- 14 Agosto 2001
"Primo ministro esentasse offresi", "D’ora in poi i reati li decide Berlusconi", "Scajola ministro incompetente e pericoloso". Da quando è tornata in edicola, l’Unità è un giornale violento, aggressivo, spara titoli che sembrano quelli del manifesto e pubblica editoriali al vetriolo. È l’effetto della politica della contrapposizione? O la ricerca di una fetta precisa di mercato? La destra dice che sono i soliti comunisti, che l’Unità è un giornale gruppettaro. Niente di tutto ciò. È la scuola americana. Dice Furio Colombo, direttore insieme ad Antonio Padellaro della nuova versione del giornale: "Non è ideologia né politica. È la lezione dei diritti civili. Me l’ha insegnato Martin Luther King: i diritti civili o ci sono o non ci sono. E quando non ci sono, lo diciamo con forza". Furio Colombo è un signore gentile, educato, mite, prudente, pieno di buon senso, che parla flautato e sottovoce. Nella sua vita ha fatto l’alto dirigente della Fiat, dell’Olivetti, ha lavorato nella tv degli esordi, è stato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, ha scritto per il Mondo di Pannunzio, per l’Espresso, la Stampa, la Repubblica. Da sempre si è riconosciuto nell’aria "liberal". Oggi, sulla plancia di comando dell’Unità, viene considerato dagli avversari politici un pericoloso comunista. Dottor Jeckyll e mister Hide?
Furio Colombo, sei comunista?
"Mai stato".
Mai votato comunista?
"Ho votato socialista, repubblicano?".
E adesso?
"Ds naturalmente. Sono stato anche parlamentare con i Ds. Ma non sono nemmeno iscritto al partito".
Perché ce l’hanno con te?
"Avere partecipato al movimento dei diritti civili americani mi ha insegnato a essere intransigente. L’intransigenza deriva dal fatto che certe cose o ci sono o non ci sono. O sono chiare o sono scure".
La Destra dice che sei un pericoloso comunista.
"È brutto essere chiamato comunista solo perché ti schieri su posizioni che non vengono apprezzate".
Però demonizzi Berlusconi?
"Mi si è allargato il cuore quando ho visto che il New York Times, dopo un’inchiesta durata sei mesi, ha rivelato che Bush ha conquistato la Florida, e quindi gli Usa, grazie alla manomissione dei timbri postali. Nessuno si sogna di dire: "Hanno demonizzato Bush"".
Come ti è venuto in mente di accettare la direzione dell’"Unità"?
"Devo raccontarti di quando dirigevo l’Istituto Italiano di Cultura".
Fallo.
"Quando Berlusconi vinse le elezioni io mi dimisi".
Chi ti aveva nominato?
"De Michelis".
De Michelis quindi Craxi.
"La nomina era del ministro degli Esteri".
Perché colleghi questo episodio all’"Unità"?
"Perché è stato il mio primo atto politico".
Il secondo?
"La richiesta di Prodi e di Veltroni di candidarmi alle elezioni".
E "l’Unità"?
"Quando ha cessato le pubblicazioni Veltroni mi ha chiesto se l’avrei ripresa nel caso che fosse tornata a vivere come giornale di una cordata privata. Io dissi: "Volentieri. Ma non voglio riallacciarmi al passato, voglio dare voce a una voce che avrebbe dovuto esserci e non c’era".
Che regole vi siete dati tu e il condirettore Padellaro?
"Padellaro ha scritto Senza cuore. Io ho scritto Ultime notizie dal giornalismo. Due libri speculari che rappresentano il manifesto di una passione giornalistica non realizzata, perché cade corta rispetto a nuove mode, nuovi trend, nuove frivolezze".
Quindi?
"Quindi nessun cinismo. Nessun rapporto col Palazzo. Il retroscena non ci interessa".
Che cosa vi interessa?
"Decifrare e spiegare. Ogni titolo, ogni sottotitolo, ogni prima frase di articolo debbono essere scritti come se il lettore stesse sopra la tua spalla e lo leggesse. Lasciami dire una cosa".
Dilla.
"Ci hanno consegnato un giornale con un passato disastroso di macerie. Ma ci hanno lasciato dei giornalisti favolosi".
Siete veltroniani o dalemiani?
"Questa scelta il giornale non è preparato a farla. Noi vogliamo fare i giornalisti, rappresentare per i nostri lettori il dramma che si sta vivendo. Ma del dramma non vogliamo essere parte".
E personalmente?
"Sono amico di Veltroni. D’Alema l’ho conosciuto entrando in Parlamento. Ma non mi sono mai sognato di seguire l’una o l’altra corrente politica".
C’è qualche titolo che ti ha creato dei problemi?
"No, finora no. Ma proteste infinite".
Proteste infinite che vuol dire?
"Stai esagerando? in questo modo si dà ragione agli avversari politici. Un mugugno che viene da lontano, da questa cosiddetta area liberal? critiche campate in aria, di maniera?".
Quando parli di area liberal chi intendi? Macaluso, Petruccioli, Franco Debenedetti?
"Grosso modo. Petruccioli è un amico con cui ho discusso appassionatamente e furiosamente fino a pochi giorni fa. Franco Debenedetti è un grande amico. Ora però non capisco nulla di quello che lui dice sui giornali. A Torino abbiamo fatto campagna elettorale insieme, siamo stati legatissimi".
Tu sei torinese.
"Sono nato a Chatillon in Val d’Aosta, ma ho vissuto sempre a Torino. Una vita viva culturalmente e molto avvertita politicamente. L’unico schiaffo che ho avuto nella mia vita è stato quando sono tornato da scuola vestito da figlio della lupa. Mia madre ottenne di esonerarci dalle adunate fasciste del sabato pomeriggio".
Altri ricordi?
"Avevo sei anni quando è nato il cosiddetto Impero d’Abissinia. Ricordo gli altoparlanti in tutte le strade della città, si doveva scendere dal tram, ci si doveva fermare in capannelli ad ascoltare la voce di Mussolini che annunciava la presa di Addis Abeba. Ero un bambino abituato alla radio. La radio aveva una voce benevola e allegra: i tre moschettieri, i concerti Martini e Rossi, l’orchestra Angelini, "C’è una chiesetta, amor, nascosta in mezzo ai fior". Era una radio affettuosa. All’improvviso diventava fascista, dura, con quegli annunci politici paurosi".
Che cosa ricordi della scuola?
"Due maestre favolose e tre maestri stupidi, gelidi, privi di sentimenti".
Fascisti?
"Opportunisti che facevano i fascisti. Ho conosciuto anche maestri fascisti che erano delle splendide persone".
Il liceo?
"D’Azeglio, classico. Nacque subito la passione per un ambiente culturale molto intenso. Torino era l’Einaudi, era passare di fronte all’albergo Campo di Marte perché ci abitava Cesare Pavese".
Ricordi i compagni?
"Soprattutto Sanguineti. Era straordinario nel greco, nel latino, in matematica. Con Sanguineti abbiamo formato il primo gruppo, una specie di antecedente lontanissimo del "Gruppo ’63". Dopo la scuola ci ritrovavamo a casa mia per discutere un libro, una poesia. Cose oggi inimmaginabili. Passavamo pomeriggi a discutere di cultura".
E di politica?
"Eravamo molto politicizzati ma non era la politica che ci attraeva, era la letteratura e la poesia. Subito dopo ho incontrato Umberto Eco e Gianni Vattimo. Il gruppo si è allargato".
Siamo arrivati all’università.
"Per me legge. Per Sanguineti lettere. Per Umberto Eco e Vattimo filosofia. Punto di aggancio per tutti Norberto Bobbio. Fu Eco a introdurci a Joyce e, attraverso Joyce, all’avanguardia".
Politicamente che cosa vi univa?
"L’antifascismo. Non eravamo comunisti anche se frequentavamo tutti gli autori comunisti. Nessuno di noi è passato attraverso scuole di marxismo".
Quali erano i tuoi miti?
"Il cinema. Ricordo lo scatto di indignazione quando sentii Andreotti dire a proposito del cinema neo-realista italiano che "i panni sporchi si lavano in casa". Ci indignava, perché questa Italia capace di raccontare il suo dolore a noi appariva nuova".
Oltre all’università?
"Scrivevamo sul Verri di Luciano Anceschi. "Diario minimo", all’inizio, era una cosa a quattro mani, di Eco e mia. Proprio in quel periodo arrivò la televisione, ci chiesero di fare un provino, lo facemmo per divertimento. Io, Eco e Vattimo. Entrammo".
Vi piaceva?
"Per quanto fosse banale ciò che vedevamo sugli schermi, era rivoluzionario ciò che vedevamo dentro gli studi. E intanto scoprivamo il mondo dell’avanguardia attraverso interviste a Luciano Berio, Bruno Maderna, John Cage. In quel momento la musica era la forma più avanzata di sperimentazione del nuovo".
La televisione è stata una rivoluzione tradita?
"No. Il primo incarico che abbiamo avuto Umberto Eco ed io fu di trovare venti gatti randagi per una trasmissione di Mike Bongiorno".
Un lavoro impegnativo.
"Lo abbiamo fatto con grande divertimento ma ci rendevamo conto della banalità delle cose che andavano in onda. La televisione fu un’avventura allegra, però a un certo punto è nata la possibilità di fare il primo rotocalco televisivo italiano. Si chiamava Orizzonti. Lo facevamo a Torino. Avevo formato una redazione che includeva Norberto Bobbio, Carlo Casalegno, Gianni Vattimo, metà della stampa e dell’antifascismo torinese. Per un anno affrontammo di petto problemi che tutti evitavano. Poi incontrai Adriano Olivetti e mi chiese se volevo occuparmi di industria. Dissi di sì e andai per dieci anni all’Olivetti in una delle esperienze più belle della mia vita. Adriano Olivetti voleva che mi occupassi del personale ma mi disse subito: "Prima deve fare un po’ di mesi in fabbrica". Feci il fresatore, il tornitore, le presse, il montaggio".
Hai fatto l’operaio.
"Olivetti mi diceva: "Voglio che lei conosca il buio del lunedì". Il buio, il peso, la tristezza dell’operaio che arriva il lunedì mattina in fabbrica alle 6 e mezza. Incontrai Volponi, Fortini, Giudici, Ottieri. Quando Adriano Olivetti comprò la Underwood, una fabbrica di macchine da scrivere americana da 20 mila dipendenti, mi mandò negli Stati Uniti per occuparmi del personale".
Poi sei tornato di nuovo alla Rai.
"Con Fabiani e Bernabei, per fare il direttore dei programmi culturali. Esiste un solo film sui Beatles che non sia stato fatto dai Beatles. Lo feci io".
E scrivere?
"Ho sempre scritto. Prima al Mondo, poi all’Espresso, alla Stampa, alla Repubblica. Ma facevo sempre anche altro. Quando lavoravo per la Stampa a New York divenne abbastanza naturale che mi occupassi anche di relazioni esterne della Fiat, per poi diventarne amministratore delegato e poi presidente della Fiat Usa".
Eri l’uomo di Agnelli in America. Una posizione abbastanza antitetica rispetto ad oggi che dirigi il giornale che fu di Gramsci Dai proprietari ai proletari?.
"Io rappresentavo, in un Paese come gli Stati Uniti, una parte consistente, molto solida e molto ben fatta del lavoro italiano. Il mio lavoro era rappresentare un’Italia molto civile, perbene, che chiedeva e otteneva attenzione e rispetto".
Volevo dire che fra la Fiat e l’Unità ci corre?
"Io ho sempre continuato il mio percorso, disseminandolo di libri. Invece della violenza, nel 1966, Le condizioni del conflitto, nel 1969, per esempio, che anticipavano in qualche modo il tema dello Stato nascente e dei movimenti. Poi Il nuovo medioevo, con Umberto Eco, sulla chiusura a riccio dei grandi poteri e l’esclusione delle persone giovani, della parte debole del mondo".
Che giudizio dai dell’apertura di Agnelli a Berlusconi?
"Questo governo non aveva molte carte dal punto di vista internazionale, non avrebbe saputo come farsi accettare in Europa e nel mondo. Agnelli gli ha offerto una persona presentabile e di grande prestigio come Renato Ruggiero. Un gesto positivo nei confronti del Paese".
Quando sei stato nominato direttore dell’"Unità", hai parlato con Agnelli?
"Sì. Ci siamo sentiti".
Complimenti formali o consigli?
"Sulle conversazioni personali non avrei niente da dire. È stato cordiale".
Che cosa pensi dei voltagabbana?
"È un fenomeno curioso, inimmaginabile negli Stati Uniti dove chi volta la gabbana paga con l’esclusione della vita pubblica".
In Italia invece?
"Quelli che lo fanno e poi non si danno pace se non continuano a perseguitare gli ex compagni di strada, mi paiono un po’ ridicoli. Come i preti sposati che ce l’hanno sempre con la Chiesa. Ma la caccia ai voltagabbana non mi interessa".
C’è un limite a tutto. Ogni volta mi viene in mente Carrara, eletto in un partito antiberlusconiano e passato con Berlusconi cinque minuti dopo essere stato eletto.
"Sono storie modeste che lascerei alla loro modestia".
Sono storie che mettono in discussione il nostro sistema elettorale.
"Effettivamente c’è il rischio che gli elettori diventino scettici e cinici. E non votino più".
Anche Mastella che prende voti a destra e li porta a sinistra?
"Almeno questa volta è stato legittimamente votato per stare dove deve stare".
Ti viene in mente un voltagabbana?
"No, no, non mi sento di accanirmi su una persona piuttosto che su un’altra. Alcuni tra i grandi voltagabbana lo hanno fatto con talento, intelligenza, capacità di ricrearsi una nuova vita. Non è poi così sgradevole incontrarli".
A chi pensi?
"Non avrei voglia di chiamare voltagabbana Giuliano Ferrara".
Non farlo. Non è un voltagabbana.
"È un uomo che nella sua vita ha toccato molte stazioni, ha visto molte cose e le ha vissute con pienezza".
Una caratteristica fondamentale del voltagabbana è l’interesse.
"E in Ferrara non c’è. In tutte le stazioni in cui si è fermato Ferrara ha dato, non ha preso".
Alcuni citano come voltagabbana Dotti, Scognamiglio, Mastella, La Malfa, Guzzanti, Amato, Veltroni?
"Non è il mio genere fare i nomi. Ma coloro che passano il tempo a occuparsi del club in cui precedentemente hanno preso posto, mi provocano irritazione e poca simpatia. Mentre provo un profondo rispetto per uomini come Mirko Tremaglia che si sono evoluti come si è evoluta l’Italia".
Tu hai molti nemici?
"L’antifascismo non mi ha creato molti amici. Persone che mi consideravano un bravo ragazzo quando hanno sentito un paio dei miei interventi contro il ritorno dei Savoia hanno detto: "Ma che discorsi? ma perché? poveretti?". Io ricordo la firma del re in calce alle leggi razziali, più dure perfino di quelle tedesche. C’è una curiosa militanza a favore dei Savoia. Forza Italia la capisco. Ma An? E certe frange dell’Ulivo?".
Dicono: le colpe dei padri?
"La maleducazione e il vuoto morale di Vittorio Emanuele è spaventoso. Si ripresenti alle frontiere quando si sarà un po’ preparato in storia italiana e in buone man
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