- 18 Ottobre 2001
Claudio Signorile è stato uno dei grandi leader del Partito socialista, uno dei protagonisti della svolta del Midas che vide l’inizio dell’ascesa di Bettino Craxi. Quando il suo partito e stato travolto da Mani Pulite, si è chiamato fuori. Mentre la maggior parte dei suoi compagni migrava verso Arcore lui è rimasto socialista, anzi socialista di sinistra. Eppure entra nella galleria dei sospetti voltagabbana chiamato a gran voce da Lanfranco Pace, l’ex leader di Potere operaio. Pace, nell’intervista a Sette di qualche settimana fa, ricordando i contatti con i socialisti e i brigatisti per cercare di salvare la vita ad Aldo Moro, aveva definito Signorile un voltagabbana. «Prima mi coinvolse nel caso Moro e poi al giudice negò di avermi mai visto». Signorile non si tira indietro e per la prima volta racconta a un giornale i particolari di quei drammatici giorni.
«Ti racconto tutto. Piperno…».
Vedi che ha ragione Pace? Perché citi Piperno e ignori Pace?
«Ma non lo ignoro. Pace l’ho sempre citato in tutte le mie deposizioni. Vai a rileggere i resoconti della Commissione stragi».
Che cosa ti diceva Pace?
«Pace era l’uomo taciturno. Stava lì, ma non diceva niente. Era Piperno che parlava. Chi conosce Piperno sa che non fa mai parlare nessuno».
Dodici incontri come dice Pace?
«Tre o quattro nell’arco di 15 giorni».
Nell’appartamento di Jimmy Hazan, brasseur d’affari dell’Iri.
«Io chiesi all’architetto Piero Moroni di trovarmi una casa riservata. E lui trovò quella di Hazan, vicino a via del Corso. Ma la prima volta ci incontrammo a casa di Livio Zanetti, l’allora direttore dell’Espresso. Era stato lui il tramite. Mi aveva detto: “Piperno vorrebbe parlare con voi. Ha visto quello che state facendo, lo ritiene interessante…”».
Che cosa stavate facendo?
«Io e Craxi ci eravamo resi conto che il governo era totalmente inattivo sul caso Moro».
Volevate aprisse una trattativa?
«Volevamo che facesse qualcosa. Per due ragioni, una umanitaria e una politica».
Vediamo quella politica.
«Il venir meno dello schema della solidarietà nazionale, del quale Moro era protagonista fondamentale, significava ritornare alla contrapposizione democristiani-comunisti in cui noi rimanevamo schiacciati».
A questo punto Pace e Piperno vi cercano.
«Appunto. Diciamo che ci siamo trovati».
Pensavate veramente che fosse possibile arrivare alle Br?
«No».
Pace mi ha detto: «Era facile. Tutti nel movimento sapevano…».
«Noi decidemmo di provarci perché pensavamo che fosse possibile salvarlo. E ci siamo andati vicinissimi. “Nelle Br alcuni stanno aspettando qualcosa e questo qualcosa o glielo diamo noi o facciamo in modo che qualcuno glielo dia”, dissi a Craxi. La domanda che facevo continuamente a Piperno era: “Chi deve parlare e per dire che cosa?”».
La risposta?
«La risposta fu: “Deve parlare la Dc o un suo leader indiscusso”. E io convinsi Fanfani a fare una dichiarazione di apertura».
Adriana Faranda mi ha detto che Moro fu ucciso in fretta e furia perché qualche brigatista pensò che la dichiarazione che avrebbe fatto Fanfani avrebbe spaccato le Br.
«Ha ragione. Ma il problema è: come facevano le Br a sapere che Fanfani avrebbe fatto una dichiarazione? Io sono un testimone diretto. Ero andato a trovare Fanfani al Senato. Fanfani mi aveva detto: “Va bene, parlerò in direzione”. Era tutto pronto. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone aveva dato la sua disponibilità a concedere la grazia a un brigatista».
Ne sei sicuro?
«Ero il cucitore di tutto in questa vicenda. Leone mi disse: “Ho la penna in mano per firmare la grazia”».
Che cosa avrebbe detto Fanfani?
«Avrebbe detto: “Dobbiamo prendere in seria considerazione le ragioni dell’atto umanitario”. Una frase forte. A questo punto ho fatto un errore che non mi perdono. Dovevo costringere Fanfani a parlare subito. Invece lui insistette per farlo in direzione, il giorno dopo. Ne parlai con Craxi dal telefono della macchina. La mattina ci fecero trovare il cadavere di Moro. E ancora oggi mi chiedo: “Perché venne ucciso proprio la mattina del giorno in cui Fanfani avrebbe parlato?”».
Risponde la Faranda. Perché la dichiarazione di Fanfani li avrebbe messi in difficoltà.
«Esatto. E come facevano a sapere che Fanfani avrebbe parlato? Lo sapevamo solo in quattro: io, Craxi, Fanfani, Leone. La mia telefonata a Craxi è stata intercettata? Da chi? Dai servizi deviati? Io non lo so. Ma non posso pensare che il rapimento di Moro non interessasse ai servizi segreti di tutto il mondo».
Come ti spieghi che nessuno pedinò mai Pace e Piperno?
«Non me lo spiego, perché ero pedinato io stesso. E tutti i miei telefoni erano sotto controllo, come ho saputo dopo, da un’indiscrezione di un personaggio di cui non voglio fare il nome».
Pace e Piperno vi dicevano che incontravano le Br?
«No. Loro usavano il termine tam-tam… i segnali di fumo…».
Era una frottola.
«Guarda, ti dico una cosa che susciterà anche qualche polemica. Conoscendo Piperno penso che lui fosse convinto di poter governare le cose. Franco è molto ambizioso e autoreferente. Credeva di poter gestire le contraddizioni all’interno delle Br orientandole verso uno sbocco politico, la scarcerazione di Moro. Piperno non faceva un’operazione umanitaria bensì politica all’interno dell’area dell’Autonomia…».
Ma perché non l’hanno pedinato?
«Non hanno voluto farlo. Era una scelta programmata di inefficienza. Non veniva pedinato nessuno. Non posso pensare che fossero tutti imbecilli nei posti che contavano».
Insomma, non sei voltagabbana. Lo dirò a Pace. Ma voltagabbana per te ha connotazione negativa?
«Voltagabbana è chi, per convenienza, fa una cosa in cui non crede. Quando c’è un’ondata nuova molti mantengono le loro idee ma si adeguano. Molti miei compagni socialisti mi dicono che sono rimasti socialisti. Ma poi li trovo dovunque. Li devo chiamare voltagabbana?».
Sì. E tutti quelli che avevano la doppia facciata: fedeli servitori dello Stato e iscritti alla loggia segreta P2?
«Alcuni personaggi che poi si sono rivelati della P2 li abbiamo messi proprio noi ai vertici dello Stato».
Noi chi?
«Noi, noi,anche noi socialisti!».
E lo dici così!
«Eravamo inconsapevoli e circondati. C’era una contaminazione tremenda».
Il generale Giudice lo mettesti tu a capo della Finanza?
«Sì, su segnalazione di Pecchioli».
E Pecchioli era della P2?
«Ma no! Però anche lui era circondato. Chissà chi gli aveva fatto il nome del generale Giudice. La P2 aveva infiltrato tutti».
Aveva infiltrato soprattutto voi. Vanni Nisticò, il vostro capo ufficio stampa, era della P2.
«Appunto. Pensa che il primo incontro fra me, Craxi, Berlinguer e Chiaromonte, che avrebbe dovuto segnare il disgelo fra Psi e Pci, incontro segretissimo, avvenne nella casa di via Giulia di Vanni Nisticò».
In una casa della P2?
«E pensi che Nisticò non avesse informato Gelli dell’incontro?».
Vi eravate messi una spia in casa.
«D’altra parte la P2 aveva infiltrato anche il Pci».
Veramente?
«Ricordo che uno dei collaboratori di Berlinguer, anche se di basso livello, era nella lista».
Quando tu leggesti nell’elenco della P2 i nomi dei socialisti che cosa pensasti?
«Chi? Cicchitto e Manca?».
Per carità! Manca è stato assolto. Manca non è mai stato della P2. Manca querela.
«Io ero amico di Cicchitto. Mi disse che si era iscritto per paura. Era un momento di scontro selvaggio nel partito. Ci fu una lotta durissima. Io stesso ero stato attaccato sul terreno dell’Eni-Petromin».
Tu sei stato coinvolto anche in Mani Pulite…
«Due processi, assolto in tutti e due. La Procura che non ha fatto nemmeno appello. Tutto però è durato otto anni nei quali io doverosamente mi sono messo fuori».
Sei rimasto socialista?
«Certo».
E gli altri?
«Cicchitto ha scelto Forza Italia, scelta che non condivido, però l’ha fatta convinto e per primo. De Michelis e Martelli hanno tentato di rimettere in piedi un partitino. Formica ha fatto come me, si è defilato. Manca è presidente dell’Isim, un istituto di informatica, no-profit, credo finanziato dal governo o dalla Rai. Valdo Spini è andato nei Ds. Mancini è rimasto nelle autonomie locali, ha fatto il sindaco di Cosenza».
Craxi dove starebbe ora se fosse vivo e vivesse in Italia?
«Non nel centro-destra. Non avrebbe mai lasciato ai Ds la rappresentanza della sinistra».
Tu sei pugliese di origine…
«Famiglia borghese di Bari. Elementari e medie a Bari. Liceo a Taranto. Università a Roma, con Federico Chabod e Rosario Romeo».
Ricordi?
«La Taranto pre-industriale. Deliziosa città di provincia. Senza Italsider e con la flotta, quindi vivibilissima. Ricordo le gite in barca a vela fino alle isole Cheradi, dove è sepolto l’autore delle Liaisons dangereuses, Choderlos de Laclos. Suonavamo la chitarra nella pineta, ballavamo fino all’alba sulla terrazza del circolo ufficiali della Marina, leggevamo Nietzsche alla biblioteca sul mare. Tramonti incredibili».
Ricordi gli amici?
«Mario Guadagnolo, che è diventato sindaco, Roberto Traverso, che è diventato consigliere regionale, Gaetano Minervini, che è diventato procuratore della Repubblica, Gino De Marzo che è diventato direttore delle acciaierie.
I miti? Le canzoni?
«Platters e Frank Sinatra. E i Four Aces, praticamente sconosciuti in Italia».
La tua canzone?
«The soldier’s blues, tratta dal film Da qui all’eternità».
Il primo amore?
«A 13 anni, Katia, una passione estiva. Poi Maria Luisa con la quale ebbi una storia molto bella».
L’impegno?
«Azione cattolica e San Vincenzo. Poi, persa la fede, la dimensione laica. Quando ti rendi conto che combattere per fare un asilo nido non ti risolve niente, scopri la politica. E diventi socialista».
Perché socialista?
«La mia generazione era indifferente tra socialisti e comunisti. Era la sinistra. Il mio primo comizio lo feci a Roccanova, in un fienile che era insieme sezione della Cgil, del Psi e del Pci. La scelta socialista la feci dopo l’Ungheria».
E all’università?
«Tutti i grandi sono passati dalla politica universitaria. Craxi, Occhetto, Pannella… tutti…».
È vero che i comunisti facevano brogli alle elezioni?
«Li facevamo tutti. E alla fine i brogli si compensavano».
Più tardi fosti l’artefice della svolta del Midas.
«È vero. Fui io che determinai gli schieramenti».
Poi lo scontro con Craxi, hai perso, e sei diventato ministro.
«Nel Psi quelli che perdevano diventavano sempre ministri».
Chi sono stati tuoi nemici politici?
«Nemico mai, ma avversario Craxi»
Altri scontri grossi?
«Tanti, seri, severi con Formica».
La storia del mazzettone Eni di cento miliardi la tirarono fuori lui e Craxi…
«Craxi o Formica la utilizzarono. In quel momento io dovevo essere ridimensionato. Dal loro punto di vista li capisco. Anche se non c’entravo per niente. Ma lo sapevi che quella fu la prima mazzetta destinata dai Paesi arabi al finanziamento dell’Olp?».
Mi stai dicendo che la pasticca avvelenata arriva per te dal Mossad?
«E beh…».
In una intervista a Giuliano Zincone proponesti la ufficializzazione delle tangenti. Il due per cento. A bilancio.
«La politica ha dei costi che qualcuno deve pure pagare. Il sistema delle tangenti aveva una sua motivazione nobile. Come credi che si siano poste le basi dello strappo del Pci dall’Unione Sovietica e dell’autonomia della Dc dall’America? Fu nel 1974 che cominciò un’operazione, della quale io ero consapevole, che costituiva una sorta di cassa di compensazione intorno all’Anas, al sistema dei lavori pubblici, per consentire ai partiti di mantenere una autonomia economica dalle potenze straniere. Poi il sistema degenerò».
Per ingordigia?
«No, perché fu fatta una legge sbagliata che garantiva ai partiti solo il 30 per cento del loro fabbisogno. Il risultato era che noi alla Camera approvavamo consapevolmente dei bilanci falsi».
E lo scandalo Rocco Trane? L’aeroporto di Venezia.
«Fu una cosa veramente assurda, un regalo dei Dc…».
Rocco Trane era un tuo collaboratore…
«Sì…».
Trane fu condannato…
«Una condanna ingiusta…».
Un sindacalista di Brindisi disse che Rocco Trane era un martire del socialismo come Matteotti.
«Questo mi pare un po’ troppo».
Ti accusano di avere assunto mille invalidi nel periodo in cui hai fatto il ministro dei Trasporti.
«E che accusa è? Era un obbligo di legge».
Hai fatto emettere 137 mila biglietti di favore…
«Ma figurati! Senti, mio figlio pagava, mia moglie pagava. Io ero molto attento a queste cose».
Non fermavi i treni per far salire i tuoi figli come fece Scognamiglio?
«Quello fu solo un atto di superficialità».
Come vivi adesso che non sei più parlamentare?
«Faccio l’editore e poi sono un ricco pensionato che guadagna 12 milioni netti al mese. Che non è poco».
Torniamo ai voltagabbana.
«A volte mi chiedo: i dirigenti del vecchio Pci credono realmente nella svolta che hanno fatto o sono dei comunisti entrati nella clandestinità? Capisci?».
No.
«Veltroni che dichiara il suo anticomunismo, D’Alema il suo federalismo. La Bolognina è stata una farsa, non una svolta. Veltroni è un caso tipico di modesta cultura. Ha sostituito l’egemonia, discutibile, ma pensiero forte, con una cultura del pensiero debole. D’Alema federalista è un caso di opportunismo politico. Dico D’Alema ma potrei dirne altri. Violante, più di D’Alema».
Tra i craxiani?
«Facciamo un nome?».
Facciamolo.
«Giuliano Amato. Puoi differenziarti politicamente. Ma non puoi rinnegare il rapporto umano, affettivo, personale. Questo vale anche per altre persone».
Tipo?
«Giorgio Benvenuto ad esempio. Che fine hanno fatto gli affetti e il rispetto umano?».
Chi cambia idea va sempre dove c’è il potere?
«Non sempre. Riccardo Lombardi fece molti cambiamenti. Ma riusciva a collocarsi sempre dalla parte perdente».
Come Mastella, poveretto. Soffre di essere andato con i vincenti che si sono rivelati perdenti.
«Mastella recupererà. Da qui a un anno sarà già dall’altra parte. I suoi deputati vanno già dicendo: preparatevi che fra sei mesi siamo col Polo. Vedrai: lo faranno il più vicino possibile ad amministrative importanti».
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