- 13 Febbraio 2003
Quando il Tg2, nella rigida applicazione dello spoils system e della lottizzazione fu affidato alle cure della destra molti gridarono allo scandalo. In 40 anni di Tv non era mai successo. Direttore diventò Mauro Mazza, fino ad allora vicedirettore del Tg1 in quota An, giornalista iniziato alla scuola del Secolo d’Italia. A nove mesi di distanza sono molti a sostenere che il Tg2 sarebbe in testa in una virtuale gara di obiettività tra telegiornali. Tutto ciò per opera di un postfascista? Mazza precisa: «Io non ho mai fatto politica attiva. Posso essere definito, al massimo, “ex redattore del giornale dell’Msi”».
Perché non ti riconosci nella definizione di ex fascista?
«Non sono mai stato iscritto al Msi. Mi sentivo a casa mia, ma non ho mai militato».
Hai fatto carriera al Secolo.
«Ero bravino».
Comandavi gente come Fini, Gasparri…
«Fini aveva una buona penna, si occupava di politica interna».
Correggevi i suoi pezzi?
«Spesso scrivevamo lo stesso “pastone”. Io mi occupavo dei partiti dalla Dc verso sinistra e lui dalla Dc verso destra. Poi univamo i due pezzi in un articolo solo».
Gasparri com’era?
«Come oggi. Uno che non si risparmia. Lavora di quantità. Non ho mai visto nessuno fare il numero di telefonate che faceva lui».
Chi era il direttore?
«Mimmo Tripodi, destra tradizionale, uomo d’altri tempi, gran signore, sempre col sigaro in bocca. La mente del giornale era il caporedattore, Cesare Mantovani, una carriera politica nel Msi, rovinata da un cattivo carattere».
Chi c’era a quei tempi?
«Ricordo il grande Alberto Giovannini. Mi portò con sé al congresso dei socialisti a Verona, primi anni Ottanta. Non mise mai piede al congresso perché aveva problemi polmonari molto forti. Io la sera andavo nel suo albergo, gli raccontavo come era andata e lui scriveva gli articoli di fondo».
Perché sei andato via?
«Tutti si stavano schierando, preparandosi per il dopo Almirante. Se fossi rimasto lì avrei dovuto fare politica. Tutte le volte che avevo provato ad uscire avevo trovato porte chiuse. Provai con Guido Paglia, capo del politico al Giornale di Montanelli. Mi disse: “Sei bravo, brillante, ti leggiamo”. Ma niente. Avevo il marchio del Secolo d’Italia».
Discriminazione?
«Al Convegno di Forze Nuove, corrente democristiana di Donat Cattin, non mi invitarono alla cena per la stampa. Per solidarietà vennero a mangiare con me, Enzo Iacopino e Giancarlo Perna».
Non è una grande discriminazione…
«E infatti non faccio la vittima. Era solo per farti vivere il clima. Un giorno chiamai un collega di un quotidiano milanese per chiedergli un chiarimento su un suo pezzo . Mi rispose, educatamente: “Scusami, non te la prendere, ma con uno del Secolo non parlo”».
Ci sono colleghi illustri usciti dal Secolo d’Italia?
«Ci sono. Gaspare Barbiellini Amidei, Franco Cangini, Ottorino Gurgo, Enzo Iacopino, Massimo Magliaro, Bruno Socillo, Pippo Marra».
Che cosa hai fatto quando ti sei dimesso?
«Radio e tv private. Poi mi assunse Pippo Marra, proprietario di Adn Kronos. Dopo due giorni che stavo lì mi telefonò: “Devi andare di corsa al partito per una intervista”. Io pensavo di dover andare al Msi. Invece lui intendeva il Psi».
Chi erano i tuoi amici?
«Domenico Mennitti. Aderivo al suo gruppo Proposta, corrente filosocialista dell’Msi».
Filosocialista?
«La corrente della modernizzazione, dell’apertura. I giovani leoni del gruppetto eravamo Gennaro Malgieri, Adolfo Urso e io».
Dopo l’Adn Kronos, la Rai.
«Avevo conosciuto Claudio Martelli. Gli davo una mano per l’ufficio stampa. Paolo Gigante, capo del politico del Gr1 di Livio Zanetti si mise in testa di portarmi in Rai ma serviva una spinta. Chiesi a Martelli di telefonare al presidente Manca».
Un missino in quota socialista.
«La telefonata di Martelli a Manca funzionò. Mi chiamò il capo del personale per la visita medica».
Come a militare?
«Elettrocardiogramma e raggi X».
E via con Zanetti.
«Un grande. Quando gli portavi una notizia si eccitava come un bambino».
Fine delle discriminazioni. Sei diventato vicedirettore del Tg1 col centro-sinistra.
«La Rai del Polo, nel ‘94, a me non ha dato niente. Quando arrivò Carlo Rossella, promosse tutti. Ma a me diceva: “La prossima volta”».
Un carognone.
«Gli voglio molto bene. Non mi ha dato mai nulla ma mi ha fatto fare cose belle e importanti».
Quando sei stato nominato direttore al Tg2, hai avuto una votazione di gradimento bulgara.
«105 sì, 15 tra no e astenuti».
Come hai fatto?
«Ha vinto il mio buon approccio, la mia buona educazione».
Qualcuno sostiene che la votazione bulgara fosse un messaggio polemico al precedente direttore, Clemente Mimun.
«Mimun ha governato il giornale per più di 7 anni, forse c’era un po’ di stanchezza. Sai la storia delle tre buste?».
Racconta.
«Quando uno diventa direttore di telegiornale, il suo predecessore gli consegna tre buste e gli dice: aprine una ogni sei mesi. Dopo sei mesi apre la prima busta e c’è scritto: “Gli ascolti non vanno bene, cambia conduttori”. E lui cambia i conduttori. Passano altri sei mesi, apre la seconda busta e c’è scritto: “Le cose ancora non vanno bene, cambia sigla”. E lui cambia la sigla. Passano altri sei mesi, apre la terza busta e c’è scritto: “Prepara tre buste”».
Tra i giornalisti Rai ci sono molti voltagabbana?
«La Rai è stata per decenni abitata, occupata, frequentata da democristiani. Stando al centro non devono fare i salti mortali per adeguarsi. Un leggero dondolio ed è fatta. Basta dondolare lievemente verso destra o verso sinistra».
Quando sei stato nominato direttore del Tg2 hai sentito il caldo respiro dell’adulazione?
«Ancora prima».
Adulazione preventiva.
«Molti colleghi del Tg2 mi telefonarono per dirmi che non vedevano l’ora di lavorare con me».
L’adulazione è di destra o di sinistra?
«Non lo so».
A destra c’è il mito del capo. Obbedienza pronta, cieca ed assoluta.
«A destra, ogni testa pensante è un partito. Quando Almirante lanciò la campagna in favore della pena di morte, dissi che non ero d’accordo e non avrei scritto nulla».
Gli adulatori sui quali c’è accordo generale, sono in Forza Italia: Schifani, Bondi, Vito…
«A qualcuno possono sembrare un po’ più rozzi, meno raffinati. Ma che dire di quello che successe quando D’Alema andò a Palazzo Chigi? Come è intelligente, come è bravo. E i Rondolino, i Velardi a costruire il mito».
Chi è il principe dei voltagabbana?
«Ricordo un magistrato campano, Nicola Miraglia Del Giudice, che era stato eletto con Alleanza nazionale. In un giorno cambiò due partiti e la sera tornò con An. Aveva fatto il giro in 24 ore. Ma anche Angelo Sanza ha fatto il giro. Nel ’96 fu eletto col Polo nel mio collegio, poi partecipò al governo D’Alema e poi, in quota Cossiga, si ripresentò col Polo. Se uno vuole orientarsi su ciò che succederà nei prossimi mesi non ha che da telefonare a Sanza, la bussola politica umana».
Altri voltagabbana?
«Dicono Ferrara ma sbagliano. Ferrara è la sinistra della destra. Ma potrebbe essere la destra della sinistra senza cambiare una virgola delle cose che scrive».
Gli ex di Lotta Continua?
«Li conosco poco, conosco Paolo Liguori. Per un periodo ci siamo frequentati, anche se lui è romanista e lo è in modo becero».
Già, tu sei laziale. Lazio di destra, Roma di sinistra.
«Sciocchezze messe in giro dai romanisti di sinistra».
Mastella è un voltagabbana?
«Perché sparare su di lui? Mastella deve ripresentarsi ai suoi elettori di Ceppaloni. È il vantaggio della politica. Prima o poi c’è la verifica».
Guzzanti, Foa.
«Chi fa un percorso personale, politico, culturale, che comporta sofferenza non è un voltagabbana. In Guzzanti e Foa c’è tutto questo. Altrimenti non scriverebbero editoriali in cui mettono a nudo se stessi. Non si nascondono».
Allora trova un adulatore.
«Mah!».
Uno sforzo.
«Dicono Anna La Rosa, ma è banale. Lei è una professionista che fa televisione in quel modo».
Sicuro?
«Non è la mia televisione, ma va benissimo che la faccia. Io non sarei capace di farla».
Anche tu sei garbato.
«Faccio sentire a loro agio gli ospiti, ma non li metto su un trono. Le domande che creano qualche problema bisogna farle».
E Marzullo?
«Da Marzullo ci sono andato. La domanda insidiosa non la fa, gli sembra contro natura. Ma col suo sistema riesce a far parlare tutti».
Che ne pensi della decisione di far fuori Santoro?
«Santoro io lo vedevo tutte le settimane. Non mi perdevo nemmeno una puntata. Adesso se ho un invito il venerdì sera, quando c’è Socci o il martedì quando c’è Floris, me ne vado tranquillamente a cena fuori».
Hai fatto il vice di Giulio Borrelli, di Gad Lerner e di Albino Longhi. Con chi sei stato meglio?
«Con Borrelli, nei primi mesi, forte innovazione. E con Longhi, gran signore».
E Lerner? Ci fu il caso del pranzo con Landolfi.
«Mario Landolfi, un amico, era stato appena nominato presidente della Commissione di vigilanza. Proposi a Gad Lerner di andare a pranzo con lui prima degli incontri formali che ci sarebbero stati».
Idea malsana.
«Me ne sono pentito amaramente».
Quando successe il fattaccio della pedofilia e delle immagini di bambini trasmesse dal Tg1, Gad Lerner si dimise con un polemico editoriale durante il quale accusò Landolfi di aver fatto pressioni, proprio durante quel pranzo, per assumere una giornalista.
«La maestria dell’uomo. Si smise di parlare di pedofilia e si parlò di raccomandazioni».
Come andò veramente?
«Landolfi disse: quando in settembre rivedrà le collaborazioni al telegiornale, valuti lei, mi segnalano questo nome, mi dicono che è brava, se riesce a continuare a farla lavorare mi fa una cortesia».
Improvvido. Il controllore che chiede una cortesia al controllato.
«Una goccia nel mare di ciò che accade a chi dirige un Tg. Alcune Gad le aveva raccontate anche a me nei giorni della confidenza».
Cosa?
«Grosse raccomandazioni avute da grossissimi personaggi».
Nomi che adesso tu ci dirai.
«Ma nemmeno per sogno».
Però il presidente della Commissione di vigilanza che segnala una precaria… suvvia.
«Va bene, fu una leggerezza».
Fu una cosa poco intelligente. Consegnò addirittura un foglietto con su scritto il nome.
«Ma quale foglietto. Durante il pranzo non ho visto nessun foglietto e nessun nome scritto».
Il foglietto che Gad ha mostrato è un falso?
«Ha mostrato un foglio, non so che cosa ci fosse scritto sopra. Aspetto di vederlo stampato sui giornali».
Le polemiche ti piacciono?
«Io mi ci butto spesso dentro. L’estate scorsa avevo fatto un servizio citando alcune frasi di Malaparte su Togliatti e De Gasperi, tipo: attenti a quei due, sono esponenti del totalitarismo comunista e democristiano. Un certo Giuseppe Fioroni, della Margherita, se ne uscì dicendo: “Il Tg2 attacca De Gasperi”. Io gli risposi: “Qualcuno spieghi all’onorevole Fioroni che se uno fa una citazione di un suo pensiero, cosa molto improbabile, questo non significa che la pensi come lui”. Altra polemica: a Ferragosto Emilio Fede, uscendo dalla villa di Berlusconi, disse alcune cose sgradevoli sui Ds, spiegando che ne aveva parlato col presidente. Alcuni Ds polemizzarono con Fede. E il Tg2 non dette conto né di Fede né dei Ds».
Censura.
«Non ritenevo meritevole di un Tg una polemica tra Fede e Fassino. Questa cosa fu criticata da un politico. Allora andai in video e spiegai che i politici fanno la polemica con i politici, i giornalisti con i giornalisti e poi i Tg decidono se quelle polemiche sono meritevoli».
Contraddizione: tu giornalista stavi facendo una polemica con un politico.
«Vero. E lo dissi. Dissi che c’era un certo parlamentare, un certo signor G, lo chiamai così, che fa talmente tante volte la polemica con i giornalisti, che per lui potevo anche fare un’eccezione».
Chi era il signor G?
«Un simbolo. Gasparri? Gentiloni? Giulietti?».
Mi stai prendendo in giro. Era Giulietti.
«Quella volta mi tolsi un sassolino dalla scarpa».
C’è qualcuno a destra che non ti piace?
«Non amo la volgarità. L’accostamento destra-volgarità mi fa male perché sento che a volte è vero».
Nomi.
«Qualche leghista. Le affermazioni del sindaco di Treviso. I comizi di Borghezio».
Hai molte proteste?
«Qualche lamentela. Una volta ospitammo la Moratti in studio per parlare della politica per fare rientrare i cervelli in Italia. La Commissione di vigilanza ci trasmise la garbata richiesta del predecessore della Moratti, l’onorevole Berlinguer. Voleva essere intervistato anche lui».
Gioco della torre. Baldassarre o Zaccaria?
«Salvo il mio presidente».
È stato tuo presidente anche Zaccaria.
«Finché c’era Celli come contropotere, come bilanciamento interno, mi piaceva. Dopo, alcune sue scelte mi hanno fatto impressione».
Tipo?
«Raddoppiare lo spazio per Benigni da Biagi a tre giorni dalle elezioni, chiedere che Benigni andasse a spot anche dentro il Tg1 quella stessa sera. E poi la telefonata a Grillo per dirgli che doveva partecipare ad uno spettacolo in Rai perché la democrazia era in pericolo. E la sua partecipazione al Palavobis solo pochi giorni dopo essere uscito dalla Rai? Sul camion come Eltsin a Mosca! Incredibile».
Cofferati o D’Alema?
«Salvo D’Alema. È il più intelligente».
Gli contestano la caduta del governo Prodi.
«Sapere di essere molto intelligenti fa commettere degli errori».
Invece Cofferati?
«È un buon leader per una buona minoranza. Gli riconosco il carisma, più fisico che politico. Ma rischia di fare macerie del più grande partito della sinistra, senza avere nessuna carica interna, senza seguire le procedure democratiche».
Vincino o Forattini?
«Vincino talvolta è divertente, il Forattini di oggi quasi mai. Però Vincino lo leggono in dieci e lo capiscono in tre».
Altan o Vauro?
«Salvo Altan. Vauro è volgare e blasfemo».
Costanzo o Vespa?
«Salvo Vespa».
E Costanzo?
«Ha fatto magnifiche trasmissioni alla radio. Ha inventato la seconda serata tv con programmi innovativi, creativi, curiosi del prossimo».
E allora?
«Oggi è un banalizzatore. La serialità si salva solo se resistono curiosità e creatività. Ma ormai Costanzo ha messo il pilota automatico».
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