- 3 Giugno 2004
Lo chiamavano il banchiere rosso, Nerio Nesi. Pur essendo un manager affermato, era notoriamente di sinistra. Socialista lombardiano. Nel ’96 venne perfino eletto nelle liste di Rifondazione che più a sinistra non si può. È stato presidente della Banca Nazionale del Lavoro, ha lavorato alla Rai di Torino, all’Olivetti del mitico Adriano. È stato ministro dei Lavori Pubblici. Era uno di quelli che si chiamano «boiardi di Stato», ma affezionato alla bandiera rossa. Ci tiene a dire che è l’unico Cavaliere del Lavoro di sinistra. Per salvare il centro-sinistra ha partecipato alla scissione dei cossuttiani.
Oggi ha abbandonato anche i Comunisti italiani.
Nesi, trovi il bandolo della matassa della sua vita.
«La mia autobiografia si chiamava Banchiere di complemento. Il libro che sto scrivendo, Ministro di complemento».
Un uomo di complemento.
«Il caso, la divina provvidenza, la consapevolezza della insicurezza, della instabilità, la precarietà. Questa è la mia vita».
Meglio le ovattate stanze dell’establishment o le osterie con quei barboni dei comunisti?
«Vengo da una famiglia proletaria. Mio padre era un operaio specializzato. Ma la sera toglieva la tuta, si metteva giacca e cravatta e andava al Comunale a sentire Wagner. Io ero uno dei pochissimi di Corticella, il quartiere più povero di Bologna, che andasse al classico. Ho frequentato i figli della borghesia bolognese».
C’era il fascismo.
«Avevo una vaga idea di che cosa fosse. Un giorno mi dettero come tema "La
più grande invenzione". Io scrissi che la più grande invenzione erano i tortellini in brodo. Successe il finimondo. Cominciai a capire ciò che stava succedendo quando al mio compagno di banco, Bonfiglioli, venne vietata la scuola perché ebreo».
Lei era bravo a scuola?
«Dovevo esserlo per forza. Con la media dell’otto non si pagavano le tasse».
Le sue passioni?
«Calcio e ciclismo. Binda, Guerra, Biavati».
Quello che faceva il passo doppio?
«Proprio lui. Anni dopo, uscendo da una riunione, dissi ad Antonio Giolitti, ministro del Bilancio: "Ti faccio il passo doppio di Biavati". Sono caduto su uno spigolo e mi sono spaccato il ginocchio».
Amori?
«Zelinda Resca. Alla fine della guerra scoprii che era diventata una eroica staffetta partigiana, nome di battaglia Lulù. La incontrai improvvisamente in piazza a Bologna con due epistoloni ai fianchi. Bellissimi fianchi».
Il primo partito fu la Dc.
«A Corticella il Pci aveva il 58 per cento, il Psi il 25. Iscriversi ai giovani dc fu un segnale di libertà. Dalla Dc mi cacciarono quando andai in Urss insieme a Berlinguer con una delegazione di comunisti».
Tentazione di iscriversi al Pci?
«Ebbi fortissime pressioni da Berlinguer, con il quale nel frattempo eravamo diventati amici. Un’amicizia durata tre anni. Mia madre ricordava sempre che gli aveva rammendato i calzini. Rompemmo sui rapporti con l’Unione Sovietica».
Nel Psi arrivò dall’alto. Presentandosi a Riccardo Lombardi.
«Un mio vecchio professore e maestro di vita, Edoardo Volterra, mi disse che due uomini potevano diventare miei punti di riferimento: Vittorio Foa o Riccardo Lombardi. Lessi diligentemente tutto ciò che avevano scritto e scelsi Lombardi».
Come diventò banchiere?
«Il segretario della federazione del Psi di Torino, Marco Caneparo, mi telefonò: "C’è una carica che spetta al Psi, vicepresidente della Cassa di Risparmio di Torino, ma non interessa a nessuno dei nostri. Accettai. Presidente era il conte Edoardo Calleri di Sala, capo dei dorotei di Torino, personaggio duro e arrogante. Al primo consiglio di amministrazione disse al cancelliere:"Metta a verbale che il dottor Nesi può comandare solo in due casi: se io muoio o se sono all’estero senza telefono. Non ho alcun tipo di soggezione nei confronti degli intellettuali"».
Un buon inizio direi.
«Calleri era laureato in odontoiatria. Io risposi: "Metta a verbale anche che io non ho nessuna soggezione dei dentisti"».
Nel frattempo faceva carriera politica.
«Creai l’ufficio Credito e Assicurazione del Psi».
Distribuiva cariche.
«Facevo la politica del credito. Le cariche erano distribuite dalla segreteria del partito. E mi occupavo anche dei rapporti con i socialisti spagnoli in clandestinità».
Nel senso che portava loro i soldi del Psi.
«Questo non si può scrivere perché loro sono molto permalosi anche a distanza di tanti anni».
Craxi è morto esule o latitante?
«Sono sempre stato lombardiano. Quando Craxi mi invitava a lasciare la corrente della sinistra socialista, io gli rispondevo: "Mai finché è vivo Riccardo Lombardi"».
Ma è stato nominato presidente della Bnl da Craxi.
«Fu un accordo sul mio nome di Psi, Dc e Pci. In 11 anni di presidenza Craxi non mi ha mai chiesto niente».
Tranne finanziare con 300 miliardi Ligresti.
«Io non lo accontentai e lui divenne una belva».
Allora: esule o latitante?
«Latitante, latitante. Io mi rendo conto che doveva combattere su due fronti, contro Pci e Dc. E che aveva bisogno di mezzi finanziari. E non posso negare la sua grande passione politica. Ma non dimentico l’arroganza sfrenata, la supponenza, la presunzione e questo bisogno di sicurezza dato dal denaro».
Dietro il finanziamento ai partiti c’erano spesso casi di arricchimento personale.
«Non mi sono mai occupato di queste cose. Bettino mi rimproverava. Ricordo un incontro con lui, Martelli e De Michelis. Mi disse: "Il partito ha bisogno di finanze e tu non fai niente". Io risposi: "Non saprei da dove cominciare. Se vuoi mi dimetto subito". E lui: "Bene, scrivi una lettera di dimissioni". La scrissi e gliela diedi. Lui prese la lettera e la stracciò».
Puro teatro. Durante la recita che cosa dicevano De Michelis e Martelli?
«Zitti. Di fronte a lui nessuno parlava, neanche Amato. I despoti esistono perché esistono i sudditi».
Lei aveva coscienza della corruzione, dei finanziamenti illeciti, del denaro che girava?
«Sì. Scrissi una lettera a Formica in occasione del decreto di Craxi per salvare le tv di Berlusconi. Dicevo: ma come è possibile che ci si comporti così?».
A Bettino piaceva essere adulato?
«Al Congresso di Torino, che organizzai io, quando si alzò a parlare Riccardo Lombardi successe il finimondo. Tutti in piedi, anche i craxiani. Tutti urlavano: "Riccardo! Riccardo!". Mi emoziono ancora al ricordo. Craxi mi aggredì quasi fisicamente. Lo trattenne Larini. Bettino non poteva concepire che i suoi saltassero in piedi di fronte a un uomo vecchio e stanco che non contava più niente nel partito. Credeva che avessi organizzato tutto io».
Vorrei un nome di adulatore.
«Fabrizio Cicchitto. Era uno dei nostri. Quando scoprii il suo nome nell’elenco della P2, Lombardi lo chiamò in ufficio, me presente. Cicchitto si mise a piangere, fece una scena penosa: "L’ho fatto per paura, mi sento circondato"».
Lombardi era indignato. Ancora oggi alla Camera nessuno saluta Cicchitto.
«E lui, quando parla della sinistra, lo fa con astio. Sembra un prete spretato».
Perché è andato con Berlusconi?
«Non c’è altra ragione che la P2».
La sua Bnl era piena di piduisti. Possibile che lei non si fosse accorto di niente?
«Tutto era fatto in modo che il presidente non contasse nulla. Perfino il tavolo del consiglio di amministrazione sembrava creato per non far capire niente. Enorme, con scadenti apparecchiature foniche, non si sentiva nulla. Il direttore generale, piduista, parlava velocemente e a bassa voce. La gente votava senza capire».
Dopo lo scandalo P2, lo scandalo Atlanta. Si scoprì che una filiale della Bnl finanziava l’Iraq di Saddam Hussein in guerra con l’Iran. Possibile che anche in questo caso lei non sapesse nulla?
«Era stato tutto organizzato da quel direttore della filiale, che poi si scoprì essere un agente misto, della Cia e dell’Iraq».
Alla fine dovette dimettersi.
«Rimasi solo e impotente, abbandonato da tutti. Nemmeno Craxi mosse un dito».
E per reazione se ne andò anche dal Psi. Craxi come reagì?
«Craxi mi rispettava. Nessun fax, di quelli tremendi con i quali inondava l’Italia da Hammamet, mi ha mai riguardato. Erano per Amato, per Martelli».
Uscito dal Psi si dedicò a un’industria. Banchiere rosso, padrone rosso.
«Era una piccola fabbrica di dolci. Quindici dipendenti».
L’incontro con Bertinotti?
«Era ancora in Cgil quando mi chiamò per dirmi se lo aiutavo a buttar giù delle linee di politica economica. Poi divenne segretario di Rifondazione comunista».
E lei deputato.
«Chi ha fatto il presidente di una banca come la Bnl non è che perde la testa di fronte a un seggio di deputato».
Si presentò a Sarzana. Blindatissimo.
«I dirigenti di Sarzana mi dissero: "Dottor Nesi, se lei vuole venire a fare la campagna elettorale è graditissimo, ma se ha altre cose da fare non stia a perdere tempo. Lei sarà eletto"».
Luca Telese le ha fatto i conti in tasca e ha scoperto che guadagna cinquanta milioni al mese. Il Giornale ci è andato a nozze con la storia del comunista ricco.
«Il Presidente di una banca pubblica quando lascia l’incarico non ha né pensione né liquidazione. Oggi anche i più imbecilli degli amministratori delegati escono dalle banche con liquidazioni miliardarie».
Lei è comunista?
«Sono un uomo di sinistra».
In un partito comunista.
«Nella mia lettera di adesione a Prc scrissi che ero e sarei sempre stato lombardiano».
Ha aderito a un partito comunista dichiarando di non essere comunista.
«Mi attirava l’idea di poter essere il responsabile della politica economica del partito di Bertinotti».
Berlusconi dice che l’Italia è piena di comunisti.
«Non ce l’ha con noi. Per lui comunisti sono tutti quelli che gli danno torto. Fra un po’ lo dirà anche di Fini e della Lega, di tutti quelli che lo distolgono dal suo pensiero principale, il Milan».
Montanelli ha detto di lei che è «un nemico rispettabile», un «fondamentalista socialista».
«Non so che cosa volesse dire. Ho scritto nel mio testamento che al funerale voglio il tricolore, perché è la mia patria, e la bandiera rossa, senza stemmi, che vuol dire sinistra».
La patria?
«Ho sempre avuto amore per la patria. Ho anche partecipato alla parata militare del 2 giugno che l’estrema sinistra aveva chiesto a Ciampi di sospendere.»
Da Rifondazione lei se ne andò con Cossutta.
«Conosco bene Bertinotti, conosco la sua intelligenza, la sua cultura. Ma anche il suo straordinario narcisismo. Far cadere Prodi fu un danno per il Paese e per la classe lavoratrice. È stato uno dei momenti più brutti della mia vita. Ho rotto un’amicizia trentennale. Io e Bertinotti non ci siamo più salutati da allora».
Adesso lei se ne è andato anche dai Comunisti italiani. Marco Rizzo mi ha detto che lei ha sbagliato tutto.
«Rizzo ha fatto di tutto per trattenermi».
Faccio anche a lei la domanda che ho fatto a Rizzo, così ci becchiamo una volta di più l’accusa di comunismo-maschilismo. Chi è la più bella del Parlamento?
«Anna Finocchiaro, la diessina ex ministro per le Pari Opportunità. Ma non è soltanto un giudizio fisico».
Meno male, così ci salviamo. Gioco della torre. Cicchitto o De Michelis?
«Entrambi voltagabbana. Un socialista non può stare a destra. L’altra sera Claudio Signorile mi ha detto: "Insieme a De Michelis stiamo costituendo i Socialisti Uniti, tu cosa ne pensi?" Io gli ho detto: "Claudio, ma come puoi pensare che io possa stare con Berlusconi?"».
Signorile dice che non sta né con la destra né con la sinistra.
«Basta ascoltare i loro comizi per scoprire che non è vero».
Mimun o Mentana?
«Mentana, dipendente del primo ministro, si comporta più dignitosamente di Mimun che non è dipendente».
Ferdinando Adornato o Paolo Guzzanti?
«Butto Guzzanti. Dice sempre cose sgradevoli. Come quel prete. Come si chiama?
Baget Bozzo. Anche lui non dice mai una cosa gradevole».
Tranne quando parla di Berlusconi.
«Baget Bozzo ha anche la faccia dell’adulatore».
D’Alema o Veltroni?
«D’Alema è arrogante e presuntuoso».
Rullo di tamburi. Cossutta o Diliberto?
«Voglio un mese per pensarci».
Lei ha conosciuto Berlusconi?
«Una volta venne in Bnl col fratello per cercare di comprare un nostro palazzo. Fece anche lo spiritoso. "Compriamo questo palazzo o Maradona? Ah ah. Compriamo tutti e due". Io gli dissi: "Cavaliere, compri quello che vuole. Io sono juventino"».
Nessun commento.