- 8 Gennaio 1990
Timmeljoch, passo del Rombo, val Passiria. Un nido per le aquile. Il tricolore ci ricorda che siamo in Italia anche se la cosa pare incredibile, sociologicamente, storicamente, geograficamente. Una bandiera austriaca ci rassicura: siamo al confine. E seguendo la linea ideale che unisce i cippi del confine ecco che arrivano camminando di buona lena tre signori con lo zaino in spalla. Uno è una famosa guida altoatesina, il secondo è un famoso alpinista, Hans Kammerlander, otto ascensioni degli ottomila himalaiani, il terzo è il più famoso alpinista del mondo, Reinhold Messner. Stanno facendo il giro del Tirolo del Sud o – se vogliamo – dell’Alto Adige. Un gioco da ragazzi se lo confrontiamo alla carriera di Messner.
Ma lo fanno seguendo esattamente la linea ideale dei confini (col Trentino, con la Lombardia, con la Svizzera, con l’Austria, col Veneto), scalando 300 vette, arrampicandosi per un totale di 100 chilometri di dislivello e camminando per 1.200 chilometri. Il tutto nel tempo limite di 40 giorni. Ogni sera dormono in una baita. Ma prima di andare a dormire si sobbarcano l’ultima fatica, quella che chiamano il "confronto con la cultura, la storia, l’economia del Sud Tirolo", colloqui con ospiti su ogni genere di argomenti, dalla storia dei disertori dell’Ortles, a quella dei contrabbandieri della Val Venosta, dalla vendita di bambini del passo di Resia, ai parchi naturali, alla coltivazione del grano, del vino d’alta quota di Favogna, alla tradizione delle mulattiere. "La nostra è un’azione culturale e politica", spiega Messner, "vogliamo stimolare la riflessione sulla nostra terra. Camminando lungo i confini vogliamo ricordare che questi confini ci sono, sono un fatto storico, sono i confini del Sudtirolo, una regione che una volta era tutta un’altra cosa, aperta verso l’Engadina, il Tirolo del Nord, il Trentino. Oggi ci siamo isolati. Nel nostro giro stiamo trovando vecchie vie, tracce di antichi passaggi". I confini insomma nel senso di relazioni fra popoli, non in quello di divisione, di chiusura…"Adesso l’Europa cambia, da Europa delle nazioni, nella quale avevamo una posizione difficile, diventa Europa delle regioni, dei gruppi. Allora per noi la questione si semplifica: saremo "sudtirolesi europei appartenenti all’Italia", non come durante il fascismo che eravamo costretti ad essere semplicemente italiani. Io voglio far capire alla mia gente che dobbiamo avere il coraggio di aprire i nostri confini. Noi siamo il punto nodale fra il sud e il nord. Domani chi vorrà fare affari tra Milano e Francoforte non potrà che servirsi di avvocati sudtirolesi, gli unici che conoscono le due lingue e le due mentalità. Io mi sono sempre battuto per la bicultura. Dieci anni fa chi diceva queste cose veniva messo all’indice". Invece adesso? "Adesso è cambiato". Messner, lei era il traditore dei sudtirolesi, il nemico emarginato dalla comunità tedesca, la bestia nera della Volkspartei. Una volta per strada le sputarono addosso. Che cosa è cambiato? "La Volkspartei è cambiata. I nuovi dirigenti sono cambiati. Quando arrivò Luis Durnwalder avevamo paura che fosse più a destra di Magnago. Invece disse subito: "Dobbiamo convivere". Oggi i giovani della Volspartei la pensano come Alexander Langer, il politico più intelligente della nostra zona, che fu per tanti anni il nemico numero uno degli amici di Magnago. Oggi il programma del governo della provincia sembra scritto da Langer. Una volta Magnago per insultarci diceva che propagandavamo la cultura della mescolanza, una parolaccia. Adesso parlano di multicultura ed è una cosa bella. Sono venuti nella nostra direzione". Fine dei problemi quindi? "Per carità, il cammino è lento, la burocrazia resiste. Da bambino la mia testa, l’hanno sempre messa verso nord, verso l’Austria. Per questo quando sono diventato grande io mi sono messo a guardare verso sud, verso l’Italia. A scuola, all’istituto per geometri, mi hanno messo la testa verso ovest, l’America. E allora io sono partito per l’Est, l’Asia. Io sono abituato a guardare ai quattro punti cardinali. Il Sudtirolo continua ancora oggi, per l’economia, per la scienza, per l’etica del lavoro. a guardare a un quarto del mondo, tra nord e est. Non è un quarto minore ma è solo un quarto del mondo. La capacità di vivere, l’arte del vivere è dall’altra parte. Io dico che noi sudtirolesi possiamo alzarci finalmente ed ammettere che con l’Italia abbiamo imparato anche a vivere". Ma i sudtirolesi vogliono unirsi al nordtirolo… "La manifestazione pantirolese del Brennero è fallita. Noi non abbiamo nessuna ragione economica o culturale per allacciarci ai tirolesi del nord. Loro sì, perché a loro mancano molte capacità che noi abbiamo. Loro hanno una sola cultura e noi ne abbiamo due. Oggi in Sudtirolo si comincia a capire che essere sudtirolesi è un più, non un meno". Però adesso c’è chi vuole uno Stato del Tirolo del Sud. "Si, e io voglio il vecchio regno del Juval, quello del mio castello! Non si può mica tornare al medioevo".
Lei Messner sembra molto ottimista. Ha risolto tutti i suoi difficili rapporti con i sudtirolesi? "No, sono sempre pessimi, soprattutto con la stampa e con i burocrati. I giornalisti di lingua tedesca non sopportano che io dica quello che voglio e che penso. Giornalisti e burocrati frenano ancora, sia nella politica che nella cultura, e continuano a dividere la gente. E se qualcuno a loro non piace, riescono a cacciarlo via. Facilmente. Se in Sudtirolo ci sono ancora dei nazisti, questi sono quelli della stampa".
Una volta lei diceva: io non faccio le scalate per nessuna bandiera. Né per l’Italia, né per l’Austria, né per il Sudtirolo. "Io trovo sbagliato lasciare cose in cima alle montagne. Io non sopporto nemmeno tutte quelle croci che sono sulle vette delle montagne nell’Alto Adige. Le toglierei tutte, sono brutte". Che cosa prova in cima a una montagna? "Non lo considero un punto particolarmente importante. La cima è solo l’inizio della discesa. Da quel momento non ci si allontana più, ci si riavvicina. Il grande problema della salita è che più sali più ti allontani dalla "casa", dal calore, dagli amici. Dopo cinque giorni di verticale ti senti fuori dal mondo, lontano da tutti. Nessuno ti può aiutare. Tu non appartieni più al mondo. Ma anche in "orizzontale" è così, anzi è peggio. Al Polo Sud andavamo per mesi e non sapevamo più dove eravamo. Non c’era né dietro né davanti. Ci si sentiva persi".
Lei ha compiuto 3 mila imprese alpinistiche, ha per primo attraversato l’Antartide, è salito 17 volte oltre gli ottomila, ha compiuto 100 "prime", ha tenuto centinaia di conferenze, ha scritto 25 libri venduti in 3 milioni di copie. Come fa a non fermarsi mai? In che cosa consiste la sue eccezionalità? In che cosa è diverso da me? "Dal punto di vista fisico non c’è differenza tra me e lei". Messner, la prego…"Intendo dire che lei potrebbe essere come me se si fosse allenato come ho fatto io". Già va meglio…e allora che cos’è che ci fa diversi? "Io ho una grande capacità di identificazione. Io mi faccio importante. L’uomo è divino perché è capace di dare valore alle cose". Lei ha sempre rifiutato la dimensione eroica di quello che fa…"Eroe è chi salva uno che sta affogando o è caduto in un crepaccio. Non c’è eroismo invece in quello che faccio io. C’è solo egoismo, sempre. Lo faccio per me. La vita di un impiegato di banca può essere eroica quanto la mia".
Si sente mai stanco? "Qualche volta, quando sto fermo". Si sente mai triste? "No. Io vedo che l’uomo non ci sarà più fra migliaia di anni. L’uomo è un caso del mondo e non sopravviverà. Per questo potrei anche essere triste. Ma non lo sono perché in fondo mi piace vedere come l’uomo si sta suicidando". Si sente mai infelice? "Talvolta. Quelli dell’infelicità sono momenti chiave della vita, gli unici momenti in cui si impara qualcosa". Ha paura della vecchiaia? "Forse oggi la molla che mi spinge è proprio la paura di invecchiare. Se sto fermo senza fare qualcosa di difficile io mi rendo conto che invecchio. Durante la traversata dell’Antartide mi sono sentito giovanissimo".
Che differenza c’è tra arrampicarsi e camminare? "Nelle imprese "orizzontali" sei costretto a pensare. Ti viene chiaro tutto perché sei molto distante da te stesso. Ti vedi da fuori, come un punto nell’infinito, distante. Quando arrampico, io non esisto più, sono la roccia, sono la nebbia, mi perdo. Quando cammino penso a tutto. In Antartide mi è venuto chiaro il fatto della morte. Ho capito che noi non moriremo. Noi cadremo nello spazio infinito e nel silenzio infinito. E’ strano che noi abbiamo paura dello spazio e del silenzio infinito, perché è lo stato d’animo più bello che si possa provare". Lei l’ha provato? "Relativamente, in Antartide". Noi comuni mortali, in Antardide, di fronte allo spazio e al silenzio infinito, di fronte al nulla davanti e al nulla dietro, soli con noi stessi, costretti a pensare, probabilmente impazziremmo…"L’importante è avere temi di meditazioneutti i giorni, non sfuggire. Un giorno, camminando, ho ideato, creato, disegnato un museo. Portroppo queste lunghe riflessioni spesso si perdono…" Non poteva scriverle su un diario? "La sera nella tendina è come stare a casa, è tutta un’altra cosa. Ho cercato di registrare i pensieri camminando, ma i registratori non riescono a funzionare a quelle temperature".
La libertà sua costa ad altri, alle persone che le vogliono bene. "E’ vero. Fare questa vita avendo una famiglia diventa moralmente difficile. Ma non per me. Se uno guarda da fuori può dire: ma come fa con la moglie, con i figli? Ma quando io sono a casa sto 24 ore con loro. Se sono via, sono via. Io sono fatto così. Se io adesso decidessi di rimanere sempre a casa, non sarei lo stesso. I miei figli avrebbero un altro padre. Sarei una persona senza equilibrio". Nessuna donna le ha mai detto: ho me o gli ottomila? "No, sapevano che sarebbe stato troppo rischioso per loro. Se una donna vuole un uomo che stia sempre a casa non si avvicina a me". Lei è proprio un "fanatico" della libertà… "C’è un verso di Holderlin che dice "la libertà di andare dovunque voglio". Sembra scritto per me". Ma la sua libertà ha dei costi che pagano le persone che le vogliono bene…"E’ vero. Ma io lascio degli obblighi borghesi perché sono travolto degli obblighi personali. Non è che io mi sento libero quando vado in Antardide. Sono costretto a farlo. Un impiegato di banca può darsi malato e stare a casa. Io sono troppo preso che non posso più uscire dalla mia invenzione, dalla mia capacità o incapacità di portare a termibe il progetto". Lei accetterebbe che la sua compagna si comportasse come lei? Che le dicesse: caro, sento un obbligo che mi porta sette mesi al Polo Sud, ci vediamo…"Si, lo accetterei". Lei una volta ha tentato di portarsi dietro sua figlia…"Si, Magdalena l’ho portata sul Lhotse, aveva quasi un anno. Però non stava bene…" Non stento a crederlo…"No, sbaglia, non era un problema medico. La bambina si annoiava, non poteva giocare, non dormiva per colpa del rumore del vento, usciva dal sacco a pelo e tentava di uscire dalla tenda. Non è andata oltre i cinquemila e l’ho portata indietro".
Lei è tra le persone che sono state di più in Tibet. E’ quindi il più titolato a parlare di yeti. Esiste? E’ realtà o leggenda? "Realtà e leggenda. Nel 1600 molte popolazioni dell’est del Tibet migrarono nelle zone dove abitavano questi animali. Ce ne erano di due tipi: c’erano gli yeti neri, che erano degli orsi, e degli yeti rossi, che erano delle scimmie. Questi popoli, durante le migrazioni, ne videro qualcuno. E nacque la leggenda che mescolò yeti nero e yeti rosso e arrivò fino a noi, nel Novecento, anche se molto cambiata". Ma oggi esiste ancora lo yeti? "Si, almeno quello nero, l’orso". Bisogna fidarsi della sua parola oppure ci sono delle prove? "Per quanto riguarda il 1600 ho trovato una "tanka", un dipinto tibetano classificato di quell’epoca in cui ci sono tutte e due gli yeti". E per quanto riguarda oggi? Qualcuno l’ha visto? "Molti l’hanno visto. Ma c’è la leggenda fra i tibetani che chiunque veda uno yeti, muore". Lei l’ha visto? "Si, io l’ho visto, l’ho avvicinato a una decina di metri. E’ un orso artico, molto grande. Sono tornato successivamente nello stesso posto, l’ho ritrovato e l’ho fotografato". Non aveva paura? "La prima volta no". E la seconda? "Si, perché nel frattempo avevo saputo molte cose su di lui". E cioè? "La storia è troppo complicata. Era un’avventura molto lunga e molto complessa. Successe quando decisi di ripetere la migrazione delle vecchie popolazioni tibetane". Perché non ha mai raccontato queste cose, non ha pubblicato la foto, non ha scritto nulla? "Perché tutto ciò fa parte di uno studio, e lo studio non è ancora terminato. Ci vorrà tutta una vita, forse, anzi non escludo che non potrò mai venirne a capo". Non sarà perché ha paura che la gente lo prenda in giro? "No, di questo proprio non mi preoccupo".
Lei era molto impegnato sul fronte ecologico. Sosteneva che la gente sporca le montagne…"Oggi la gente è molto più pulita di una volta. Ma esiste sempre il problema dei turisti che d’estate invadono le momtagne a migliaia. Arrivano fin dove possono con la macchina e poi formano lunghe colonne sui sentieri". D’altra parte non si possono certo chiudere le montagne ai visitatori…"Le montagne no, ma le strade si. Le strade delle vallate, delle malghe, vanno chiuse".
Werner Herzog, da una sua idea, ha realizzato un film, "Grido della pietra". Sembra che non le sia piaciuto…"No, il film non è un capolavoro ma è accettabile, Però non è riuscito a far venire fuori una montagna che respinge la gente. Io gli avevo spiegato che la montagna è fatta per non essere vissuta dall’uomo". Ma ormai l’uomo può salire qualunque montagna del mondo…"Questa è la contraddizione. Ed era quello che ho raccomandato ad Herzog: di far vedere la montagna in modo che si capisca che l’uomo non dovrebbe andarci. E che nonostante ciò l’uomo ha la capacità di conquistarla". E’ un film che vede l’alpinista come un eroe e un competitivo…"Io volevo un film antieroico. Herzog non è riuscito a fare un film contro l’eroismo. Era talmente preso a giocare l’eroe lui nel film che ha dimenticato di fare un film antieroico". E la competizione? "Nel film ci sono tre persone che scalano il Cerro Torre. Uno, per amore di una donna. E’ una motivazione molto forte l’amore: far vedere a una donna di essere un uomo forte. Un’altro, per dimostrare di esserci già stato. Nessuno ci crede e allora lui lo rifa. Scopriremo che non era vero. Se uno sale una montagna per la seconda volta perché nessuno crede che l’ha fatto una prima volta, vuol dire che non l’aveva fatto la prima volta". E perché? "Perché le montagne si scalano per se stessi. Non bisogna dimostrare niente a nessuno, non c’è bisogno di nessuna certificazione". E la terza motivazione? "E’ appunto la competizione. Che non vuol dire essere il più forte, il più veloce. Il terzo personaggio del film è il "vecchio", chiamato Roccia. Lascia la montagna e diventa una specie di eremita. Fa il contadino, cura le pecore, guarda le montagne, ci gira attorno. E’ uno che si è salvato dal "mal di montagna", dalla necessità di salire. Ma quando arriva il giovane che vuole ripetere il Cierro Torre, il Roccia non riesce a rimanere a casa. Ecco noi siamo così. Io ho delle idee per un mio prossimo progetto. Riguarda il polo Nord. Se vengo a sapere che un altro gruppo parte un mese prima di me, io non riesco a stare fermo". Lei dice che le montagne si scalano per se stessi, ma poi è il più competitivo di tutti. "E’ vero, sono anch’io competitivo, Ma non è un problema di metri o di minuti. La nord dell’Eiger: non ha nessuna importanza se si si mette 10 o 25 ore. Lì conta andar su e vivere questo pezzo di vita fuori della vita borghese. La montagna non è misurabile. E’ una legge naturale: si può stare tranquillamente sotto una montagna senza aver voglia di scalarla. Ma se arriva un altro che sale, allora non si può stare fermi. Bisogna andare".
Il film di Herzog è stato girato realmente sotto il Cerro Torre. Non oso pensare ai rifiuti di un set, alla faccia dell’ecologia della montagna…"No, mi hanno assicurato che hanno lasciato tutto pulitissimo. Io non sono andato sul set. Ma mi hanno detto che hanno portato via dal Cerro Torre più roba di quella che avevano portato là".
I suoi viaggi sone sempre più costosi. "Si, quello al Polo Sud è costato un miliardo. Il progetto che ho in mente per il Polo Nord costa ancora di più". Di che si tratta? "Non si può ancora dire. E non sono ancora sicuro. O mi ritiro o faccio questo mio Polo Nord". Ma i soldi dove li trova? "Ci sono gli sponsor. Lei lavora per un giornale e prende dei soldi dall’editore. Io cammino e mi arrampico e prendo soldi dagli sponsor". Nessun problema quindi? "Il difficile è dopo. Se cinque sponsor mi chiedono dieci conferenze ciascuno mi rovino la vita. C’è troppo lavoro dopo, troppe conferenze. Se va avanti così gli sponsor mi mangiano.
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