- 15 Novembre 2001
Il libro di Pialuisa Bianco, Elogio del voltagabbana, sta girando l’Italia in una serie di presentazioni che coinvolgono Francesco Cossiga, Sergio Romano, Antonio Martino, Cesare Romiti. E sui quotidiani firme importanti. Paolo Mieli lo esalta sulla Stampa, Eugenio Scalfari lo rintuzza sulla Repubblica. Sullo stesso concetto di fondo, voltagabbana come sintomo di democrazia, si può discutere a lungo. Lo faccio con Ernesto Galli della Loggia, per fare un po’ d’ordine.
Partiamo dal titolo: Elogio del voltagabbana. Due parole di segno opposto, una è positiva, l’altra è negativa.
«Tutti cambiano idea. Il problema è il modo e l’intenzione».
Problema non da poco.
«Disgraziatamente l’intenzione è una di quelle cose che non si possono indagare».
Appunto.
«Quando Dario Fo ha smesso di essere un repubblichino di Salò ed è diventato un democratico, perché lo ha fatto? La stragrande maggioranza dei miei colleghi esprime oggi dei giudizi sulla Resistenza completamente diversi da quelli che esprimevano negli anni Settanta. Sono dei voltagabbana?».
La risposta?
«La risposta è no. Ma è giusto che chi ha un minimo di ruolo pubblico spieghi perché cambia idea. Purtroppo in Italia nessuno ammette di aver cambiato idea, perché ha paura di cadere sotto la ghigliottina del moralismo».
Più stai zitto più sei accusato, più sei accusato più stai zitto.
«E poi c’è il problema della direzione: da dove si parte e dove si arriva. Nessuna persona che è passata da destra a sinistra è stata mai accusata di essere un voltagabbana».
Paolo Mieli sostiene che bisognerebbe fare una riforma lessicale: puoi chiamare voltagabbana solo chi viene dalla tua parte, non chi se ne va…
«Faccio il caso di Strehler. Era nell’assemblea del Psi, quella famosa dei nani e delle ballerine. A un certo punto è stato eletto senatore nelle liste dei Ds. I salotti milanesi l’hanno bollato come voltagabbana? No. Due pesi e due misure».
C’è anche il lifting della memoria. Si nega il cambiamento e si sostiene di essere stati sempre così.
«È per costruire un itinerario di coerenza. È ancora più comune stendere il silenzio sul passato. Non è tanto il lifting quanto l’annullamento».
Piero Fassino mi ha detto di essere entrato nel Pci in quanto contrario al comunismo. Veltroni sostiene di esserci entrato in quanto kennediano…
«Sicuramente non era kennediano perché Kennedy era un anticomunista e il povero Veltroni quando ha fatto quell’antologia di discorsi di Kennedy è stato colto in fallo: ha manipolato e censurato i pezzi anticomunisti di Kennedy. Lui fece il lifting alla memoria di Kennedy. Un caso di voltagabbanismo indotto forzatamente in un altro».
Si poteva essere comunisti e anticomunisti allo stesso tempo?
«In un certo senso sì. Si entrava nel Pci per ragioni che non avevano a che fare con il sistema dell’Unione Sovietica. Però colpisce di nuovo il doppiopesismo. Se si ritiene giusto che un giovane ragazzo di Salò venga in qualche modo chiamato a rispondere anche di Auschwitz, a maggior ragione una persona che ha militato nel Pci non può non farsi carico dei gulag».
Ci sono cambiamenti molto repentini che lasciano perplessi. Ne parlavo con Adriana Faranda che però lo contestava. Spesso nei brigatisti, diceva, il cambiamento è improvviso proprio perché l’hanno sofferto molto in un ambiente ermeticamente chiuso.
«Può essere psicologicamente vero. Uno accumula senza dire nulla e poi la rottura è improvvisa».
Poi c’è l’elemento «maestrino». Maestrino prima e maestrino dopo.
«Si può spiegare. Più i fardelli sono pesanti, più c’è bisogno di sfogarsi e di coinvolgere quelli che rimangono sulle vecchie posizioni. Bisogna giudicare caso per caso».
Giudicando caso per caso, c’è il rischio di farsi fuorviare dall’intelligenza o dalla simpatia della persona…
«Nell’azione degli individui lo stile è tutto. Lo stile è un elemento decisivo della nostra azione sociale, del nostro stare nel mondo».
Prenda il caso di Giulio Savelli. Una persona assolutamente simpatica e intelligente. Ha cambiato partito una decina di volte. Trotzkista… socialista… leghista… Con tutta la simpatia del personaggio, alla quarta volta dici: “Insomma!”
«In fondo è anche un eccesso di entusiasmo. Io penso che ci sia una divorante sete di verità che viene di volta in volta riconosciuta in questo o in quel movimento. Poi ci pensa la realtà a smentire…».
C’è anche un altro tipo di voltagabbana. L’opportunista che sta fermo.
«È l’altra faccia del voltagabbana: rivendicare una coerenza che però è opportunistica».
Lo stipendio…la posizione
«Appunto. Non ci crede ma continua a fingere di crederci».
C’è un età in cui si è più portati a cambiare idea?
«La maturità. La cosa che più ci cambia è il passare degli anni. Ci fa diventare più realisti».
Eppure il vero vecchio dovrebbe essere più libero. Il più rivoluzionario: non ha niente da conservare…
«Però i vecchi hanno bisogno di protezione e quindi di consenso. Sono più liberi di parlare però sono più cauti nel farlo spesso».
Che cosa è la coerenza?
«Esiste la coerenza con il proprio passato e la coerenza con il proprio presente».
Tipo?
«Comportarsi come si parla».
Coerenza istantanea.
«Appunto. Dico certe cose ma ne faccio altre. È più importante che mantenere nel corso dei decenni la stessa opinione».
Qualche caso?
«Noi professori universitari. Quando scriviamo sui giornali predichiamo il rispetto della legge. Ma i concorsi che facciamo sono quasi tutti truccati. Non può essere che così, perché la carriera universitaria è fondata sulla cooptazione».
Gli esami sono truccati?
«Gli esami si svolgono in condizioni di legalità sostanziale, però in mancanza di rispetto delle forme legali. Le forme, come è noto, sono importanti».
Pialuisa Bianco dice: tutti voltagabbana, nessun voltagabbana
«La categoria del voltagabbana che non si riesce ad afferrare bene».
Possiamo almeno stabilire che chi passa da una posizione a un’altra soltanto perché viene pagato è un voltagabbana?
«Beh…certo…».
Pia Luisa Bianco dice che va bene anche quello.
«Questo mi sembra insostenibile. Chi fa dipendere la propria azione dall’essere pagato è una persona totalmente inaffidabile: se trova una persona che lo paga di più fa un’altra cosa».
Pialuisa Bianco dice: se ci mettiamo sul piano della morale, chi decide?
«Decidiamo noi. Come si fa a non dare un giudizio negativo di una persona del genere?».
Dice anche Pialuisa Bianco: «Dove c’è voltagabbana c’è democrazia».
«Lei giustamente scende in campo contro l’uso politico, polemico, strumentale della parola voltagabbana. Però da qui a rivalutare tutto ciò che riguarda il cambiare opinione, ce ne corre. Non si può cadere nell’eccesso opposto. La democrazia non è il regime dei voltagabbana. È il regime che consente di dire “ho cambiato” e di spiegare il perché».
Bisogna anche non far confusione fra l’elettore e il candidato.
«Certo, sono due cose diverse. L’elettore è libero di scegliere di volta in volta. L’uomo pubblico deve spiegare se cambia idea».
Uno si presenta a destra con un programma di destra, intercetta votanti di destra e poi porta i voti a sinistra. O viceversa. Che fare?
«Ci vorrebbe la clausola della perdita del mandato parlamentare. Ma è vietato per questa mitologia costituzionale che ogni deputato rappresenta tutta la nazione. Il risultato è che si premia chi cambia partito anche per le ragioni più vili. La passata legislatura 200 deputati, mi sembra, cambiarono gruppo».
C’è un caso secondo lei in cui la demonizzazione del voltagabbana è stata eccessiva?
«Giuliano Ferrara. Adesso il Foglio ha molto successo, le posizioni politiche di Giuliano sono diventate intelligentemente modulate e hanno conquistato un po’ anche gli oppositori. Però, quando faceva televisione, è stato oggetto di una campagna di odio. C’era anche un elemento molto interessante di disprezzo per la fisicità di Giuliano, per il fatto che fosse grasso. Era considerata una sorta di aggravante morale, una cosa repellente, c’erano toni quasi di tipo razzista».
Lo accusavano di aver cambiato idea per poter accedere ai cospicui compensi di Mediaset.
«Quando Giuliano lasciò il posto di segretario della federazione comunista di Torino, visse in povertà per anni. Ad altre persone è stato abbonato il fatto di aver incassato soldi da Berlusconi».
Chi per esempio?
«Enrico Deaglio è passato alla cassa di Berlusconi. Tutto il gruppo dei dirigenti di Lotta Continua è stato liquidato da Berlusconi con 500 milioni, quando si trattava di mettere a posto i conti del quotidiano Reporter. Oggi, per ragioni che possono essere anche ottime, Deaglio fa l’integerrimo censore delle nequizie di Berlusconi. Ma quando ha preso i suoi soldi non si è informato su chi era la persona che gli dava quel mezzo miliardo?».
Giuliano glielo ha ricordato…
«Ha fatto benissimo. Però gli altri stanno zitti. Quel mezzo miliardo è un macigno. Ma è stato messo da parte. Di nuovo: due pesi e due misure. Insopportabile. E che Il Diario di Deaglio diventi il censore degli altri…».
L’opera d’arte va oltre le intenzioni dell’artista.
«Sono assolutamente d’accordo con lei. Il Diario è un giornale interessante però la persona di Enrico Deaglio è un’altra cosa».
Chi è un un voltagabbana secondo lei?
«In queste sue interviste viene spesso fuori il nome di Clemente Mastella. Ma Mastella è più da inquadrare nella categoria del trasformismo politico, di chi cambia perché si realizzi una certa operazione politica. Mastella non cambia opinione, cambia schieramento politico. Operazione di trasformismo politico compiuta da tutto lo schieramento. Tutti dicono sempre Mastella, nessuno dice Bossi».
E Dini?
«Stesso discorso. Ma allora Scalfaro? È stato democristiano di destra, craxiano, ultracraxiano e poi grande protettore dell’Ulivo. Una carriera degna di Giulio Savelli…».
Qualcuno dice anche Giuliano Amato…
«Amato sapeva che la condizione necessaria per continuare ad avere un ruolo politico era abbandonare Craxi. E per continuare ad avere un ruolo politico, lo ha abbandonato. Nel ’94 il tabù del craxismo era forte, tanto a destra che a sinistra. E il centrosinistra ha dimenticato il singolare caso di avere come presidente del Consiglio quello che era stato il più fedele collaboratore del detestato Bettino Craxi. Giuliano Amato era stato anche ministro del tesoro all’epoca della crescita del gigantesco debito pubblico durante gli anni Ottanta. Così come Ciampi è stato il governatore della Banca d’Italia nello stesso periodo».
Lei è spesso al centro di polemiche…
«Quando uno dice cose che escono un po’ dal seminato diventa un polemista. Non ha nessuna importanza se dice cose giuste o sbagliate. È un polemista, una specie di un poco di buono, un arruffapopoli, un mestatore, uno che cerca la rissa. Dall’altra parte ci sono gli autorevoli personaggi che dicono cose ponderate, togate».
Tipo?
«Alberto Ronchey. Di lui mai nessuno dice che è un polemista. Quanto piacerebbe anche a me entrare nella categoria del togato!».
Una volta lei ha detto: «In me convivono pensieri di destra e di sinistra».
«Io mi sento un piccolo borghese democratico nazionalista. E sono anche militarista. Penso che esistano le occasioni in cui bisogna fare la guerra e che in guerra conti il coraggio. Una volta erano pensieri di destra. Adesso anche la sinistra è diventata molto patriottica».
E i pensieri di sinistra?
«Ho a cuore una società libera in cui ci siano persone il più possibile liberate dal bisogno, dove ci sia un minimo livello di eguaglianza anche nella possibilità di accedere alle risorse della sanità, della scuola, del benessere».
Lei quali idee ha cambiato?
«Ho cambiato giudizio sulla sinistra italiana, quindi implicitamente anche sulla Dc. A un certo punto mi è parso chiaro che la sinistra italiana aveva un livello di immaturità politica e di filosovietismo che le rendeva impossibile governare. Quindi la Dc aveva assolto a una funzione storica decisiva nell’assicurare un regime politico che bene o male aveva mantenuto la democrazia in Italia».
Basta per essere definito voltagabbana?
«La parola voltagabbana non si usava. Ma spesso mi è stato detto: “Tu un tempo scrivevi cose diverse”».
Chi lo diceva?
«Molti miei colleghi che negli anni Settanta scrivevano cose diverse da quelle che scrivono oggi, iscrivendosi a una corrente maggioritaria dei voltagabbana, cioè i voltagabbana di sinistra che sono rimasti sempre di sinistra nonostante la sinistra nel suo complesso abbia cambiato idea. Se si controllano i testi, sugli stessi argomenti si vedono giudizi completamente diversi».
A Lidia Ravera lei ha detto di non essere mai stato un sessantottino.
«Intendevo dire che non ho mai avuto nulla a che fare col ’68 organizzato politicamente, coi gruppetti. Ma sono stato trascinato nel ’68 come tutta la mia generazione… Il primo marzo del ’68 ero a Valle Giulia. Che per i “contestatori” vale come la Marcia su Roma per i fascisti. Solo un asceta o un totale imbecille avrebbe potuto essere fuori da questa grande marea».
Lei ha dichiarato che non vota.
«Mi riservo la libertà di votare o non votare. Fino al ’76 ho votato comunista. Poi, quando arrivò la possibilità del sorpasso, cominciai a pensare che affidare il ministero degli Interni ai comunisti non era la cosa più brillante che si potesse immaginare. E cominciai a votare radicale. Ho votato varie volte radicale fino all’impazzimento della fame nel mondo e di tutte quelle cose lì, tipo il ghandismo. Nel 1992 sono arrivato a inventarmi una lista mia con Teodori e Giannini. Ma io sono convinto che il vero bipolarismo ci sarà quando noi non penseremo che il voto sia un elemento fondamentale per l’identità di una persona».
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