiegare ai ragazzi perché erano morti Paolo e Giovanni e perché non doveva morire più nessuno. Il vero nemico della mafia non è la polizia, non è la magistratura. E’ la scuola”.
Ma la mafia è in crisi?
“E’ in crisi l’organizzazione militare, l’impero economico-finanziario no. Ma il consenso diminuisce. Diceva Falcone: il 50 per cento dei siciliani sta con la mafia, l’altro cinquanta per cento sta alla finestra a vedere come va a finire la corrida. Adesso il consenso è dimezzato. Ma bisogna stare attenti. Oggi c’è una vera emorragia di capi e di figure rappresentative. Ma io ho paura quando si parla di modificare la legge sui pentiti. E chi sostiene che si debba abolire il regime di carcere duro per i mafiosi dimentica che prima i boss incarcerati entravano direttamente in infermeria con i loro pigiami di seta e i rolex al polso, che i pasti arrivavano loro direttamente dai ristoranti di lusso insieme a caviale e champagne. E’ stato il carcere duro a convincerli alla resa”.
I garantisti dicono che non si può usare il carcere come pressione per ottenere confessioni o pentimenti.
“Dimenticano che il nostro è il Paese più garantista del mondo. La limitazione della libertà personale è sottoposta a tre gradi di giurisdizione: il Gip, il tribunale della libertà e la Cassazione”.
Lei non pensa che i giudici stiano occupando spazi non loro?
“Assolutamente no. Successe ai tempi dei pretori d’assalto quando si trattava di applicare diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e non erano stati allestiti strumenti necessari. Penso al diritto alla casa, quando al cittadino non restava che rivolgersi al magistrato. Ma appena è intervenuto lo Stato il giudice si è tirato indietro. Io non credo alla libidine di potere del Pm. Facciano piuttosto un esame di coscienza i parlamentari: sono sempre stati pronti a soddisfare le legittime esigenze della gente?”
Adesso c’è la sinistra al governo…
“Ho molte perplessità sul modo in cui la sinistra affronta il problema della giustizia. Sono rimasto sconvolto quando ho assistito alla conversione in legge del decreto sulla custodia cautelare che celava, e male, il proposito di legare le mani ai Pm. Il cammino dei Pm da allora è disseminato di tagliole pseudogarantiste”.
Però bisogna ammettere che certe cose non succedono più.
“E chi se lo dimentica? Se penso che Carlo Palermo, tanti anni fa, era già arrivato a scoprire la connessione tra politici corrotti, traffico d’armi e mafia! Ricordo ancora la missiva urgente con la quale il capo del governo, intimò al ministro della Giustizia di trasferire il giudice Palermo”.
Capo del governo era Bettino Craxi…
“E il ministro era Vassalli”.
Come finì?
“Vassalli trasferì Palermo nel giro di 48 ore”.
E come si giustificò?
“Non credo che si sia mai giustificato”.
Hanno detto cose orrende di Palermo…
“Si sono sempre dette cose false dei giudici scomodi. Una volta dicevano che Falcone e Borsellino erano comunisti. Adesso sono dei santi. E il comunista è Caselli. Non cambia mai niente in questo Paese”.
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