- 16 Febbraio 2000
C’è un plotone che va in guerra e non fa la guerra. Ha i suoi eroi, le sue vittime, le sue canaglie. Sono i reporter di guerra, professione inventata da William Russel che nel 1854 fu inviato dal Times, l’autorevole quotidiano di Londra, alla guerra di Crimea. Scriveva con la penna d’oca. Oggi, l’ultimo inviato di guerra sta scrivendo da qualche sperduta area africana e manda i suoi pezzi con un modernissimo telefono satellitare. Ci sono migliaia di reporter di guerra. Solo quelli italiani impegnati nell’ex jugoslavia erano ottanta. Per la guerra del Golfo si era arrivati a quota 150. Alcune di queste guerre hanno anche fatto molti morti fra la truppa dell’informazione. 64 morti in Vietnam, 48 a Beirut, 86 nella ex Jugoslavia. "I reporter di guerra sono dei figurini che mangiano a sbafo le razioni dei soldati", diceva sir Carnet Wolseley nel 1869 per protestare contro l’intrusione dei giornalisti in quella che doveva essere solo una questione fra militari. Oggi non è più così. Oggi la stampa è ammessa al fronte, ma non sempre la verità trionfa. "La prima vittima della guerra è la verità", diceva Arthur Ponsonby in "Menzogne in tempo di guerra". Ne parlo con Mimmo Cándito, inviato della Stampa, docente di linguaggio giornalistico all’Università di Torino, uno che di guerre ne ha fatte proprio tante. E che qualche mese fa ha raccolto le sue esperienze, di università e di guerra, nel libro "Professione: reporter di guerra, storia di un giornalismo difficile, da Hemingway a Internet" (Neri Pozza).
William Russel era il primo reporter di guerra. Ed era considerato un intruso. Ma prima chi faceva la cronaca delle guerre?
Gli ufficiali. E raccontavano cose eroiche, retoriche, mitiche. E dicevano: come siamo bravi. Non raccontavano che la gente moriva, che gli ufficiali erano incompetenti, che c’era corruzione, che si mandavano i soldati a morire come carne da macello. Quando arrivò William Russel, mandato dal Times, cominciò a scrivere tutto. E ruppe la verità codificata.
Di tempo da allora ne è passato. Oggi i reporter di guerra sono più o meno liberi di scrivere la verità?
Oggi il reporter di guerra è più o meno libero di una volta?
Certamente meno libero di una volta. La strumentazione elettronica che hanno in mano dovrebbe consentire loro una possibilità di intervento come mai nessun giornalista nella storia. In realtà le strutture che ci sono stanno abituando il giornalista ad essere pigro, a subire l’informazione preparata.
Che cosa è l’informazione preparata?
Un sistema per ovviare al fatto che la censura non è più possibile perché l’elettronica ti consente di fare quello che vuoi. Oggi c’è il news management. Cioè: i militari ti forniscono 150 brochures e ti dicono tutto di tutto. E allora tu che sei un giornalista pigro, passi quello che ti danno loro. E lo fai passare come verità, non lo vai a verificare. Ecco, questo è il controllo indiretto dell’informazione senza usare la censura. E spesso non sono nemmeno i militari direttamente a fare questo. Le grandi operazioni massmediologiche di guerra sono state recentemente condotte da grandissimi uffici pubblicitari americani.
Ci vuole però la complicità del giornalista pigro. E’ vero che ai giovani giornalisti nessuno insegna a non essere pigri, ma io ricordo anche che da sempre molti giornalisti di guerra sono stati criticati perché svolgevano il loro compito bevendo Martini sul bordo della piscina dell’Hilton locale.
Certo, certo. Le canaglie ci sono sempre state e io non le difendo. Ma uso il giornalista di guerra come strumento per affermare alcuni principi fondamentali del giornalismo, perché lì si realizzano al punto più alto: il rapporto con la fonte. E per ribadire un postulato: unica fonte nessuna fonte.
Sembra un libro pessimista.
E’ moderatamente speranzoso. Ma nella lettura del reale è certo pessimista. Ancora oggi io, uando vado in guerra, oltre a firmare un foglio di carta in cui mi chiedono dove va trasferito il mio cadavere in caso di morte, firmo anche una serie di misure dirette a imbrigliare la libertà del cronista. Non posso parlare con nessuno senza autorizzazione. Non possono nemmeno scrivere dove mi trovo.
Sono misure di sicurezza. Anche se mi riesce difficile pensare che il "nemico" legga il Corriere della Sera per sapere dove sono dislocate le truppe.
Oggi il generale Carlo Jean, che è il nostro rappresentante presso l’Organizzazione della Difesa Europea, dice che i giornalisti sono l’organo più importante della guerra.
I giornalisti sono pigri, i direttori non capiscono nulla di affari esteri, gli editori lamentano spese enormi?
Una volta non era così. Diventavano direttori i grandi corrispondenti dall’estero, i grandi inviati. Adesso diventano direttori quelli nati all’interno del Palazzo. I politici. Ezio Mauro, Marcello Sorgi, Paolo Mieli, Enrico Mentana, Ferruccio De Bortoli, Paolo Graldi, Pietro Calabrese, Paolo Liguori. Il direttore è un gestore di risorse e non più giornalista. E’ un amministratore.
E i costi?
I costi sono paraventi, scuse. Puoi realmente pensare che nel bilancio di un giornale incida un inviato a Sarajevo? Sempre più prende piede il principio che la velocizzazione dell’informazione è più importante della qualità dell’informazione. Tutto subito, che sia vero o verosimile. Paolo Mieli, quando era direttore, fece un’ordine di servizio nel quale diceva: quando venite in possesso di una informazione, datela, anche se non potete verificarla, il giorno dopo si vedrà. Questa è la negazione del lavoro del giornalista.
Chi è, a tuo giudizio, il più grande fra voi?
Egisto Corradi viene considerato il maestro di tutti noi. Era uno che diceva: "Vedere è essenziale. Per vedere bisogna scarpinare".
Anche Ettore Mo dice: "O vedo o me ne vado".
Ha ragione. Bisogna combattere in tutte le maniere l’informazione omologata, quella di quei direttori che aspettano il telegiornale per stabilire che cosa mettere in prima pagina.
In guerra hai mai avuto paura vera?
Certamente. Come tutti. Quando ti scoppia un obice accanto e fai un volo di 15 metri, come mi è successo una volta a Beirut, non puoi fare tanto il coraggioso. Poi però alla paura ti abitui.
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