- 1 Gennaio 2000
All’Auditorium Rai di Torino, Raffaella Carrà racconta il suo Gran concerto per i bambini. Ma, dopo laboriose trattative, Nostra Signora della Tivù decide di aggiungerci anche un’intervista. A patto che non si parli di “Carràmba, che fortuna!”, lo show abbinato alla Lotteria Italia che parte il 17 settembre, per non «bruciare» la conferenza stampa prossima ventura: «Sa, io a viale Mazzini ci vivo». Va bene: scarrambiamoci e partiamo.
Perché si diverte tanto a lavorare con i bambini?
«Perché mi ricordo di quando avevo quattro anni, volevo fare la ballerina classica e saltellavo sul tappeto della nonna ascoltando Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij. L’ingenuità nessuno te la ridà mai».
Fiorello rifà in due minuti le elegantissime Canzonissime in bianco e nero. Tutti piangono la tivù di una volta, sì bella e perduta. Cosa aveva che oggi non c’è?
«Lasciava crescere i suoi protagonisti. Mi spiego. Oggi per fare un programma si prende un format, lo si adatta, si lancia un personaggio e stop. Ma così il personaggio non cresce mai, resta sempre quello. E prima o poi sparisce».
Invece, nella Rai black and white…
«Quando ho cominciato io c’era un direttore che vedeva tutto quello che facevo, ma proprio tutto, prove comprese. E mi diceva, di tutto, cosa gli piaceva e cosa no. Oggi invece è la tivù dei famosetti».
Famosetti?
«Ma sì, quelli che diventano un po’ famosi e si fermano lì. Anche perché hanno l’agente che vuole fare soldi, quindi non c’è mai tempo per prendersi una pausa e studiare. E poi non saprebbero nemmeno dove farlo. Tutte queste ragazze mi chiedono: come faccio a fare la sua carriera? Io: studiate. E loro: ma dove?»
Appunto: dove?
«Senta, è una vita che ripeto a ogni presidente della Rai che deve mettere su una scuola di televisione».
Invece, in cosa la tivù di oggi è meglio di quella di ieri?
«Nelle inchieste. Magari non sono così accurate come quelle che faceva Zavoli. Però c’è la Gabanelli, c’è Striscia. Loro denunciano e io, da cittadina-telespettatrice, mi chiedo: come mai nessuno fa niente?»
Lei è uno dei pochi personaggi diventati storici in vita. Che effetto le fa?
«Nessuno. Non ci penso. Io guardo avanti, non indietro. E poi la nostra sarà anche storia, ma è storia minore. Pensi che nel ‘78 facevo Ma che sera, rimasta famosa per la canzone Tanti auguri. Ricorda? “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù”. Il programma era registrato. Rapirono Moro, io, sconvolta, chiesi di sospendere la messa in onda. Il dirigente Rai mi rispose che serviva ad alleggerire l’atmosfera».
Definisca in breve qualche collega. Mike Bongiorno?
«La televisione».
Pippo Baudo?
«L’organizzazione».
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- 2 Novembre 1999
Enrico Mentana, direttore del Tg5, ex craxiano, definito da tanti, chissà perché, giovane rampante del giornalismo italiano. Sapevo delle sue ottime frequentazioni con i membri dell’Old Boys Net teorizzato da Alberto Ronchey. E se avesse negato l’esistenza dell’Old Boys Net, gli avrei chiesto del Club di Berlino. Quando gli ho telefonato per chiedergli l’intervista ha risposto: no. Dovevo aspettarmelo. Un lungo, tenace e meticoloso lavoro ai fianchi durato settimane. Poi ha ceduto.
Enrico, perché non volevi accettare questa intervista?
Questa è una serie fortunata e interessante…
Inizio prudente. Grazie, comunque anche a nome del direttore.
Leggendo le interviste mi sono detto: “Non vorrei essere al posto degli intervistati”.
E perché mai?
Mi è sembrato un grande atto di pavoneggiamento collettivo. Eccoci qua. Ecco quelli che hanno occupato la cabina di regia.
Tutto questo era nato…
Era nato da Ronchey. Ma sarebbe nato se da bambino Giuliano Ferrara non fosse stato sulle ginocchia di Alberto Ronchey, corrispondente da Mosca, amico di suo padre? Se le vite di Ronchey e di Paolo Mieli non si fossero intrecciate nella fortuna editoriale di entrambi, prima alla Stampa e poi al Gruppo Rizzoli?
Ronchey parla di una piccola lobby che si autoprotegge: Galli Della Loggia, Rinaldi, Briglia, Sabbatucci, Liguori, Ferrara, Mieli.
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- 6 Agosto 1999
Silvia aveva 14 anni e faceva la quarta ginnasio al liceo D’Azeglio di Torino. Suo padre era un famoso giornalista, Alberto Ronchey, direttore della “Stampa”, odiato dagli studenti di sinistra, i “sessantottini”. “Sarebbe meglio che tu ammettessi che tuo padre è uno stronzo e un fascista”, sibilavano i contestatori all’orecchio della ginnasiale.
Questo è il primo ricordo che Silvia Ronchey, docente di storia bizantina all’università di Siena, ha dei “sessantottini”, quelli che oggi hanno cinquant’anni e appartengono alla generazione che “non sa invecchiare”. Quelli che oggi, secondo Alberto Ronchey, appartengono all’“old boys net”, manager dell’informazione, dell’industria, della finanza che si sono installati ai vertici del potere.
Allora Silvia, tuo padre era uno stronzo e un fascista?
Fascista proprio no. Ma volevano che lo dicessi per cooptarmi.
Chi?
Quelli che stavano facendo l’università e venivano a parlare alle assemblee, quelli più grandi, quelli della Fgci, quelli di Lotta Continua.
Perché stronzo o fascista?
Erano due aggettivi che si equivalevano. A scuola, al collettivo, in pizzeria, chi diceva qualcosa che usciva dal coro era stronzo o fascista.
Che rapporto avevi con tuo padre?
Pessimo. Come tutti i giovani ero in conflitto con lui.
E allora perché non hai detto che era stronzo e fascista?
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- 26 Novembre 1997
“Falcone era un credulone. Io glielo dissi. Tu credi troppo alla gente e poi ti pugnalano alle spalle. Se avesse dato retta ai miei informatori e al mio istinto…” Antonino Caponnetto, creatore del famosissimo pool dell’ufficio istruzione di Palermo, padre professionale e spirituale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, si trascina dentro un senso di colpa.
“Quel telegramma…se non lo avessi stracciato, se non lo avessi buttato nel cestino. E’ una pagina che pochi conoscono: io non riesco ancora a darmi pace di aver dato retta a Giovanni”.
Per capire il senso di colpa di Caponnetto bisogna risalire all’anno in cui chiese al Csm di trasferirsi a Firenze. Il lavoro del pool aveva già dato grandi risultati nella lotta contro la mafia. Falcone era pronto a sostituire Caponnetto. Ma a Caponnetto arrivarono delle informazioni dal Csm.
“Mi dissero che Falcone non sarebbe passato. Gelosie, interessi di bottega. Allora lo chiamai e glielo dissi. Insieme scrivemmo un telegramma al Csm per revocare la mia richiesta di trasferimento. Era sera tardi e decidemmo di spedirlo la mattina dopo. La mattina dopo Giovanni arrivò nel mio ufficio come una furia. Strappa quel telegramma, mi disse, mi assicurano che il voto sarà favorevole. Cercai di farlo ragionare. Ci sono dei Giuda che ti colpiranno alle spalle. Lui era scaltro nelle indagini ma terribilmente ingenuo nei rapporti umani. Alla fine purtroppo strappammo il telegramma. Come avevo previsto, al Csm i Giuda lo trafissero. Fu nominato Antonino Meli. In pochi giorni distrusse il pool, emarginò Falcone, vanificò tutto il nostro lavoro”.
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- 1 Gennaio 1992
Quaranta libri scritti, otto milioni di copie vendute, quattro nipotini, quattro by-pass, settantadue anni. Enzo Biagi, continua a produrre, a lavorare, a scrivere. “Mi diverto”, dice. “E l’incredibile è che mi pagano per farlo”. Esce il suo nuovo libro, “Un anno, una vita”, diario di un anno di vita, la storia che si mischia alla cronaca, la cronaca che si mischia alla vita privata, autobiografia pubblica di dodici mesi di avvenimenti e di sentimenti. E di ricordi.
Biagi, è la prima volta che scrivi un diario?
Ci avevo già provato altre volte. Stavolta ci sono riuscito.
I diari li scrivono i giovani e i vecchi. Ti senti vecchio?
No. Tutto è avvenuto così in fretta che non mi sono accorto di invecchiare.
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- 1 Gennaio 1980
Si è rifiutato di fare lo specchietto per le allodole ed ha scatenato un putiferio. La radio potrà fare a meno di Renzo Arbore? Secondo Enzo Siciliano, presidente della Rai, no. E ce la sta mettendo tutta per farlo tornare sulla sua decisione di mollare l’incarico di direttore artistico della rete radiofonica nazionale. L’ultimo tentativo l’ha fatto prima di prendere l’aereo per Torino, con una telefonata strappacore.
Renzo, sei tornato sulle tue decisioni?
No. La decisione è definitiva. Siciliano molto affettuosamente ha ricordato la nostra amicizia, ma ha ammesso che io sono stato corretto. Il mio rammarico è di fare un piccolo torto a lui.
Insomma, non ha detto: “Arbore chi?”
Siciliano è gentile ed educato. E’ stato uno dei primi intellettuali ad apprezzare il mio lavoro. Non è piaggeria se dico che in fondo parliamo fra artisti. Io artista giullare, lui artista letterato. C’è una consonanza che risale ad antica e ammirazione, quando ci frequentavamo con godimento reciproco.
Siciliano ha usato armi “scorrette”?
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Vivere blindati. L’immagine è suggestiva. Vivere sempre circondati da uomini armati che ti accompagnano dovunque. Che ti spiegano che cosa puoi e che cosa non puoi fare. Vivere obbedendo a severissime norme di sicurezza che spesso ti mettono in imbarazzo con l’opinione pubblica, con gli amici, con i colleghi.
Gian Carlo Caselli, procuratore della Repubblica di Palermo, vive blindato da 22 anni. Prima perchè si occupava di terrorismo, adesso perchè si occupa di mafia. “Il problema della scorta è che bisogna doverosamente appiattirsi sulle richieste dei ragazzi, bisogna assolutamente obbedire. Non è in gioco solo la nostra vita, mia e dei miei famigliari. E’ in gioco la vita anche degli agenti. E sono loro che comandano e che decidono. A questi ragazzi io devo la massima gratitudine”. E’ sotto la presenza, discreta ed invisibile, dei ragazzi della scorta, che avviene questa chiacchierata, sull’emergenza, sulla mafia, sul terrorismo, con uno dei giudici più famosi d’Italia.
Girare sempre con la scorta può creare qualche problema…
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Non è un prete accomodante. Quando prende la parola non fa sconti a nessuno. Don Luigi Ciotti, 50 anni, fondatore del gruppo Abele, comunità di recupero di tossicodipendenti, della Lila, lega per la lotta all’Aids, di Libera, associazione per contrastare le mafie italiane, è un vero duro. Il suo ultimo grande successo è la legge per la confisca dei beni mafiosi e il loro uso a fini sociali. La sua ultima provocazione è la proposta per stimolare la “dissociazione” tra la manovalanza della criminalità organizzata. Come risulutato ha la polizia 24 ore su 24 sotto il suo portone e tre uomini di scorta che lo seguono dovunque.
Don Luigi, la sua proposta non ha avuto un grande successo…
“E’ una proposta scomoda. Molti hanno criticato senza nemmeno leggerla. Alcuni hanno commentato: ma che vogliono questi qui da Torino? Lo sa quale è stato il primo consiglio comunale sciolto per mafia? Bardonecchia, Piemonte.”
E allora chiariamo. Lei vuole aiutare i mafiosi?
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Con l’Ulivo come gli dice la passione politica oppure con Berlusconi come gli dice la professione? “Né con il Polo né con l’Ulivo”, chiarisce Maurizio Costanzo. “Ho votato Ulivo, lo sanno tutti. Ma lavoro da anni con Berlusconi in assoluta libertà. Quando Berlusconi disse: “Se fossi a Roma voterei Fini”, io non ci misi un secondo a dichiarare: “Io a Roma ci sono e voto Rutelli”. E non successe nulla, neppure una piccola lamentela”. E’ passato un anno da quando ha votato Ulivo. E’ sempre così convinto?
“Debbo essere sincero. Così come sono riuscito a ritagliarmi la mia libertà, debbo dire che vivo nei confronti dell’Ulivo varie delusioni. E’ vero che hanno trovato una situazione difficile, ma è sempre così, per tutti. Lamentarsi non serve a niente. Bisogna fare”.
Chi ha fatto e chi non ha fatto?
“Bersani e Bassanini han fatto bene”.
E chi ha fatto male?
“Andreatta. Nei giorni di Pasqua a Brindisi non c’era lo straccio di un ministro. C’era solo Berlusconi. Andreatta era a Genova per una mostra. Io sono lieto che Andreatta abbia interesse per la cultura. Ma era nel posto sbagliato, quel giorno”.
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E’ la fine dei misteri del caso Moro? “Io vorrei, ma non è così. Dietro le Brigate Rosse restano ancora molte ombre. Cinque processi non sono bastati a dissolverle”.
Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse insieme a Renato Curcio, non ci sta a chiudere la storia degli anni di piombo senza aver completato l’operazione trasparenza. Mentre tutti, dai politici ai terroristi, sembra abbiano una voglia matta di archiviare, lui continua a porre domande. L’occasione gliela dà la conclusione del quinto processo Moro: Maccari è stato condannato all’ergastolo dopo aver confessato di essere il famoso ing. Altobelli, “quarto uomo” della prigione di via Montalcini dove insieme a Mario Moretti, Anna Laura Braghetti e Prospero Gallinari ha sequestrato, interrogato, condannato e infine ucciso il presidente della Dc Aldo Moro.
Allora Franceschini che cosa c’è che non la convince ancora?
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