- 6 Giugno 2002
Un clamoroso insuccesso. Il primo maggio, in piazza San Giovanni, cominciò a leggere le due cartelline del suo intervento e fu sommerso dai fischi. Luciano Pellicani, intellettuale, socialista riformista, grande teorico dell’anticomunismo craxiano, oratore per conto dello Sdi, il partito dei socialisti fedeli all’Ulivo, non era risultato molto gradito al popolo della sinistra. Come ai vecchi tempi, quando fra craxiani e berlingueriani erano scintille. Ma allora vivevano in fronti contrapposti. Oggi invece convivono nella stessa coalizione.
Pellicani, come fa a stare in una casa così inospitale?
«È dura. Ma ci sono molti amici che condividono le mie idee».
Molti?
«Pochi rispetto alla massa di coloro che mi rendono la casa inospitale. È una storia che comincia da lontano».
Lontano quanto?
«È l’ultimo capitolo di una vicenda che ha caratterizzato la sinistra in Italia dal 1912, quando i massimalisti conquistarono la maggioranza del Psi. A partire da allora i riformisti nella sinistra sono sempre stati in minoranza e i massimalisti sempre in maggioranza. I riformisti non hanno mai il consenso delle masse qui da noi».
Che cosa vogliono i massimalisti?
«I massimalisti non hanno nessun programma. Si limitano a contestare, ad opporsi ad ogni tentativo di modificare il sistema».
Risultato?
«La vittoria delle destre. C’è una costante. Il massimalismo vince nel partito e perde alle elezioni».
Fassino non sembra un massimalista.
«Ho simpatia per lui. È un riformista. E un socialista. Come Macaluso, Cervetti, Ranieri, Napolitano. Se fossero la maggioranza non avrei nessuna difficoltà a stare nel loro partito. Anzi mi troverei più a sinistra di loro».
Ma allora il problema qual è?
«È la base. Vive in un universo antecedente al crollo del Muro di Berlino».
Lei è un craxiano doc?
«Superdoc».
Più di Craxi?
«Si potrebbe sostenerlo».
Fu a lungo disprezzato dai comunisti.
«Molto».
Adesso i comunisti si professano socialisti. Ma lei si becca i fischi lo stesso.
«È il destino dei riformisti».
Quando il Psi è esploso, molti sono andati con Berlusconi sostenendo che quella è la casa dei socialisti. Lei ha avuto la tentazione?
«Mai. Uno può benissimo farlo. Ma non è più socialista. Punto e basta. Lo ha detto perfino Previti».
De Michelis ha cessato di essere socialista? Martelli pure? Bobo Craxi anche?».
«Senza alcun dubbio. Molti socialisti si sono spostati per opportunismo. Altri per risentimento».
Lei non ha risentimento?
«Ho una certa rabbia in corpo. Non posso perdonare al gruppo dirigente socialista di aver affogato nella corruzione le buone idee. Il riformismo aveva stravinto. Invece mi sono ritrovato nel partito più corrotto d’Italia».
Voi non ve ne accorgevate?
«Che girava denaro illegale lo sapevano tutti. Ma mica solo nel Psi! Nel Psi c’è stata anche l’ostentazione dell’opulenza. Non faccio nomi».
Li faccio io? De Michelis?
«Non mi voglio pronunciare».
Ci sono sentenze?
«Materiale della magistratura. Io non sentenzio».
E Craxi?
«Lo ha detto anche il giudice D’Ambrosio che Craxi non si è arricchito personalmente».
Quando il Primo Maggio sono arrivati i fischi, lei non ha pensato: «Ma chi me lo ha fatto fare?».
«Ero andato sapendo che avrei avuto i fischi. Quella era l’occasione per dire: “Guardate che a sinistra c’è anche una componente che non ritiene che questo sia il modo migliore di combattere la destra».
Cioè?
«Cioè parlare di fascismo, di regime, demonizzare gli avversari, aizzare l’odio».
Però certe cose indignano.
«Diceva Marshall McLuan che l’indignazione è una tecnica per dare dignità a un idiota. E Valery diceva che l’indignazione permanente è segno sicuro di bassezza morale».
Le sue origini sono comuniste.
«La mia famiglia era comunista. Mio padre si fece anche qualche anno di confino. Lo strappo è avvenuto nel 1956, con la rivolta ungherese. Avevo 17 anni. Abitavo a Napoli, con mia madre che si era separata».
Che cosa ricorda di Napoli?
«Che mi piaceva molto giocare a football e andare al cinema, western e polizieschi. Studiavo poco, leggevo molto. Volevo fare il regista. Mi laureai con una tesi su Gramsci. E mi convinsi che il comunismo non era una buona idea realizzata male. Era proprio un’idea sbagliata».
Dopo la laurea che cosa fece?
«Andai in Spagna. Ortega y Gasset diventò uno dei miei chiodi fissi. Poi in Francia dove mi innamorai della sociologia. Quindi tornai in Italia e andai a insegnare a Urbino».
Come si è imbattuto in Craxi?
«Era il 1976. Mi sentivo isolato. Erano diventati tutti rivoluzionari, marxisti, leninisti, gramsciani, marcusiani. Non trovavo un editore perché avevano tutti il terrore di pubblicare un libro che poteva essere considerato addirittura nazista».
Per chi votava?
«Per i socialisti. Malvolentieri, perché De Martino stava sacrificando il Psi sull’altare dell’incontro fra cattolici e comunisti. Senonché diventò segretario del partito Craxi. Lessi una sua intervista sull’Europeo e scoprii che citava un mio saggio su Bernstein. Andai a parlare con Craxi e scoprii che la pensava come me».
Cominciò un’amicizia?
«Una collaborazione. Craxi non l’ho mai frequentato. Ho pranzato con lui tre volte».
Che cosa faceva per il Psi?
«Quando mi chiedevano un intervento, io lo scrivevo».
Così nasce l’affaire Proudhon?
«Mi piace raccontare come andò veramente. Il giorno dell’inaugurazione della libreria di Mondo Operaio incontrai Craxi che mi chiese di scrivere un saggio su Socialismo e leninismo per un libro che l’internazionale socialista voleva dedicare a Willy Brandt. “Facile”, risposi. Sapevo quasi a memoria i 45 volumi di Lenin. Finora non ho trovato nessuno che abbia letto tutte le opere di Lenin. Questa è una delle ragioni per cui il comunismo ha fatto tante conquiste. Chi ha letto Lenin sa che la sua è una dottrina morbosa, quella del “ripulire la società dagli insetti nocivi”. Pulci, cimici, lo stesso lessico che Hitler usava per gli ebrei. C’è perfetta coincidenza tra l’universo morale di Hitler e quello di Lenin. I testi parlano chiaro».
Che cosa successe poi?
«Successe che Berlinguer, intervistato dalla Repubblica, se ne venne fuori parlando della “ricca lezione leniniana”. Io lessi e pensai: “Questo è pazzo”. Persona rispettabilissima Berlinguer, ma di Lenin aveva letto al massimo un bignamino».
E quindi?
«Livio Zanetti, direttore dell’Espresso, chiese a Craxi di rispondere. Ma Craxi stava partendo per Hammamet e non aveva tempo né voglia. Mandò il mio saggio a Zanetti e gli disse: “Pubblica questa. Più o meno è una risposta a Berlinguer”. Quel saggio conteneva una lunga citazione di Proudhon. Quando uscì fu veramente una bomba. Eugenio Scalfari aizzò i dirigenti del Psi. “Ma come, non reagite?”».
Qualcuno reagì?
«De Martino. Quel saggio – disse a Scalfari – non solo è una critica al leninismo, ma anche al marxismo. “Craxi ha fatto la barba a Marx”, scrisse Scalfari. Finì che Craxi chiese a Flores d’Arcais di organizzare un convegno dove fu ufficializzato il no socialista al leninismo».
Stesse idee, lei e Flores.
«Eravamo ottimi amici, ci frequentavamo molto e andavamo d’accordo».
Oggi invece?
«Io sono rimasto un moderato di sinistra. Lui è il contrario di quello che era ieri».
Eppure vi dite entrambi liberali.
«In Italia si dicono tutti liberali. Perfino la Lega, An e gli eredi del comunismo».
Lei era amico anche di Massimo Pini.
«Pini, Intini e Federico Mancini. Le persone che frequentavo con più piacere».
Che cos’è l’adulazione in politica?
«Un’arma con la quale l’ambizioso cerca di aprirsi un varco».
Ci riesce?
«Gli uomini adorano essere adulati. Balzac diceva: “La gloria? Un veleno che va preso a piccole dosi”».
Figuriamoci i leader.
«Saragat. Ho toccato con mano il suo narcisismo. Parlava di sé come se leggesse un libro di storia».
Craxi?
«All’inizio no. Ma quando divenne il grande Craxi, l’adulazione prese corpo. Quando parlava lui, tutti ascoltavano in silenzio. Poi cominciava il dibattito e tutti si mettevano a fare salotto. Il povero disgraziato che parlava non veniva ascoltato da nessuno».
Narcisista era anche Pertini.
«Aveva un narcisismo legato al risentimento. Pertini è stato considerato per decenni, all’interno del Psi, come un minus habens, una persona di scarsissima intelligenza. Quando è diventato Presidente della Repubblica si è vendicato. Raccontando spesso di quando Nenni si recò a Mosca per incontrare Stalin. Dopo il colloquio che ebbe con il dittatore sovietico, ai giornalisti che gli chiedevano la sua impressione, Nenni rispose: “Un vero padre di famiglia”».
Tra i craxiani c’era qualcuno che non le piaceva?
«C’era uno che creava problemi con tutti: Claudio Martelli. Erano tutti incazzati con lui».
Quando è arrivato l’avviso di garanzia per Craxi, i craxiani sono scomparsi.
«Carlo Ripa di Meana mandò addirittura un messaggio di solidarietà ai magistrati».
Ognuno ha la sua coscienza.
«Certo. E Carlo Ripa di Meana poteva benissimo prendere le distanze. Ma in silenzio».
E perché mai?
«Perché lui era stato letteralmente creato da Craxi! Era stato eletto con i soldi di Craxi. Gli altri avevano tutti un mestiere. Lui no. Ripa di Meana non aveva arte né parte. Craxi lo aveva praticamente inventato. Lo aveva proposto come ministro, come presidente della Rai, come parlamentare europeo, come presidente della Biennale».
Perché?
«Per riconoscenza. Quando Craxi aveva un peso politico insignificante c’era un gruppo di persone a Milano che gli aveva mostrato fedeltà. Intini, Finetti, Boniver, Ripa di Meana. Una volta diventato potente il suo primo pensiero fu sempre quello di provvedere al loro futuro. E Ripa è stato il più beneficiato di tutti».
Difendere i giudici attaccati perché indagano sulla corruzione politica è dovere di ogni cittadino!
«Arrivare a una lettera pubblica, come fece Ripa, era troppo».
Criticano anche Giuliano Amato.
«Amato non ha difeso la tradizione socialista. Doveva spendere un po’ di tempo a favore della parte positiva che, a dispetto della corruzione, il craxismo ha rappresentato».
Avrebbe messo a repentaglio la sua carriera politica.
«Era una battaglia per la quale valeva la pena di impegnare la sua intelligenza. Tutto ha un costo».
Lei ha pagato qualche prezzo?
«Certo. Mi hanno tolto il microfono. Per anni non sono più esistito. Isolamento completo. Collaboravo al Giorno. Finita, come qualsiasi altra collaborazione a qualsiasi altro giornale».
Molti sono stati cooptati dal Giornale.
«Anche a me fu chiesto. Ma io sono di sinistra. Non posso scrivere su un giornale di destra».
Renzo Foa scrive sul Giornale.
«L’ho incontrato qualche mese fa. L’ho guardato. Lui ha capito qual era la domanda che stava nel mio sguardo e mi ha detto: “Luciano, con questa sinistra che ci ritroviamo in Italia che cos’altro potevo fare?”».
Tra gli ex craxiani c’è anche Ruffolo.
«Gli ex craxiani che sono andati con i Ds come lui dovrebbero far sentire la loro voce socialista. Avete notorietà? Scrivete sui giornali? Diamine, fate capire che siete socialisti!».
Altri indizi che le hanno tolto il microfono?
«Mi vede mai a un dibattito televisivo? Due anni fa io e Cafagna abbiamo preparato un modello di riforma costituzionale. Lo presentammo in una sala della Camera. Pienone. Un sacco di giornalisti, di uomini politici. Dibattito di due ore e mezza. Il giorno dopo apro il giornale: black-out completo. E poi Galli della Loggia parla del “silenzio dei riformisti”. No! Il silenzio “sui” riformisti».
Avete Mondo Operaio.
«Certamente. Ma Claudio Martelli, nei due anni che lo ha diretto, è stato devastante. Ha fatto diminuire gli abbonamenti da 1.250 a 180. Ha ucciso letteralmente la rivista, spendendo anche moltissimo denaro».
Tra i socialisti chi le piace?
«Antonio Ghirelli, Luciano Cafagna, Antonio Landolfi, Mario Patrono. Un grappoletto».
Lei che cosa legge?
«Il Corriere della Sera. A volte la Stampa. Spesso il Foglio. Di tanto in tanto il Giornale. Oppure il Manifesto. Raramente il Messaggero».
E la Repubblica?
«Mai. E nemmeno l’Espresso. Non sopporto l’aggressività giornalistica. Una delle grandi iatture del Paese è stato lo scalfarismo».
Oscar Luigi?
«No, Eugenio. Mi dà fastidio. Tutto di Scalfari mi dà fastidio».
Era socialista?
«Socialista! Fin dal giugno 1976, parlando con Luciano Cafagna che scriveva sulla Repubblica, gli dissi: “Mi meraviglio che tu collabori con un giornale organicamente anti-socialista”».
Ma Scalfari invitava i suoi lettori a votare socialista.
«Bastava leggerlo per capire. Valorizzava sempre tutte le posizioni massimaliste. Scalfari è un giacobino senza fede giacobina. Aggressivo, violento, intimidatorio. Come Maltese. Con la differenza che Scalfari è intelligente».
Altri che non le piacciono?
«Giorgio Bocca. Ho smesso di leggerlo. Ogni volta avevo una crisi di fegato».
Chi le piace invece?
«Ostellino. Sono sempre in sintonia con lui. E Ferrara. Intelligente, appassionato. Serie A».
A destra chi sono i suoi amici?
«Antonio Martino, anche se non condivido il suo estremismo liberista, Domenico Fisichella, che è sempre stato uno della destra liberale, Marcello Pera, che una volta era socialista».
Il telegiornale preferito?
«Faccio zapping».
Anche Fede?
«Fede ha scritto in fronte “Viva Berlusconi!”. Non è telegiornale.».
È apologia?
«È psicoanalisi».
E la situazione televisiva?
«Il monopolio berlusconiano è un vulnus alla democrazia».
I sociologi dicono che la tv non è poi così potente.
«Col maggioritario, anche se sposta pochi voti, eternizza questa maggioranza».
Ricorda quando Previti diceva: «Non faremo prigionieri»?
«Berlusconi ha stravinto su tutta la linea, ha il monopolio, perché deve forzare la mano?».
Andrebbe più volentieri da Vespa o da Santoro?
«Da Vespa».
Guarda più volentieri Vespa o Santoro?
«Santoro è un eccellente professionista. Il dibattito che accende è molto più intenso di quello di Vespa. Se voglio sapere quali sono le lacerazioni della vita politica italiana guardo Santoro. Se invece voglio capire un problema, è più indicato Vespa. Si litiga meno, si ragiona di più. Da Santoro c’è il conflitto delle emozioni, lo scontro dei pathos. Da Vespa la ricerca dell’obbiettività».
Tanto a lei Vespa non la invita. E nemmeno Santoro.
«Anche questo è vero».
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