- 13 Agosto 2003
Per qualche mese è stato il simbolo, diffuso quotidianamente per televisione, dell’Italia dalle mille corruzioni. Sergio Cusani era l’uomo che distribuiva miliardi ai politici per conto di Raul Gardini. Per Antonio Di Pietro era il grimaldello per processare tutta la classe politica italiana. Alla fine Cusani fu il solo a finire in galera. Oggi, a 51 anni, affidato ai servizi sociali, è libero purché torni a casa tutte le sere alle dieci. La sua nuova occupazione è la solidarietà, soprattutto assistere chi è in carcere. Un cambiamento radicale, di interessi e di immagine. Ieri le riunioni di lavoro con Raul Gardini per decidere a quali partiti dare le mazzette. Oggi i dibattiti con Giancarlo Caselli e i convegni con Gherardo Colombo. Di tutte le persone che abbiamo intervistato per questa inchiesta sulla “generazione che non sa invecchiare” è quello che più di tutti ha virato. Con lui parlo del ’68, che lo vedeva a capo del Movimento Studentesco alla Bocconi, della corruzione politica, del carcere. E del futuro.
Hai più sentito Craxi?
No.
Ti manca?
Abbiamo preso strade diverse.
Uno in galera e l’altro no.
In una cella Craxi sarebbe crepato in poco tempo. Ha fatto una scelta di autoconservazione.
Lui dice un’altra cosa. Dice che non vuole essere l’unico a pagare. Dice di essere un esule. Eccetera eccetera. Non dice: io sono qui perché ho il diabete.
Tu mi hai chiesto della galera e io ti dico che non me lo immagino in galera perché è un uomo che soffre di claustrofobia. Non riesco a vederlo chiuso in una cella di due metri per tre, come è successo a me. Non ce la farebbe. Sul fatto che non vuole essere l’unico a pagare, è un discorso con una sua logica.
Un discorso che tu non hai fatto.
Io ho cercato il riscatto.
Potresti aver fatto la scelta del carcere per non voler ammettere che parte del mazzettone Enimont è finito in tasca tua.
Ho consegnato io stesso tutta la documentazione bancaria al tribunale. Risulta chiarissimo che nelle mie tasche non è rimasto nulla dei 148 miliardi della provvista. E ho avuto la soddisfazione che la pubblica accusa in Cassazione ha chiesto la mia assoluzione dal reato di appropriazione indebita.
Insomma a te il carcere ha fatto bene.
Il carcere mi ha aiutato. Ma io sono un privilegiato, vengo da una famiglia ricca. Ho strumenti culturali. Una rete affettiva straordinaria. Il bambino che ho adottato mi è venuto sempre a trovare in carcere e giocavamo. “La vita è bella” di Benigni io l’ho vissuta in carcere con mio figlio. Lui il carcere l’ha visto come un gioco, un’avventura. Mi diceva sempre: “Perché non mi fai rimanere qui con te?” Quando rispondeva al telefono diceva: “Il papà è in carcere. Vuole la mamma?”.
Ricco, colto, amato.
Ho avuto strumenti e occasioni per elaborare i miei sensi di colpa. E cercare una strada positiva per il riscatto.
Gli altri invece?
Gli altri rimangono a marcire sopra una branda. Il carcere non fa niente per aiutare un essere umano a ripensare la propria storia. Quando esce ha una tale rabbia che riproduce il crimine e, sette volte su dieci, torna in carcere. Il discorso del recupero è una vera, grandiosa, mostruosa ipocrisia.
Tu invece esci e vai a fare i convegni con Caselli e con Colombo.
Io ho recuperato. Mi sento molto giovane anche se sono vecchio.
E’ vero che questa generazione di cinquantenni
non vuole invecchiare?
E’ una generazione pronta al mutamento, a mettersi in gioco, a guardare oltre l’ostacolo, a trasgredire. Che ha il coraggio di affacciarsi verso l’ignoto.
E le generazioni che vengono dopo?
Mamma mia, è durissima. Devono trovare un senso collettivo. Se cadono nel proprio buco esistenziale non ne escono più. E’ un gorgo.
Che tipo di cinquantenne sei?
Mi avvicino statisticamente alla fine del ciclo biologico. Ma mi sento dentro una grande energia.
Una volta un cinquantenne era un vecchio che si preparava alla morte.
La vita media per l’uomo è 79 anni: ho ancora 28 anni da vivere. Dopo questa drammatica parentesi sono pronto a riprendere in mano la mia vita.
Una vita cominciata, dal punto di vista sociale, col ’68, la contestazione, l’università.
Il ‘68 l’ho vissuto alla Bocconi che era un po’ il college dei rampolli della ricca borghesia milanese, dei Quintavalle, degli Olivetti.
Ambiente conservatore.
Marx alla Bocconi non veniva nemmeno nominato. Solo Pareto. La contestazione fu per molti una illuminazione. Si cominciò a discutere di tutto, di distribuzione del reddito, di capitalismo, di sottosviluppo.
Alla Bocconi la contestazione arrivò in ritardo rispetto alla Statale.
Ma quando la Bocconi fu coinvolta divenne il centro dell’elaborazione teorica, delle discussioni sui processi economici.
Assemblee, cortei, manifestazioni. Che cosa ricordi?
Tanto studio. Per contestare i professori di fronte agli studenti dovevamo prima studiare le teorie classiche e poi Marx. Insomma studiavamo come matti.
Rettore era il potentissimo Giordano Dell’Amore. Vi dava abbastanza spazio.
Era uomo navigato e potente. L’accordo era: se non fate come alla Statale dove spaccano tutto, io vi lascio fare.
E funzionò?
Funzionò fino al 23 gennaio del 1973 quando per la prima volta ci fece trovare l’università chiusa e la polizia fuori. Ci fu la famosa carica dove rimase ucciso, con un colpo alla nuca, Roberto Franceschi. Dopo due giorni andammo nell’aula dove Dell’Amore insegnava tecnica bancaria e lo cacciammo dall’Università.
Pentito?
Roberto era un giovane del mio collettivo, era un mio amico, veniva spesso a mangiare a casa mia. Era l’enfant prodige del Movimento, studiava moltissimo, aveva la stoffa del leader. Quella sera era al mio fianco, sentii il fischio della pallottola he lo uccise. Come potrei essere pentito?
Ti chiamavano Barone Rosso.
Perché una volta scappai dalla questura. E per le mie origini nobili.
Sei un aristocratico?
Mio padre era un aristocratico, un industriale. Nel 1973, di fronte al mio rifiuto di seguire la sua strada, aveva venduto le sue indutrie. I miei genitori non li volli nemmeno al mio matrimonio.
Meravigliosi quegli anni, come ha detto Mario Capanna.
Poi venne il riflusso. I gruppi si sciolsero. Ci fu chi scelse di entrare nella lotta armata. Non quelli del Movimento Studentesco, che erano contrarissimi. Le Br – bisogna dirlo – godevano di molta simpatia nelle fabbriche. E anche all’interno del Pci. Ma nessuno del Movimento Studentesco è finito nella lotta armata.
E dove allora?
Mille rivoli: Pci, Pdup, Manifesto, Psi. Molti finirono nel privato.
Tu finisti nel Psi.
No. Io finii in Borsa.
Singolare.
Ero amico di Piero Ravelli, che aveva fondato un movimento maoista. Suo padre, Aldo Ravelli, era il più grande commissionario di Borsa d’Italia. Disse a me e a Piero: venite a lavorare da me.
Buffo vedere un contestatore entrare in Borsa.
Avevo rotto con la mia famiglia. Ravelli era molto legato al Pci, all’avvocato Gianfranco Maris, senatore comunista, e a Lelio Basso. Erano stati assieme in campo di concentramento. Lui era socialista e legato ai socialisti. Era amico di Craxi. Era ricchissimo e finanziava socialisti e comunisti.
Trovasti un altro padre.
Ravelli era uomo di grande personalità. Mi disse: “Domattina presentati con un vestito decente”. Io andai alla Rinascente e mi comprai un vestito decente. Il giorno dopo andai in Borsa, una gabbia di matti. Andai da Ravelli e dissi: “Non ce la faccio”. E lui mi disse “Tieni duro”. La vissi come una sfida.
Dovevi dimostrare qualcosa a tuo padre.
Si: che per guadagnare dei soldi non era indispensabile essere dei geni. Mio padre era cliente di Ravelli. Capitò che io dovessi amministrare un piccolo capitale di mio padre. Erano 80 milioni. Lo persi nel giro di un mese e mezzo. Aldo Ravelli mi disse: “Perdendo i soldi di tuo padre hai imparato più di quello che avresti potuto imparare in dieci anni di Borsa”. Si, ma intanto avevo perso i soldi di mio padre e ci ero rimasto malissimo.
Racconta.
La mattina andavo a prendere Ravelli a casa. Lavoravo moltissimo perché volevo imparare rapidamente. Il secondo anno che stavo con Ravelli, d’agosto, lui era a Cortina, mi trovai in Borsa, al banchetto, da solo, durante la scalata di Rovelli alla Montegemina, una guerra pazzesca fra Rovelli, Cefis, Girotti per la conquista della Montedison. Un macello, ma me la cavai. Stranezze della vita. Ho iniziato con la Montedison e ho finito con la Montedison.
Molti leader del ‘68 sono arrivati come te in posti di grande potere. L’ideologia non ha importanza?
Ha ragione Claudio Rinaldi. Il ’68 è stata una grandissima scuola. Ci voleva molto allenamento per affrontare platee preparate che alla prima sciocchezza ti sommergevano di fischi. Bisognava avere una posizione strategica. Guardare molto in avanti. Fare proiezioni e disegnare scenari. Una grande ginnastica mentale. Abbiamo imparato più dalle assemblee che dai corsi universitari.
C’è chi ha preso strade diverse rispetto alla conquista del potere.
C’erano gli intellettuali e gli organizzatori. I responsabili dell’elaborazione sono rimasti nel loro alveo di studio. A quelli che organizzavano è venuto spontaneo fare una scelta dirigenziale.
Che cosa è la coerenza?
Io non sono stato una persona coerente.
Vederti col megafono per le vie di Milano e poi a lavorare per Gardini…
No, non per quello. Io condividevo il suo grande progetto per la chimica mondiale.
Però se tu alla Statale avessi preso il megafono e avessi detto: “Io da grande voglio fare la grande chimica mondiale con Gardini”, sai che fischi?
La situazione era cambiata. I movimenti non c’erano più, le manifestazioni nemmeno.
E allora dove mancasti di coerenza?
Ho trascurato tutti gli ideali forti che avevo. Ho recuperato la mia coerenza solo quando mi sono rifiutato di assecondare il metodo mercantile di alcuni magistrati della Procura di Milano. Se mi dai qualcosa, ti do qualcosa. Ho messo in campo i miei principi. E non ho derogato.
Quali principi?
Uno soprattutto: chi è responsabile si deve assumere le responsabilità fino in fondo.
Che cosa c’è di coerente nella scelta di non collaborare con la giustizia?
Col pm Greco che comprendeva molto bene i meccanismi della struttura fondante del sistema finanziario, ero molto disponibile e chiarivo i rapporti con le società off shore. Con il pm Di Pietro no. Voleva solo i nomi.
Una curiosità legittima.
Interessavano i nomi purché si rimanesse in superficie. A lui di andare a fondo non gliene fregava niente. Secondo me non aveva nemmeno gli strumenti per capire. Il fine di Di Pietro era quello di fornire ogni giorno carne fresca ai mass media per tenere alta la pressione.
Risultato?
Mani Pulite ha causato la scrematura della parte più sconcia della corruzione ma non ha toccato i gangli veri della corruzione.
Mentre Greco…
Io ho avuto l’impressione che Greco sia stato messo in disparte perché voleva capire veramente. Il giudice Ghitti mi disse: “Greco spreca molto tempo senza portare risultati”.
Era vero?
Greco avrebbe portato il vero risultato: svelare fino in fondo l’intreccio enorme, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. Dietro la lotta per la chimica c’erano forze enormi, dietro la Montedison c’era Dow Chemical, dietro l’Eni l’Union Carbide, i grandi gruppi americani che si facevano la guerra, la massoneria.
Tu dici: sono colpevole e pago, ma non chiedetemi di più. Ti pare logico?
Tieni presente che io conoscevo solo una fettina del problema. Chi aveva una visione globale al 100 per cento delle problematiche estere, dei flussi finanziari, era Gardini. Volevano sapere da me cose che non potevo conoscere.
Craxi uscì alla grande dal processo. Di Pietro aveva fatto piangere tutti e quando arrivò Craxi, tra la sorpresa generale, andò via liscio.
Io penso che Di Pietro abbia avuto sempre un po’ paura di Craxi. E che avesse la coda di paglia.
Perché Di Pietro si è dimesso?
Aveva capito che su di lui stavano arrivando le nubi e gli conveniva capitalizzare il suo risultato. Era diventato l’uomo più famoso di Italia. Aveva un grande amico al Csm, il dottor Ghitti, in grado di avvertirlo che stava arrivando qualcosa che avrebbe intaccato la sua figura di magistrato.
Quando tu dici: “Io le colpe le ho”, che cosa intendi dire? Quali colpe hai?
Ho condiviso un sistema che non era coerente col mio passato. Quando Gardini mi disse: “Dammi una mano per chiudere questa vicenda”, io mi assunsi delle responsabilità. Gardini diceva a me delle cose che non diceva nemmeno in famiglia. Dei movimenti di danaro fatti da Gardini non sapevano nulla né Sama né Garofano. Gardini mi diceva continuamente di non parlarne con loro perché voleva tenere nel suo pugno la situazione. Gardini era un leader, un capo, un autocrate. Io lo chiamavo “il faraone”.
Come funzionava il meccanismo?
Gardini finanziava il mondo politico e si serviva anche di me. Diceva: “Bisogna dargli la paghetta. Ma non tutto in una volta. Piano piano. Tenerli sotto pressione”.
Perché dava la paghetta?
Me lo disse chiaramente: “I politici si sono presi già la loro parte con la mia uscita da Enimont, che è la greppia”.
Greppia in che senso?
Nel senso della greppia. Enimont si è dimostrata una grande greppia: lo scandalo della pipeline d’oro, per portare il petrolio a Marghera, lo scandalo dell’impianto di Brindisi che doveva costare 400 miliardi e ne costò 1200.
Ma la paghetta?
Diceva Gardini: “Ora hanno la greppia ma il sistema va pagato ancora perché devo difendere 30 mila miliardi di fatturato nel settore agroalimentare, l’Eridania”. Avere il sistema politico contro in una trattativa al ministero dell’Agricoltura sullo zucchero significava far fallire l’Eridania. Ecco perché dava la paghetta.
A te sono rimasti dei soldi.
23 miliardi, il resto della provvista che non avevo distribuito. E li ho restituiti.
E adesso come vivi?
Con lo stipendio dell’associazione Liberi, quella che si occupa del carcere. E con l’aiuto di mia madre e dei miei fratelli.
Che cosa fai adesso?
Vorrei finalmente riprendere ad occuparmi di finanza. Sto lavorando al progetto della “Banca della solidarietà”, la prima banca al mondo che si occupa di transazioni finanziarie senza farsi pagare. Chiede solo, al posto delle commissioni, il finanziamento di progetti di solidarietà, di sviluppo produttivo o culturale.
I politici sono cambiati?
La corruzione non finirà mai. E’ un elemento fisiologico della società occidentale.
Quando distribuivi i soldi, ti sentivi un corruttore?
No. Era una consuetudine. Assolutamente illegittima, ma non ne coglievo l’illegalità. Se potessi ritornare indietro, e Raul Gardini mi chiedesse di dargli una mano, gliela darei ancora. Ma prima gli direi: “Sei pazzo? Ma chi te lo fa fare? Ma lasciali perdere. Molla tutto e tanti saluti. Non dare una lira e vivi”. Capisci dove voglio arrivare? Si è ammazzato.
Perché si è ammazzato?
Per assumere su di sé l’onta e per tenere fuori la sua famiglia. Per i figli. Soprattutto per sua figlia Eleonora. Per evitare che finisse nel fango.
Tu consegnavi paghette ma non ne percepivi l’illegalità. Ha ragione chi dice che la tua generazione è cinica, senza valori morali?
No, no. Era il sistema che funzionava così. E io, in quanto professionista inserito in questo sistema, questo dovevo fare. Allora le cose andavano così. E forse continuano ad andare così.
Riconosci gli stessi sintomi?
Dietro una delle più grandi operazioni finanziarie che sono state fatte quest’anno ho ritrovato nomi che già allora erano coinvolti dell’inchiesta Enimont. E ho sorriso.
Quale operazione?
Una delle più grandi.
Ce ne sono parecchie.
La più grande.
Telecom?
In filigrana ho visto la presenza di gruppi che già erano presenti allora.
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