- 11 Ottobre 2001
Armeggia con macchine fotografiche e obiettivi. Il suo compagno, Gerald Bruneau, è un famoso fotografo e lei impara il mestiere facendogli da assistente. Ogni tanto qualcuno la riconosce. Come Francesco Cossiga che, durante un servizio fotografico, le disse: «Ma lei è Adriana Faranda!». «Sapeva tutto di me», ricorda l’ex brigatista rossa. «La mia storia, la mia dissociazione. Fu cortese e signorile. Mi disse che aveva il desiderio di parlare con me di alcune cose. Ma non è più successo». Una domanda però ce l’ho io: ha ragione Lanfranco Pace quando ha rivelato a Sette che a sparare ad Aldo Moro fu Germano Maccari e non Mario Moretti? «Parlare di Maccari mi costa molto. Preferirei evitarlo».
Ma col giudice hai parlato dicendo che a sparare fu Germanao Maccari.
«Dissi quello che sapevo. E non posso che confermarlo. Ma non ce la faccio a scendere in particolari».
Perché tirate fuori a pezzetti la verità sull’omicidio di Aldo Moro?
«Finché l’organizzazione è attiva non si può chiedere a membri che ne hanno fatto parte di raccontare quello che è accaduto con nome e cognome dei protagonisti».
Poi però avete parlato. Tutti tranne Moretti, il più ambiguo di tutte le Br.
«Non è vero che è stato zitto. Ha scritto un libro».
Ma è stato zitto al processo.
«Ormai è tutto chiaro».
Potresti sbagliarti. Potrebbe esserci un livello superiore che tu ignoravi.
«Ho avuto anch’io il dubbio. Ma non ho nessun elemento. Quindi lo accantono».
Non puoi essere tu a decidere quello che è importante per la ricostruzione dei fatti. Proprio tu che sei stata arrestata nella casa di Giuliana Conforto, figlia di un agente del Kgb!
«È stato per caso che io sono andata a finire dalla figlia di uno che compare nel dossier Mitrokhin».
Resta il sospetto che Moretti fosse un infiltrato. Lo adombra Franceschini quando ricorda la sua cattura…
«Moretti fu messo sotto sorveglianza dopo la cattura di Curcio e Franceschini. Proprio perché era stato sospettato di essere un infiltrato. Ma l’inchiesta non dette alcun esito e le Br lo riaccettarono tra loro».
Però è vero che da allora le Br hanno alzato il tiro.
«Br buone e Br cattive? Non ci ho mai creduto. Non butto croci addosso a nessuno, però non mi dimentico i biglietti che ci mandavano i brigatisti in carcere invocando un omicidio al giorno. Nessuno da dentro ci disse mai: “Ragazzi state calmi”. Ci dicevano: “È tempo di azione, dovete tirarci fuori costi quel che costi”».
Erano loro i mandanti?
«Per noi rappresentavano un pezzo di cuore che era imprigionato. Io avevo grandissimi dubbi sul sequestro Moro. Li ho messi da parte pensando ai nostri compagni in prigione che spingevano all’azione».
Perché non avete ancora detto a casa di chi andava Moretti a Firenze, durante il sequestro Moro?
«Io di Firenze non so proprio nulla. Ma magari, alla fine, si scopre che c’era un compagno qualsiasi. Come Maccari. Come Gallinari. Magari era proprio Senzani, che ne sai? Magari era solo uno che aveva messo a disposizione la sua abitazione per queste riunioni… magari aveva un passato nella Resistenza… magari è una persona un po’ anziana…».
Non hai curiosità?
«Ho molta curiosità di sapere se qualcuno avrebbe potuto fermarci e non lo ha fatto».
Perché le Br uccisero Moro proprio quando Fanfani stava per fare una dichiarazione di apertura?
«Forse perché temevano che l’apertura sarebbe stata minima, ma sufficiente a spaccare le Br tra chi era per l’uccisione e chi no».
Per essere una brigatista avevi delle origini un po’ aristocratiche, vero?
«Sorvola».
Perché?
«Ce l’abbiamo tutti qualche parente nobile».
Io no. Di dove sei?
«Sono siciliana, di Tortorici. Ho abitato a Palermo fino a 13 anni, quando siamo andati a Roma».
Scuole?
«Dalle suore».
Che cosa ti ricordi?
«Che non potevo giocare per strada».
Educazione rigida.
«Una sola amica mi ero scelta da sola, Maria Pia. Con lei facevamo monellerie terribili».
Tipo?
«Andavamo a curiosare in clausura».
Come andavi a scuola?
«Bene. Però in quinta fui rimandata in matematica. Mio padre la prese in maniera tragica. Mi sospese dalla famiglia. Praticamente mi carcerò in casa».
Fratelli?
«Uno grande, giornalista, uno piccolo, avvocato».
Che tipo eri?
«Timida, permalosa, petulante, selvatica».
Quali erano i tuoi miti?
« Van Gogh, Sartre, i Rolling Stones, Bob Dylan, Chopin».
Suonavi?
«Mia mamma mi chiamava “quella dai fuochi fatui”. Mi innamoravo di tutto, dipingevo, facevo danza classica. E poi mollavo».
Che cosa hai fatto all’università?
«Volevo fare Belle arti. Ma mio padre considerava l’arte un terreno a rischio per una ragazza perbene. Scelsi Filosofia. La prima volta che andai all’università chiesi dov’era l’aula sesta, dove si riuniva il movimento studentesco. Era il rifiuto a questa scelta che sentivo obbligata».
Gli amori giovanili?
«Sergio, un ragazzo di Tortorici. Comunista. I miei lo osteggiavano in tutte le maniere».
Dopo Sergio?
«Incappai in una persona orribile, una bestia. Mi massacrava di botte. Tornavo a casa con labbra e sopracciglia spaccate. Poi un giorno, fuori di me dalla rabbia, cominciai a picchiarlo. Lo pestavo dove potevo, senza guardare. Gli spaccai un sopracciglio. Non lo rividi mai più».
Dopo la bestia?
«Un ragazzo di buona famiglia. Poi i “politici”. Franco Piperno, Luigi Rosati, Valerio Morucci».
Come hai scoperto la politica?
«Nell’aula sesta venni subito ubriacata dal fiume della contestazione. Il mio primo gruppo fu quello trotzkista di Franco Russo. Poi Potere operaio, quando mi sembrò riduttivo occuparmi solo della scuola».
Com’era l’ambiente di Potere operaio?
«Maschilista. Fu la mia più grossa delusione. Di una donna che si faceva valere si diceva che era brava come un uomo, una donna con le palle. Poi c’era il gioco dei galletti nel pollaio: le compagne venivano ascoltate poco, considerate meno e valutate in base alle loro arti amatorie».
C’era anche prevaricazione fisica?
«Qualche ceffone l’ho preso ancora. Anche da Franco Piperno. Ma fu una storia breve. Era troppo impegnato a collezionare donne».
Come finì?
«Passò una compagnuccia più carina di me. Io non mi ero mai considerata una sua fidanzata anche perché lui una fidanzata ce l’aveva. Lui mi catalogava come una delle sue innumerevoli amanti».
Che vita ricordi in Potere operaio?
«Durissima. Mi alzavo alle quattro per andare davanti alle fabbriche. Poi, la notte, interminabili riunioni politiche…».
Parlavi alle assemblee?
«No. Solo nei piccoli gruppi. Sopra le dieci persone ero in crisi».
Poi arrivò Luigi Rosati. Sempre Potere operaio. E vi sposaste.
«Io ero rimasta incinta».
Come due borghesi.
«Ci sposammo in chiesa, al Divino Amore».
Durò molto?
«Un anno e mezzo. Poi facemmo i separati in casa. Fu dura. Volò qualche altro schiaffo. Agli occhi del mondo mi considerava ancora sua moglie. Altro comportamento molto poco alternativo».
Poi arrivò Valerio Morucci. Sempre Potere operaio.
«Per me un compagno doveva essere qualcuno con cui condividere sogni e ideali. Un compagno di vita e non qualcuno da portarmi a letto».
Quando ho chiesto a Enzo Bettiza di definire il voltagabbana, ha usato le categorie dei brigatisti. Irriducibile chi non cambia idea, dissociato chi cambia idea, pentito chi cambia idea per interesse, cioè il voltagabbana.
«Sono categorie di comodo».
Sono aiuti alla riflessione e alla discussione.
«È vero che i pentiti hanno avuto grossi benefici. Ma anche i dissociati hanno avuto vantaggi».
Tu sei una dissociata.
«E voglio essere provocatoria, tirandomi la zappa sui piedi. Anche noi potremmo essere definiti voltagabbana».
Però quello che si pente un secondo dopo l’arresto e fa subito i nomi…
«Molti brigatisti non erano convinti delle scelte che portavano avanti gli altri. Questo li costringeva a fare delle forzature su se stessi. Qualcuno poteva diventare fragilissimo e maturare un cambiamento che esplodeva al momento dell’arresto».
Il pentimento può essere sincero?
«Certo, anche se repentino. Dovuto a fragilità. Ma la stessa fragilità può creare gli irriducibili. A quel tempo in carcere poteva convenire anche questo. Qualcuno ha rivendicato di appartenere alle Br senza avere mai fatto un’azione. Il percorso più lungo e sofferto, il più autentico, forse, è quello di chi si è dissociato prima della legge che riduceva le pene».
Possiamo tentare una definizione di voltagabbana?
«Chi per convenienza si schiera da una parte o dall’altra a seconda delle circostanze. Chi volta le spalle agli amici. Chi nega il passato. Non chi dice: “Ho cambiato idea”. Ma chi dice: “Questa idea non l’ho mai avuta”».
Chi prende voti di destra e li porta a sinistra?
«No. Pensa a Bossi o a Mastella. Se, con un governo di destra, non riescono a fare le cose che hanno promesso ai loro elettori, perché scandalizzarsi se ci provano con un governo di sinistra? E viceversa».
Chi è allora un voltagabbana?
«Dillo tu».
Milingo?
«No, su Milingo penso una cosa molto più cattiva. Che abbia architettato tutto fin dall’inizio magari d’accordo col Vaticano. Chi può credere che abbia perduto la testa per quella setta? Poi gli è bastato un colloquio con il Papa per ritornare sulla retta via? Milingo è una persona che mi incute timore. Troppo a contatto col lato oscuro».
Hai mai votato?
«Da giovane ero una convinta astensionista».
Prima astensionista, poi latitante, adesso interdetta.
«Sono stata libera di votare solo quando ero in carcere».
Per chi hai votato?
«Per la sinistra».
Oggi chi voteresti?
«Forse Rifondazione. Forse Verdi».
Come era la tua vita con Morucci?
«Avevo l’angoscia che Alessandra fosse turbata dallo scoprire nel letto di sua madre un uomo che non era suo padre. Costringevo Valerio ad alzarsi la mattina, uscire, bussare alla porta insonnolito e fare finta di arrivare in quel momento».
Non ci posso credere.
«Ero un po’ contraddittoria».
Prima delle Br voi facevate già lotta armata.
«Sì, ma senza clandestinità. Una volta entrammo in una sede della Sip vestiti da poliziotti. Obbligammo tutti a uscire dicendo che c’era una bomba. Poi la mettemmo. Ma poi non usammo mai più esplosivi».
E quando hai deciso di entrare in clandestinità?
«Ho detto a mia madre: “Hanno trovato il mio nome nell’agendina di un compagno dei Nap. Devo scomparire qualche giorno”. E le ho lasciato mia figlia».
Poi?
«Venni “congelata” in un appartamento clandestino per due mesi. Non ero ancora convinta».
Come una novizia che non se la sente di prendere i voti…
«C’era un aspetto quasi religioso nella lotta armata. Sposare una causa ideale, dedicarle la vita…».
Quante volte hai visto tua figlia?
«Sei o sette».
Gli altri lo sapevano?
«Solo Valerio. Ma anche lui vedeva i suoi. Trasgredivamo tutti e due alle regole della clandestinità».
Lanfranco Pace ci mise poco a trovarvi quando vi cercava per conto del Psi.
«Fra i compagni si sapeva chi era entrato nelle Br».
Se la polizia avesse pedinato Pace…
«Sarebbe arrivata a noi. Ma noi facevamo controlli spietati per assicurarci che nessuno fosse pedinato».
Curcio fu catturato con questo sistema…
«Noi eravamo più pignoli di Curcio. Ma è strano che non abbiano pedinato Pace se è vero che tutti sapevano che stava trattando con noi…».
Finito il sequestro Moro, tu e Morucci siete usciti dalle Br in polemica, scappando. Mi ha detto Pace che avete fatto quattro volte Roma-Reggio Calabria in treno…
«È una sua fantasia. Noi gli abbiamo solo detto: “Se non ci aiuti saremo costretti a dormire in treno».
Perché ve ne siete andati?
«Perché le Br avevano ingaggiato una guerra privata con lo Stato. Lo dissi anche, in maniera provocatoria, agli altri della colonna romana, Gallinari, Balzerani, Seghetti, Piccioni: “Non siamo più dei guerriglieri. Siamo dei terroristi”».
Perché vi siete portati via soldi e armi?
«Noi non rinunciavamo all’idea della lotta armata. Armi e soldi ci servivano. Ed erano nostri».
Che programmi avevate?
«Ci chiamavamo Movimento comunista rivoluzionario. Eravamo parecchi. Pensavamo di ripartire su una linea più legata ai bisogni della gente. Nell’atto costitutivo avevamo escluso l’omicidio politico».
Tu hai mai sparato a una persona?
«Due volte, alle gambe. Emilio Rossi, giornalista della Rai. E Cacciafesta, professore universitario. E poi ho ferito due agenti della Digos».
Che ne pensi dei politici di oggi?
«Mi viene da dire: “Aridateci Andreotti!”. Ma non credo di poter dare giudizi sui politici italiani».
Se tornassi indietro?
«Col senno di poi è facile. La lotta armata è una scorciatoia distruttiva, un cortocircuito mentale che non trasforma nulla. Ma anche allora, a volte, pensavo quanto sarebbe stato meglio fare la ricercatrice che non la guerrigliera».
Quindi la lotta armata tu non la rifaresti?
«No, perché non ho più fiducia nel genere umano. Per mettere in gioco la tua vita e quella degli altri pensando di costruire un mondo migliore devi credere disperatamente che il genere umano lo voglia. Io non ci credo più vedendo ciò che accade in questi giorni. Non mi pare che gli uomini vogliano vivere in armonia».
Ma tu eri una terrorista. Che differenza c’è tra quello che facevate voi e quello che fanno questi?
«Ideali, finalità, mezzi, obiettivi. Il terrorismo nostrano non ha mai usato violenza aindiscriminata. Sbagliava anche negli obbiettivi. Prendeva delle persone che non meritavano…».
Nessuno merita la morte.
«Il nostro sforzo era quello di non far morire innocenti. Gli innocenti in genere muoiono nei bombardamenti, nelle guerre vere e proprie. Oggi le due cose si sono unificate. Si fa del terrorismo che è una specie di guerra, con una quantità di morti spaventosa. Una delle cose a più alto indice di crudeltà cui abbia mai assistito».
Oltre a lavorare con Gerald, che cosa fai oggi?
«Quando ho la concentrazione giusta, scrivo. Racconti sul carcere».
Il titolo?
«Badlands, terre cattive. Come la canzone di Springsteen. Che dice: “Comunque non me ne vado, resterò fino a quando queste terre cattive non cominceranno a trattarmi bene”. Pensavo questo quando smisi di sognare di scappare e decisi che sarei uscita dal portone principale».
Volevi evadere?
«All’inizio non pensavo ad altro».
Ci hai provato?
«Avevo solo un seghetto nascosto nel barattolo della crema Nivea. Alla fine me lo trovarono. Dissi al direttore: “È un souvenir”. E mi misi a ridere. Anche lui si mise a ridere».
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