- 3 Novembre 2005
Ve lo immaginate Giampiero Mughini seduto su una panchina con un plaid sulle gambe che ripete: «Io una volta ero un giornalista famoso e temuto?». Orrrrrendo. Eppure si era sparsa questa voce: Mughini è andato in pensione. Mughini smentisce piuttosto seccato. Narciso com’è, lo infastidisce l’idea di essere considerato un nonnetto, lui che si accapiglia ancora in mille polemiche, lui che pensa ancora alle belle ragazze. Eppure una certa età ce l’ha. E allora vado a chiedergli che cosa si prova ad invecchiare. Si tirano i remi in barca? Si diventa prudenti e saggi? Oppure si diventa cattivi, insopportabili e intolleranti? Quanti anni hai Giampiero Mughini?
«Ma che stai scherzando? Che cominci così l’intervista? Sei pazzo? Ma non farle nemmeno per scherzo domande del genere. Chiedimi scusa».
Ho capito, si diventa intolleranti. Scusa. Ma perché sei andato in pensione?
«Io non sono andato in pensione. Mi sono solo dimesso da Panorama».
E perché ti sei dimesso da Panorama?
«Il mio rapporto con Panorama era morto e stramorto da almeno cinque anni».
Con Claudio Rinaldi andavi d’accordo?
«Gli anni di Rinaldi sono stati straordinari. Poi è successo quello che ho definito l’equivalente del bombardamento di Dresda, il fatto che il nuovo editore-proprietario di Panorama diventasse un leader politico».
Mi sembrava che ti piacesse Silvio Berlusconi.
«Sul piano personale ho simpatia per lui. Ma era inimmaginabile che un newsmagazine, non un giornale corsaro come il Foglio, fosse posseduto e dunque marchiato da uno dei capi politici del Paese».
E se fosse stato marchiato da Prodi?
«Da Prodi, da Bossi o da Scalfarotto sarebbe stato una Dresda comunque».
Come ti sei trovato con i direttori successivi?
«Andrea Monti è stato molto bravo nel barcamenarsi cercando di mantenere al giornale una parvenza di indipendenza. Tanto è vero che per le elezioni del 1994 mi affidò una rubrica di cui ancora gli sono grato: “Né di qua né di là”. Con lui Panorama era ancora un grande giornale. Poi è venuto Giuliano Ferrara».
Il tuo amico Ferrara.
«Giuliano si secca quando gli dico che Panorama non era la sua creatura. Panorama è una nave molto pesante e complessa. Lui curava solo le cose che gli piacevano. La forza di Giuliano è la sua fazione, la sua intelligenza battente. Tu non puoi trasformare Panorama nel Foglio a colori. Panorama non era la sua giusta arma».
Poi è venuto Nini Briglia.
«È stato un bravissimo direttore. Ha capito che quel giornale che si chiamava Panorama era morto, che l’Italia alla quale si rivolgeva Panorama era morta, che il pubblico che lo comprava una volta non c’era più. Era un altro mondo, il mondo degli spot pubblicitari, il mondo della televisione, e lui trasformò dall’interno Panorama facendolo diventare una sorta di catalogo centocose a disposizione del pubblico medio. È stato bravissimo. Si parla poco di Nini Briglia. Io lo considero un personaggio balzacchiano da raccontare in un romanzo: l’ex capo del servizio d’ordine milanese di Lotta Continua, uno di quelli che sanno da chi è stato ucciso il commissario Calabresi, divenuto un grande manager del gruppo editoriale berlusconiano».
Usciamo dall’equivoco, ti piace o non ti piace?
«Il nostro rapporto finì con un reciproco “vaffa” via fax. Nella distanza più totale da lui, conservo un giudizio di grande stima. Carlo Rossella, che è venuto dopo di lui, è certamente un giornalista colto, come non ce ne sono tanti. È un fine raccontatore, ha una bella scrittura, moderna, ne sa di tante cose, ha viaggiato dappertutto. Però Dio, quando lo ha creato, si è dimenticato di mettergli la tempra morale».
Sembri il cavaliere senza macchia e senza paura che combatte contro tutto e contro tutti.
«A me Rossella ne ha fatta una che non gli perdonerò finché campo. Ti ricordi Michelle Bonev? Era una bella ragazza bulgara che aveva affascinato Agostino Saccà a quel tempo gran capo Rai. L’aveva addirittura scritturata come coconduttrice del dopo festival di Sanremo. Dopo un paio di anni Rossella mi avvertì che Michelle stava per pubblicare un libro da Mondadori e mi chiese di farci un pezzo. Io lessi da cima a fondo il libro, una porcata inaudita, incontrai la ragazza e la trovai molto simpatica, una tipica ragazza dell’Est, di ferro, di quelle che se si scontrano con un carro armato lo abbattono. Scrissi un pezzo equilibratissimo, con mano maestra, con la giusta dose di ironia, ma assolutamente corretto e non offensivo nei confronti della ragazza. Rossella, a mia insaputa, cambiò totalmente il pezzo, trasformando Michelle in una sintesi tra una Yourcenar e una Sarfatti. Lasciando la mia firma. Non glielo perdonerò mai».
Poi Rossella è andato via.
«Ed è arrivato questo gruppo dirigente. Di questo non farmi parlare. Anche senza lo stipendio di Panorama riesco a mangiare ugualmente. Ho dato le dimissioni. Un accordo fra gentiluomini grazie alla squisita gentilezza del capo del personale Pierdomenico Bertolotto».
E adesso?
«Sono disoccupato. Attualmente scrivo, dietro compenso di 125 euro a botta, una rubrichina che si chiama “Uffa”, sul Foglio».
Una scelta coraggiosa alla tua età. A proposito, quanti anni hai?
«Ma tu non puoi rompermi le balle, non puoi rovinare i miei rapporti con le diciassettenni».
È inutile negarlo. Sei invecchiato. È cambiato qualcosa nella tua vita?
«Mi vedi come uno che si è messo le pantofole?»
Intendevo il coté psicologico. Sei diventato più saggio? Più cattivo? Più audace? Sei ormai nell’autunno della vita.
«Vuoi che non sappia che le mie tempie si sono brizzolate e che se incontro una diciottenne lei pensa che io non esista? Certo, mi sono fatto una visione ancora più pessimistica della vita. Ho sostituito le persone con gli oggetti. Il gruppo dei miei amici si è ridotto alla metà delle dita di una mano. I Ripa di Meana, l’antiquario romano Enrico Camponi, Barbara Palombelli e forse ho finito lì».
Una volta mi avevi detto Fiamma Satta.
«Adesso Fiamma c’è un po’ di meno».
Si cambiano i giudizi.
«Cadono le foglie dall’albero. I rapporti di amicizia e di amore hanno durata breve. Ultimamente mi sono perso tre o quattro amiche. Queste donne moderne sono troppo difficili. A un’amica una volta ho detto: “Cara, ti avrò invitato a cena a casa mia venti volte e tu non lo hai fatto mai”. E lei mi ha risposto: “Non cucino dal 1982”».
Non frequenti casalinghe.
«È una che scrive libri ma anche io scrivo libri. Poi alle otto smetto di scrivere libri, vado in cucina e sono felice di mettere in tavola un piatto per amici ed amiche».
Tu mi dicesti: «Se uno non va a una festa di Briatore non esiste in Italia».
«Debbo ricredermi. Tutto sommato Briatore è più simpatico di altri. Non ha mai letto un libro in vita sua? Non che ci fosse bisogno. Anche molti direttori di giornali non hanno mai letto un libro nella loro vita. Non lo ammettono, anzi dicono: “Sto rileggendo Guerra e Pace”. I direttori dei giornali non leggono, rileggono».
Insomma, Briatore…
«Briatore non mi è antipatico. Nessuno lo esalta come veniva esaltata la Ferrari quando vinceva. Detto questo non andrò mai alle sue feste e nemmeno nel suo locale dove una bottiglia di champagne si paga 400 euro».
Insomma, invecchiando…
«Si diventa peggiori, si inacidisce. Oggi sono arrivato a un livello di cupezza forse eccessivo».
Paolo Guzzanti, secondo te, era autore di «lenzuolate polemiche a favore di Berlusconi… ripugnanti stronzate». È migliorato il tuo giudizio?
«Paolo è uno che fa del male a se stesso. Come molti di quelli che sono passati dal settarismo di sinistra alla devozione filoberlusconiana».
Per chi voterai?
«Non ho quasi mai votato in questi ultimi dieci anni. Tutto ciò che è la politica dei partiti mi è più lontano del Polo Nord».
Quanti anni hai?
«Non rompere».
L’ultima volta che abbiamo parlato insieme mi dicesti che la sinistra ti trascurava.
«Non è cambiato nulla. I miei libri, la cosa cui tengo di più, non hanno mai l’onore di una citazione su Repubblica o l’Unità. Io sono un lebbroso il cui nome è tuttora impronunciabile».
Caso Sofri: dieci persone in Italia sanno chi è stato ad uccidere Calabresi, mi hai detto nel 2001.
«Ricorderai gli insulti che mi sono preso. Poi Erri De Luca ha detto: liberate Sofri e ve lo diremo. Erri è uno dei dieci che lo sa perché era il capo del servizio d’ordine romano di Lotta Continua. Io considero sterco gli autori di quegli insulti. C’è stato un momento che a rappresentare le sacrosante ragioni di Adriano Sofri fu Antonio Tabucchi, patetico maître à penser che si rivolse minacciosamente a Ciampi dicendo che bisognava liberarlo perché lo voleva lui. Se ti fai rappresentare da quelli lì ti fai solo del male. Adriano questo lo sa. Sofri è molto migliore del sofrismo».
Uscirà se l’Ulivo vincerà le elezioni?
«Non ce ne sarebbe bisogno. Nello schieramento del centro destra, a cominciare da Berlusconi, sono tutti favorevoli alla grazia. Ma c’è un Ghino di Tacco, il ministro della Giustizia leghista Castelli, che esercita l’arma del ricatto politico opponendosi alla sua liberazione per difendere la quota di malloppo della Lega».
Nelle mie interviste molti parlano male di te. Antonio Pennacchi ha detto che sei il più grande adulatore sulla scena televisivo-sportiva. Come Mosca, come Biscardi.
«Pennacchi è molto simpatico ma non tanto attendibile. Mi ha chiesto scusa».
Claudio Amendola mi ha detto che il tifo annebbia la tua mente, che mortifichi la tua intelligenza con la faziosità juventina.
«Poveraccio. Non credo che abbia un’assidua frequentazione con i libri, comunque vorrei ricordargli che il libro che ho scritto sulla Juventus era dedicato “alla memoria dell’avvocato Peppino Prisco, amico e rivale indimenticabile, lui che aveva un altro sogno”. Questa è la sintesi filosofica della mia idea dello sport. Io non sono un tifoso ma uno che ama lo sport».
Serena Dandini…
«È stata la più insultante. La maestrina, il capocondominio della “sinistra de’ risate”. Riferendosi a me ha detto: “Quello di cui non ricordo il nome che sta a Controcampo”. Al tempo in cui aveva debuttato con la tv delle ragazze io scrissi, per Panorama, un commento elogiativo nei loro confronti quando ancora nessuno lo faceva. La maestrina quindi il mio nome se lo ricordava. A parte il fatto che in qualsiasi libreria italiana libri firmati con il mio nome ne avrebbe trovati più di quanti ce ne sono in totale nella sua biblioteca».
Sei proprio narciso.
«Quando mi guardo allo specchio la mattina mi piaccio molto».
Chi non ricorda il tuo nome ti offende più di chi ti insulta.
«Era una battuta velenosa e sciocca».
Diceva anche che ti vesti da televisione.
«Cosa posso dire di fronte a una idiozia del genere? Io mi vesto cercando di esprimere un gusto, una sensibilità, una stravaganza. E devo accettare questo da una che se non ci fosse la tv farebbe la commessa alla libreria Rinascita? Del resto io sono orgogliosissimo delle giacche di Yamamoto che indosso. E a questo proposito vorrei ricordare Massimo Bertarelli del Giornale che una volta ha scritto di me: “Il sarto di Mughini sta patteggiando la pena che gli spetta per come lo veste”. Vorrei ricordare anche a lui che non ho alcun sarto ma ho degli stilisti preferiti e fra questi Yamamoto su tutti. Proprio nei giorni in cui lui scriveva queste stronzate Firenze stava celebrando Yamamoto con una grande mostra a Palazzo Pitti».
Hai fatto, molto tempo fa, una famosa trasmissione televisiva in cui sdoganasti i fascisti.
«Si chiamava Nero è bello. Loro, i fascisti, erano molto sospettosi. Almirante si rifiutò di incontrarmi. Rauti mi concesse l’intervista ma poi mi diffidò dal trasmetterla. Scoprii che alcuni di loro amavano i film di Moretti, leggevano i libri che leggevo io, erano ragazzi adorabili, nel senso del disinteresse politico intellettuale e della generosità. Con molti, Umberto Croppi, Stenio Solinas, Marco Tarchi, Gennaro Malgieri, siamo rimasti amici».
Sei stato il primo a parlarne come fossero persone normali.
«Mi dovrebbero dare la medaglia d’oro. Ma sì, ho sempre avuto ragione. Penso di essere maturo per la nomina a senatore a vita».
L’autostima non ti manca.
«Non penso di essere Napoleone. So di essere Mughini e mi strabasta».
Quanti anni hai che non mi ricordo più?
«Va a quel paese. Ho avuto ragione quando ho fatto lo studente di estrema sinistra libertario. Ho avuto ragione quando mi sono dimesso da Paese Sera e dal Manifesto. Ho avuto ragione quando ho detto che i terroristi rossi erano dei bastardi anche se erano nostri fratelli consanguinei».
I tuoi colleghi sono migliori di una volta?
«Oggi ci sono venti firme eccellenti. Quando leggi un pezzo di Cazzullo non c’è una volta che ti deluda. È come Pessotto della Juventus. Non l’ho mai visto giocare male. Potrei fare anche altri nomi. Pensa a Roberto D’Agostino e al suo Dagospia. È uno dei più grandi giornalisti italiani del momento».
La televisione? Migliora o peggiora?
«Per la televisione c’è motivo di allarme. Ma è da idioti scrivere articoli contro l’Isola dei famosi. Quel 40 per cento di italiani che guarda i reality ci vorrebbe l’intervento delle forze armate per smuoverlo. La tv è fatta della sua realtà, di un pubblico reale che quella sera non va al cinema, non esce con una bella ragazza, non va a teatro, non legge un libro e quindi deliba la saga della famiglia Albano-Lecciso».
Sulla telenovela di Cellino San Marco come ti poni?
«Tanto di cappello alla Lecciso. Una senza arte né parte che è andata alle stelle».
Il motivo del successo?
«Lo sfrenato guardonismo dei telespettatori. Uno vuole guardare le lacrime della simil-attrice Loredana Lecciso, una rispetto alla quale Greta Garbo non era nessuno. Ho visto le sue lacrime, un attimo…».
Ma allora guardi la tv.
«Un attimo. A me la tv piace farla ma non la guardo mai. E trovo ridicolo parlarne. Le discussioni sulla televisione sono talvolta peggio della televisione stessa. La critica televisiva è peggio del programma di cui si occupa. I più cretini di tutti sono quegli intellettualini che ogni tanto dicono: “Spegniamo la televisione, io non vedo mai la tv”».
Ma è quello che dici tu.
«Non mi sono affacciato al balcone di piazza Venezia per dirlo. Ho risposto a una tua domanda».
Il gioco della torre…
«Non se ne parla nemmeno. Io parlo bene di tutti».
Anche di Travaglio?
«Ho un’irresistibile simpatia per Marco. È l’ultimo dei montanelliani. Un ragazzo indipendente. Purtroppo vede tutto dal punto di vista accusatorio. A lui interessa l’accusa non il personaggio. E preferisce usare il bastone piuttosto che il fioretto».
Come per esempio con Floris.
«Accusa Floris di non fare il Santoro, il giacobino con ghigliottina inclusa. Roba da pazzi. Ma sul piano personale è delizioso».
I fratelli Guzzanti?
«Ragazzi di grande talento. Corrado un talento eccezionale, mostruoso. Ma non dovrebbero diventare dei comizianti. Sono attratti come magneti dal mondo della “lobby de’ risate”».
Se la prendono un po’ con tutti, da Petruccioli all’Annunziata.
«Prendono il bastone e picchiano».
Grillini, Ruini, i Pacs…
«Io frequento il mondo dell’antiquariato e quello della moda. Ce ne sono tanti di gay. Non sono persone di serie B e bisogna dargli la patente di serie A. Chiamalo matrimonio, fidanzamento, luna di miele, come vuoi. Ma il punto fondamentale è che sia un mondo in cui se uno dei due muore la pensione è reversibile. Ruini dica le sue cose ruinesche. Libera Chiesa in libero Stato».
Sei mai andato da Marzullo?
«Ho di Marzullo un’opinione alta. Non come quei buffoni che ne parlano male ma ci sono andati tutti. Contrariamente alle sciocchezze che dicono, le domande marzulliane sono ottime, perché sono piane e permettono di elaborare la risposta. Marzullo è molto carino, sta lì ad aspettare il tuo racconto, la tua motivazione. Questi imbecilli che non sanno neppure da lontano chi è Karl Kraus trovano snob insultare Marzullo. Sono insopportabili».
La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?
«Guarda che non è una domanda così banale».
E allora rispondi.
«La vita è un sogno perché noi ci illudiamo in continuazione. Da ragazzo mi illudevo sulla classe operaia che avrebbe rovesciato il mondo, mi sono illuso di una ragazza dai capelli di rame. E, infine, mi sono illuso che scrivere servisse a qualcosa».
Io mi illudo perfino che servano a qualcosa le interviste.
«Senza le illusioni non si può vivere».
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