- 13 Giugno 2002
Le polemiche non gli fanno paura. Ci si butta dentro, Peppino Caldarola, con gioia. E non vuole saperne di porre termine al contenzioso finché non si capisce chi ha ragione. Ex portavoce di D’Alema, ex direttore dell’Unità (due volte), ex portavoce di Fassino, oggi parlamentare Ds, Caldarola pensa che le polemiche debbano andare fino in fondo. «Se qualcuno inizia a litigare con me, io non lascio perdere», spiega. «Da una polemica o si esce vincitori o si esce sconfitti. Il pareggio non esiste».
Ti sei messo a litigare con i tuoi ex redattori, con il giornale che ti ha visto direttore, con Furio Colombo.
«Quando ho visto che troppo spesso venivo attaccato dall’Unità, ho replicato. Finché si è arrivati alla Grande Calunnia. Ma non voglio parlarne».
E invece ne parliamo.
«L’Unità ha pubblicato un comunicato dei miei ex-redattori, di Giovanni Berlinguer, del direttore, dell’editore, in cui si sosteneva che io avevo accusato l’Unità di complicità col terrorismo».
Non era vero?
«Una Grande Calunnia».
Come nasce una Grande Calunnia?
«L’Unità faceva continui attacchi a parlamentari Ds. Il senatore De Benedetti aveva chiesto l’intervento dei gruppi parlamentari Ds».
E perché?
«Perché i finanziamenti statali arrivano all’Unità grazie ai gruppi».
L’Unità come aveva reagito?
«Chiedendo di cacciare De Benedetti dal partito».
E tu?
«Io ho criticato tutti. Chi chiedeva di togliere i soldi all’Unità e chi chiedeva di cacciare De Benedetti. A questo punto è uscita la Grande Calunnia».
Come se ne esce?
«Sono disposto ad ammettere di aver reagito con animosità se viene pubblicata una lettera in cui si dice che non risulta da nessuna parte che abbia detto che l’Unità aiuta il terrorismo. Sono pronto anche a un giurì d’onore formato da parenti di redattori dell’Unità, di Furio Colombo, di Padellaro, di gente a cui io sto sulle palle».
Non ci sei andato leggero. Hai detto che eri capo del servizio sindacale dell’Unità quando Colombo era uomo della Fiat?
«Questa storia mi ha ferito a morte. Non accetto le cattedre ambulanti che espellono questo e quest’altro. Questa esperienza l’ho vissuta. Da ragazzo fui cacciato da un gruppo trotzkista che avevo fondato io. Mi cacciò mia sorella. Venne con degli amici a casa mia e mi comunicò l’espulsione. Poi disse: “È tardi. Si cena?”».
E tu?
«Li cacciai tutti quanti da casa! Altro che cena».
Hai attaccato Piero Fassino. Fino a pochi giorni prima eri stato il suo portavoce.
«Nasco Caldarola, banalmente Caldarola. Sono già arrivato in alto, viste le mie origini. Non ho paura di niente. Il mio dovere è quello di indicare al mio segretario i suoi errori finché è in carica. Altri lo fanno dopo».
Gli hai detto che sulla Rai sbagliava?
«Pensavo che fosse meglio indicare, come membro del consiglio di amministrazione, un nome immediatamente operativo come Miriam Mafai, Angelo Guglielmi. Non Carmine Donzelli. E lo mettevo in guardia dal fidarsi degli amici perché gli amici non si dirigono. Fassino replicò in un modo francamente nervoso».
Dimmi la verità. Che cosa pensi dell’Unità di Furio Colombo?
«Non mi soddisfa ma la rispetto».
Era meglio la tua?
«Io l’ho diretta quando i premier erano Prodi, D’Alema e Amato. Lui fa l’Unità contro Berlusconi. Gli scenari sono diversi».
Sei invidioso perché Colombo le ha ridato vitalità?
«Due malignità mi sono venute all’orecchio. La prima è quella che hai detto. La seconda è che sono in polemica con Fassino perché non mi ha fatto entrare nella sua segreteria».
Malignità?
«Io amo l’Unità. Per me è molto di più di Furio Colombo».
E Fassino?
«Non ho alcun interesse a stare nella sua segreteria. Se avessi voglie del genere penserei a farmi una segreteria, non ad entrare nella segreteria di un altro».
Sarebbe a dire?
«Ho accumulato esperienza tale da poter fare politica anche senza incarico».
Senti bisogno di un giornale nuovo, a sinistra?
«Mi piacerebbe un giornale riflessivo, che non tiri subito un muro tra chi sta di qua e chi sta di là».
Un Foglio di sinistra?
«Ferrara cerca di incivilire il suo mondo. Ma non mi soddisfa del tutto. Produce bellissima battaglia politica, bellissimi retroscena, molta invettiva. Andrea Marcenaro è godibilissimo. Mattia Feltri insuperabile. Ma non siamo di fronte al giornale indagatore».
Quali sono le tue origini?
«Mia madre era un’operaia della Manifattura Tabacchi, sezione sigari. Quando ebbe lo scatto sociale diventò commessa alla Upim. Mio padre era un operaio che dopo la guerra studiò e divenne impiegato alla Banca d’Italia».
Una vita come?
«Difficile. Mio padre si indebitò con gli usurai per salvare mia sorella malata di cuore. E alla fine dovette regalare la propria casa agli usurai. Forse da qui deriva la mia combattività».
Scuola?
«Scientifico. Università interrotta per lavorare».
Miti, canzoni?
«Mi piaceva e mi piace la lirica. Quando morì mia madre mi chiusi in una stanza e sentii la Tosca due volte di seguito. Così uscii dal pasticcio».
Letture?
«Per un lunghissimo periodo, letteratura americana. Adesso leggo un libro al giorno. Ma non romanzi».
Che cosa era l’école barisienne.
«Un gruppo di intellettuali che giravano intorno a Laterza. Beppe Vacca, Mario Santostasi, Franco De Felice, Franco Cassano, Franco Botta».
Tu ne facevi parte?
«Non in senso stretto. Collaboravo con loro, stavamo assieme tutto il giorno. Loro erano ingraiani di peso, ultràs. Io ero affascinato da Berlinguer ed ero sotto la tutela culturale di Gerardo Chiaromonte».
Il tuo percorso politico?
«Fgci. Psiup. Poi il gruppo trotzkista da cui mi cacciò mia sorella».
L’accusa?
«Cesarismo. Moderatismo. Dopo un po’ mi iscrissi al Pci. E poi l’Unità, a Roma».
Una volta hai rischiato di essere cacciato dal sindacato dei giornalisti perché, da direttore, hai fatto uscire il giornale durante uno sciopero.
«Quel giorno doveva essere allegata al giornale la video cassetta di Novecento. La redazione aderì allo sciopero, l’amministratore mi disse che avremmo perso 400 milioni e avremmo rischiato la chiusura. Scelsi la sopravvivenza».
E chi fece il giornale?
«Nessuno. Sotto la testata l’Unità pubblicai la sceneggiatura di Bertolucci».
Grave comportamento antisindacale?
«Successe un casino. Ma poi capirono».
Qualche mese fa Fassino è andato all’Unità. C’era un po’ di maretta e lui disse: «Caldarola non è il mio portavoce e io non sono il portavoce di Caldarola». La maretta finì.
«La frase era ineccepibile. Il segretario patetico».
In che senso?
«Nessun segretario di partito avrebbe scelto questa formula per indicare una propria autonomia di pensiero».
L’Unità ha avuto un sacco di direttori. Per un giornale in crisi, un costo aggiuntivo?
«Io guadagnavo nove milioni al mese. C’era qualcuno, non direttore, che guadagnava anche tre milioni più di me. I direttori che mi hanno preceduto e seguito, tranne quelli “politici”, hanno chiesto tutti cifre di mercato».
Anche liquidazioni di mercato?
«Anche liquidazioni. Io, dopo 20 anni, ho avuto 90 milioni di liquidazione».
Quando sei entrato all’Unità?
«Quando era direttore Alfredo Reichlin. Poi ci fu Petruccioli. Dopo una parentesi a Rinascita e a Italia Radio, sono tornato con direttore Renzo Foa».
Oggi per leggere Foa bisogna comprare il Giornale.
«Mi fa male al cuore».
Vogliamo ripetere la banalità? Solo i cretini non cambiano idea?
«Io voglio morire con Bandiera rossa e l’Internazionale. Ma chi cambia idea non mi disturba. Se motiva la scelta lo capisco. Però se tira fuori solo l’animosità verso la sinistra, lo capisco meno».
Perché lo ha fatto?
«Ha vissuto la fine della sua direzione all’Unità come una ferita. Non è riuscito a fare l’elaborazione del lutto».
L’adulazione. Ce n’è a sinistra?
«C’è una cosa che va di pari passo con l’adulazione: il comportamento eversivo. Oggi avere una posizione riformista ti fa sentire al confine del tradimento. È eversivo anche parlar male di un leader. Io ho parlato male di Massimo D’Alema quando era fortissimo e ci ho rimesso la direzione dell’Unità».
Perché parlavi male di lui?
«Per la nomina di Ottaviano Del Turco a presidente dell’Antimafia. Pensavo fosse più adatto Pino Arlacchi. Non mi piaceva l’idea di un partito diretto da un gruppo chiuso, il famoso staff. Questo non mi rese molto gradito a tipi come Rondolino».
Rondolino, nell’intervista che mi ha dato, tratta molto male la «tua» Unità.
«Ma dimentica alcuni episodi».
Ricordiamone uno.
«Mi chiese di recensire il libro di Massimo D’Alema. Cosa che fece con particolare violenza. Tanto che gli chiesi di tagliare alcune parti troppo cattive. Tre mesi dopo diventò il portavoce di D’Alema».
Piaggeria?
«Un caso notevole di piaggeria».
Con Claudio Velardi non andava meglio. Lo hai definito «il maggiordomo di D’Alema».
«Aveva fatto una dichiarazione orribile su Mussi. Io, in una intervista, ricordai che Mussi è un uomo coraggioso, uno che si rifiutò di votare l’espulsione del gruppo del Manifesto».
Fabio ti sarà stato grato per questo?
«Grato? L’ho incontrato l’altro giorno. Gli ho detto: “Mi sarebbe piaciuto che tu restituissi la cortesia testimoniando che io non posso aver detto quell’infamia sull’Unità”».
E lui che ha detto?
«Niente. Ha sorriso».
Parlavamo del «maggiordomo Velardi».
«È simpatico, accattivante. Ma non mi è mai piaciuto il suo ruolo. L’uomo politico si può circondare di segretari, di persone che gli preparano dossier, non di faccendieri che agiscono in nome suo e talvolta in nome proprio».
Ne hai mai parlato con D’Alema?
«Massimo vive con grande fastidio le critiche».
Che cosa pensi degli adulatori?
«Non mi scandalizzano. Persino io, nel mio piccolo, ho degli adulatori. Mi scandalizza l’adulato che perde il rapporto col mondo».
Chi sono gli adulatori?
«Quelli che quando D’Alema era forte si sono dimenticati di dirgli che non doveva lasciar deperire un partito politico come strumento di massa. Quelli che non hanno detto a Veltroni che il partito dei valori non esiste, che il partito è combinazione di valori e interessi».
Adulavano anche Berlinguer?
«Berlinguer non era adulabile. Aveva un collaboratore forte, Tonino Tatò, che era durissimo con lui».
Tatò come Velardi?
«Tatò era un grande intellettuale cattolico che scelse il comunismo. Produceva di suo. Velardi è un giovanotto vivacissimo, ma gli manca la scuola».
Chi adulava Occhetto?
«Occhetto, poverino, non è mai stato adulato. Tranne forse da Rondolino».
Dicono tutti «il povero Occhetto».
«Noi gli dobbiamo una svolta di cui non finiremo mai di ringraziarlo. Povero Occhetto!».
Chi adulava D’Alema?
«Adulazione universale. Non c’è nessuno che non abbia adulato D’Alema. Tranne il sottoscritto».
Tutti adulatori, nessun adulatore?
«Uno dei massimi adulatori era Pietro Folena. Che oggi invece lo critica. Nel giornalismo, Ezio Mauro. Ha scritto editoriali che io non avrei firmato».
Hai detto: «Mai andare da D’Alema disarmato».
«Lo penso tuttora. È sempre sul chi vive».
Non ti dà fastidio che voglia sempre aver ragione?
«Io non lo farei, non mi piace che lui lo faccia. Ma sorrido. L’importante è sapere che non è vero».
Hai detto anche: «Massimo sta sbagliando tutto».
«Può darsi. Probabilmente quando criticavo la sua idea di gruppo dirigente. Troppo chiuso, spesso autoreferenziale. Quando io devo pensare a un uomo a cui fare riferimento penso ad Amendola, uno capace anche, come fece in un comitato centrale clamoroso, di attaccare gli operai».
Assomigli a un Giuliano Ferrara di sinistra.
«Sì, si può dire».
Fronde di tutto il mondo unitevi. Sei sempre molto presente sul Foglio?
«È inevitabile. Un uomo di sinistra può apparire soltanto su giornali che non sono di sinistra perché quelli di sinistra lo boicottano».
Ti senti vicino a Ferrara?
«Sì. Quando fa l’Israele-day. No, sull’art. 18 dove sono schierato dietro a Cofferati fino al plotone di esecuzione».
Sui giudici?
«Ho tifato per Mani Pulite ma è arrivato il momento di dire: “Abbiamo delegato troppo”».
Non ti piace lo scontro con la destra…
«Ci sono ragioni che non condivido. Ma devo cercare di capirle».
Mentre gente come Furio Colombo?
«Gente come Colombo pensa che avremmo dovuto combattere ancora di più Berlusconi».
Che cos’è? Un radicale moderato? Un estremista liberale? Un incazzoso di centro?
«Un estremista di centro che ha un sovrano disprezzo per la politica. Un teorico dello scontro frontale».
Chi non ti piace a sinistra?
«Non sono molto in sintonia con Giovanna Melandri. Non mi piace Cesare Salvi. L’ho conosciuto quando era in una posizione che oggi definiremmo riformismo di destra. Ritrovarmelo a sinistra mi fa impressione».
Chi non ti piace a destra?
«Ferdinando Adornato. È un’altra cattedra ambulante».
Ti piace Berlusconi?
«La vittoria di Berlusconi per me è orribile. Ma voglio capire perché ci sono dei cittadini che hanno deciso di votare Berlusconi. E voglio costruire una politica che li convinca a votare per noi».
A forza di capire, la destra ha occupato la Rai.
«È uno scandalo senza precedenti».
La lottizzazione c’è sempre stata. Celli fu messo a capo della Rai da D’Alema e Velardi.
«È quello che dice Velardi».
Veramente adesso nega.
«Ci sono due leggende. La prima dice che è stato Velardi. E che adesso nega. La seconda è che non è stato per niente lui. E che si è preso il merito dell’operazione».
Tu per quali propendi?
«Velardi mette la bandiera dove vede che il cavallo sta arrivando al traguardo da solo».
Perché ti scandalizza questa lottizzazione?
«Mi scandalizza che la destra non presenti niente di meglio. Che lottizzi con figure di secondo piano. Mi scandalizza anche il modo. Questo non è spoil system. È occupazione completa».
Ma tu non eri un moderato? Dovrai andare a fare i girotondi con Furio Colombo.
«Anche il moderato, nel suo piccolo, si incazza».
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