- 28 Settembre 2006
Luciano Lutring, il solista del mitra: oggi vive a Masino Visconti in un bilocale panoramico sul Lago Maggiore intasato dai suoi quadri. Aveva un sacco di anni di galera da scontare ma la doppia grazia, prima Pompidou e poi Leone, per meriti artistici, lo ha restituito 30 anni fa alla vita civile. Onesto. Dipinge, scrive libri, ricorda. Quella volta che il suo complice per la paura se la fece sotto, che puzza. Quella volta che la moglie gli disse: «Bella quella pelliccia di ermellino», e lui spaccò la vetrina e rubò la pelliccia. «Le banche non sono più quelle di una volta. Adesso mi fanno fare la fila. Una volta mi servivano subito». «Io e Cuccia lavoravamo nello stesso settore, le banche». È un fiume di parole Luciano Lutring. Un po’ italiano, un po’ milanese. E di intercalari. Sì o no? Comprendi quello che voglio dire? Comprendo e lo lascio parlare. Fare domande con Lutring è inutile.
«Mica ce l’avevo nel sangue la rapina. Ero stato impregnato dell’immagine di tutti quei fascisti, partigiani, ragazzotti del dopoguerra che erano andati sulle montagne e avevano assaltato, ammazzato, sequestrato. Frequentavano il locale dei miei in via Novara a Milano, latteria, bar frutta e verdura. Ognuno raccontava le sue imprese, io ho assaltato un carro armato, io un camion. C’erano tutti quelli della banda Bezzi e Barbieri e di quella di Gino Lo Zoppo e di Dino il paracadutista. Durante gli ultimi sgoccioli della guerra avevano fatto scoppiare le casseforti delle banche con la dinamite. Se c’era una retata si faceva in tempo a scappare dal retro del bar. Tutti gli amici balordini e balordoni lo avevano ribattezzato Crimen Bar».
E tu?
«Io andavo in giro con una Smith & Wesson della polizia canadese senza pallottole. Certe volte per fare il ganzo facevo finta di sparare. Pim, pam, pum, il rumore lo facevo con dei petardi schiacciati sotto gli stivali. Andavo a ballare, giravo su una vecchia Cadillac nera, facevo il macho, quando stringevo una ragazza invece di farle sentire il canarino le facevo sentire la pistola. Ero un sognatore. Un giorno mia zia Vittoria mi chiese di andare a pagare una bolletta alle poste. Io andai. Ma l’impiegato era lento e detti un pugno sul bancone. Nel movimento si vide la pistola che portavo sotto la cintura. L’impiegato si spaventò, credette che fosse una rapina e mi consegnò i soldi. Io pensai: “È così facile?”. E me ne andai col bottino. Due milioni all’epoca, bei daneé. La benzina costava 75 lire, il caffè 20, il giornale 15. Con i miei amici, andammo con la Cadillac al mare. Rubavamo i portafogli alle ragazze che si tuffavano per fare il bagno e lo lasciavano nelle macchine sotto il tappetino. Li chiamavamo “volini”, colpi al volo. A noi ci chiamavano “la banda del Settebello” perché tra tutti eravamo sette. Poi una sera vedemmo una Mg con due farlocche svizzere e gli rubammo le valigie. Ma io mi innamorai di una delle due, Yvonne, e le ridetti le valigie. Colpo di fulmine. La sposai 40 giorni dopo. Yvonne era un’entreneuse. A quei tempi le entreneuse erano gran signore. Si presentò da mia madre con tacchi da
Tuo padre…
«Era un bonaccione. Mia madre era il generale e comandava. Era una fascistona, poi diventò democristiana e poi socialista. Io non mi interessavo di politica ma ogni tanto andavo con una Lambretta senza marmitta a disturbare i discorsi di Togliatti a Piazza Duomo. Avanti e indietro, avanti e indietro. Mi pagava l’onorevole Leccisi, del Msi. Io politicamente niente. Quelli della Lega tempo fa mi chiesero di candidarmi. Ho risposto: lasciate perdere, sono una lama a doppio taglio io. Sarei stato eletto sicuramente. Mi occupo dei problemi dei detenuti, delle loro famiglie. In Italia ci sono 50 mila detenuti più le famiglie, gli amici, gli amici degli amici. Avrei portato a casa 400 mila voti. Comprendi quello che voglio dire? Quando sono uscito ho votato un po’ tutto. L’ultima volta per la sinistra».
La tua carriera…
«Ci presero tutti a noi della banda del Settebello. Io ebbi la libertà provvisoria perché mi avevano detto: “Piglia come avvocato Giuseppe Prisco, quello dell’Inter. È amico del giudice, gli ha dato la tessera dell’Inter, tribuna d’onore. La libertà provvisoria è assicurata”. Comprendi quello che voglio dire? L’Italia degli italiani. Io con la Cadillac facevo noleggio da rimessa. Guanti bianchi e divisa da chauffeur. Ho partecipato al film Addio alle armi. Ero l’autista di Rock Hudson. Poi ho venduto la Cadillac e mi sono messo a fare rapine. Mia moglie faceva le rapine con me. Le faceva anche Josette, un’amica francese. Un’amica… Diciamo che ero bigamo. A me mi hanno rovinato le donne. Agli inizi avevo fatto anche il ladro di polli. Lavoravo col “Barone”, un elegantone che mi ha insegnato a vestire bene. Entrava nei pollai, uccideva le galline, riempiva il sacco e lo portava sulla Cadillac. Anche due o tre quintali a notte».
Tu guadagnavi…
«Hanno detto che ho rapinato sui 300 miliardi. Ma è esagerato. Supero a malapena i 30 miliardi di allora, 100 miliardi di lire di oggi. Due o tre uscite alla settimana. Diciamo mille in tutto. Una volta, usando un’autoambulanza, rapinammo un ospedale: 600 milioni. Ma la latitanza costava. Gli appartamenti, le mance, i sopralluoghi, i documenti falsi. Una volta avevo i documenti di un monsignore. Glieli avevo fregati mentre lui si stava facendo scudisciare il sedere da una mia amica puttana, a Parigi. Spendevamo molto. I migliori alberghi, i migliori ristoranti. Una volta, dopo una rapina, andammo a festeggiare da Chez Maxim. Ci portarono le aragoste e le bacinelle dell’acqua con petali di rose e limone. Non sapevamo a cosa servissero e la bevemmo. L’Italia dell’ignoranza. Droga mai. Per eccitarci, prima di una rapina, salmone e caviale. E spumante Valdo. Quattro o cinque coppette Valdo prima Moët Chandon dopo. Comprendi quello che voglio dire? A Parigi c’erano i pieds noir. Una sera ne trovai due con i piedi sulla mia macchina. Cazzo. Josette mi fa: “Andiamo via”. Andiamo via? Tirai fuori due pistole e gli sparai ai serbatoi delle motociclette. Dopo due minuti la piazza era deserta. Vabbè che la macchina era rubata, ma un po’ di rispetto. Comprendi? Io sono stato sempre generoso. Durante una rapina vidi una vegetta che la tremava tutta. Avevo paura che mi morisse lì. Finita la rapina presi una paccata di biglietti da cento franchi e glieli regalai. Mangia nonna, mangia anche te. Il giorno dopo sul giornale scrivevano: “Vecchia pensionata recupera parte del malloppo”. Mi hanno fatto fare la figura del pirla».
Sei pentito?
«Io non andavo in giro a massà la gent. In Italia, allora, c’era una specie di accordo tra poliziotti e banditi. Si sparava sempre in aria. Tutti. Non era come adesso, che sparano al direttore e poi gli chiedono di aprire la cassaforte. Il pubblico mi vedeva come un bandito gentile. Nelle gioiellerie entravo sempre con un mazzo di fiori per nascondere il mitra. E le commesse, quando entrava il mio complice con la pistola, si aggrappavano a me chiedendomi aiuto. Una volta siamo andati in una banca, a Milano, e il cassiere ci fa: “Ancora qua voi?”. Come sarebbe a dire? Erano appena andati via quelli di Cavallero. Non c’era coordinamento fra noi. Così il cassiere mi voleva dare gli spiccioli. Io ci ho detto: “Lascia stare. Sem minga di barbùn. Non siamo dei barboni noi. Passeremo un’altra volta”. E siamo andati a svaligiare la Cassa di Risparmio accanto».
L’etica, l’estetica…
«Noi eravamo onesti. Dividevamo sempre in parti uguali. Le donne non prendevano soldi. Gli davo una mancia. I miei soldi li mettevo in una banca svizzera. Se non ti fidi delle banche di chi ti fidi? Una volta facemmo una rapina in Francia che ci fruttò cento milioni di lire. Andammo a festeggiare al casinò. Un milioncino qua un milioncino là, li perdemmo tutti in un paio d’ore. Ci ho detto: “Ragazzi andate a prendere l’artiglieria che passiamo a riprenderci i nostri soldi”. Nel frattempo i soldi li avevano portati in banca e noi ci dovemmo accontentare di una ventina di milioni. Capitava che qualche direttore di banca denunciasse di più di quello che avevamo rubato. Disonesti. Sulle nostre rapine ci mangiavano tutti. Anche ai poliziotti bisognava dare qualcosa. Oggi il Dupont, domani il Rolex».
Oggi…
«Il prossimo anno compio trent’anni di libertà. Non ho più preso neppure una multa, ho trovato una carta di credito e l’ho consegnata alla polizia, un portafoglio con 382 euro di una ragazza torinese e l’ho consegnato ai vigili. In carcere scrivevo anche racconti porno con uno pseudonimo femminile. I libri sparaseghe. Li noleggiavo agli altri carcerati per un pacchetto di sigarette. Comprendi? Quando stavo in galera in Francia corrispondevo con Sandro Pertini che era presidente della Camera. Lui aveva scritto le sue memorie su Oggi, raccontando di quando era detenuto ai tempi del fascismo. Allora gli ho scritto: “Esimio compagno, hai vissuto il mio stesso dramma…”. Lui mi rispose: “Abbi coraggio”».
Quando sei uscito di galera…
«Comprai un albergo dalle parti di Como. Era l’epoca in cui si mandavano i soldi in Svizzera. E tutti passavano dal mio albergo. Un giorno uno che doveva portare un miliardo dall’altra parte, mi dice: “Io mi prendo tutto e non porto niente di là”. Io gli dissi: “Non farlo, ascoltami, aspetta ancora un po”. Io sapevo che c’erano ancora tanti soldi da portare di là, miliardi e miliardi, gente di destra e di sinistra, avevano tutti le mani in pasta. La volta dopo il tipo prese i soldi, gettò petardi contro la rete del confine, pim, pum, pam, sparatoria nella notte e i soldi sparirono».
I soldi…
«In Francia io stavo ai lavori forzati. Facevo le carte topografiche per il ministero. Pagavano bene. Ho messo da parte 18 milioni di lire. Oggi vivo alla giornata. Un mio quadro vale sui 1500 euro. Vedo in giro certi pittori che vendono i quadri allo stesso prezzo mio e come curriculum non sono nemmeno sul bollettino dei protesti. Io almeno ho molti mandati di cattura. Li vendo privatamente. I galleristi sono pericolosi. Uno aveva venduto 150 quadri e non mi aveva dato nemmeno una lira. Allora io gli ho detto: “Così non si può andare avanti, io devo vivere, e poi se ci ho dei soldi non sono mica tenuto a tirarli fuori e far vedere che ho ancora dei soldi che ho rapinato, quello lì è un conto a parte, io voglio vivere onestamente”. Sì o no? Che poi io abbia nascosto il tesoro degli Incas sono cavoli miei. È il segreto che lascio. Le mie figlie… quando morirò… se qualcuno gli consegnerà qualche cosa di nascosto… vuol dire che ho saputo gestire segretamente e bene… e magari in una cassetta troveranno un milione di sterline…».
Gli altri banditi?
«Turatello era l’eleganza, la malizia, la signorilità. Vallanzasca l’aggressività. Era un arrivista che voleva emergere a tutti i costi, un Lutring da giovane. Un delinquente che mi è sempre stato sui coglioni è quel Vinci, quello che ha ammazzato le tre nipoti di Marsala, e poi faceva finta di cercarle a destra e a manca. Quando è arrivato nel carcere di Brescia faceva il bullo. Un giorno lo hanno trovato tutto pesto. Il direttore indagava. Allora un mafioso gli disse: “Direttore lei ha due figli. Vinci è scivolato sulle scale, ci creda”. E lui ha scritto sul rapporto: “Il detenuto Vinci è scivolato sulle scale”».
I tuoi compagni…
«Alcuni sono morti, alcuni sunt pensiunat, alcuni mi dicono: “Luciano, se hai qualche nemico da sistemare, ci pensiamo noi”. Ma io ormai ho rotto con il passato. Però rimpiango la bella vita, i night, le belle donne. Mi piaceva corteggiarle. Ero un romantico. Facevo tanti regali, collier, spille, anelli, brillantoni. Refurtiva. A mia moglie glieli regalavo la sera e il giorno dopo li vendevo al ricettatore. Se scoprissi che le mie gemelline svaligiano banche le sgriderei. Non sono più i tempi per le rapine. Il bandito oggi è una professione demodée. Se non vieni arrestato al primo colpo, ti beccano al secondo. È una professione sbagliata. Se però dovessero diventare delle gangster del computer, chapeau. I veri gangster sono quelli che oggi sanno prosciugare i conti senza che nessuno se ne accorga. Io mi sento solo, abbandonato. Le mie figlie hanno i loro impegni, i loro amori. Fanno le deejay, prendono 50 euro a serata, poi vengono da me a far rifornimento di soldi, mi telefonano con l’addebito. Quando si presentano qui con qualche amichetto io lo chiamo: “Uè, didòn, stai attento a dove metti il sifone perché mi te spari in de le bale”. E le figlie mi sgridano: “Papà vuoi farci morire zitelle?”. Una volta la professoressa di francese ci ha detto: “Fatevi imparare dal vostro papà che lui è stato molti anni in Francia”. E le bambine: “Prof, il papà in francese sa dire solo: fermi tutti questa è una rapina”. Certe volte le mie figlie mi dicono: “Papà tu non capisci un cazzo”. Come? Io che ho fatto tribolare tutte le polizie del mondo non capisco un cazzo? Hai capito che cosa voglio dire?».
Gioco della torre…
«Me lo faccio da solo. Fini o Bossi? Bossi mi sta dando un po’ di delusioni. Un giorno gira di qui, un giorno gira di lì. Fini invece mi piace molto. De Filippi o Bignardi? La De Filippi è una piagnona. Mi fa lacrimare anche solo a vederla. Prodi o Berlusconi? Io sono stato un gangster. Se c’è su Berlusconi che è uno con i soldi che comanda… finché c’è il ricco c’è speranza».
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