- 10 Agosto 2000
Ricordate Fabrizio Rondolino? Era uno di quelli con la testa pelata (l’altro era Claudio Velardi) che giravano attorno a Massimo D’Alema e si occupavano del suo staff, stabilivano la sua giornata, gli davano consigli su come comportarsi con i giornalisti, smussavano le sue spigolosità. Poi Rondolino fu travolto da uno di quegli scandali alla panna montana che appassionano il mondo giornalistico-politico. Aveva scritto un romanzo con alcune pagine altamente “pornografiche”.
Il Foglio di Ferrara le anticipò, l’Espresso di Claudio Rinaldi e la Repubblica di Ezio Mauro scrissero articoli di fuoco. Rondolino, sospettando che il bersaglio di tanta violenza moralistica fosse la politica di D’Alema, dette le dimissioni. Oggi guarda alla cosa con distacco. Ha ripreso a fare il giornalista, sta scrivendo una sceneggiatura sul Kosovo per Rai1, dirige la comunicazione di “Grande Fratello” per Canale5, ha appena finito un libro di racconti per Einaudi. Ma un pizzico di risentimento gli è rimasto. “Da allora ho diviso il mondo in amici e nemici. Basta ideologia. C’è chi mi vuole bene e chi mi vuole male”, dice. Ma chi gli vuole male? Rondolino non si tira indietro. Ma andiamo con calma. Le sue mille gavette, il suo “cinismo” politico, le sue “gaffes”, il suo essere contemporaneamente comunista e anticomunista, il suo ego straripante a contatto con gli Occhetto, con i Veltroni, con i D’Alema. Parlerò di tutto con lui.
Cominciamo dal porno?
Ma che porno! Una quindicina di pagine che descrivevano il delirio erotico di uno dei protagonisti, erotismo da bar sport, da fumetto per militari. Ma si scatenò una campagna senza esclusione di colpi.
Una campagna che ti ha fatto vendere molte copie. C’è il sospetto che lo “scandalo” te lo fossi cercato.
Cercato no. Però pensavo che qualcuno, magari il critico dell’Avvenire, avrebbe fatto la polemica sui “comunisti senza morale”.
Invece i cattolici ti hanno ignorato…
E mi ha attaccato con violenza la stampa di sinistra. Si cominciò con l’Espresso che fece un pezzo vergognoso chiamandomi “cicciolino rosso”.
Mica male come soprannome.
Anche tu? Poi un corsivetto di quel frustrato di Paolo Mauri su Repubblica in cui si meravigliava che Einaudi avesse pubblicato una cosa del genere. Poi un articolo di Bocca sull’Espresso, moralista, disgustoso, tipo “i vecchi comunisti di un tempo andavano i galera mentre oggi scrivono romanzi porno”. Poi una pagina su Repubblica, che mi ritrasse come un uomo avido di potere, cinico, arrampicatore, che fa della pornografia pretendendo che sia letteratura.
Ma tu sei avido di potere, cinico e arrampicatore. Lo dicono tutti.
Arrampicatore no. Il potere invece mi piace. Molto. Ma lo contemplo, non lo esercito: per esercitarlo ci vuole una tecnica che non padroneggio, e ancor più una predisposizione naturale.
Chi è uno che la padroneggia bene?
Claudio Velardi è bravissimo. Ha un dono naturale. Lo dico con sincera ammirazione. Io sono un disastro. Velardi non avrebbe mai fatto la sciocchezza del libro. Io mi aspettavo una polemichina, non una polemicona.
L’Espresso era diretto da Claudio Rinaldi, la Repubblica da Ezio Mauro.
Ezio Mauro è un personaggio bizzarro. E’ un grandissimo giornalista, ha fiuto e gusto per la notizia. Però è di un cinismo spaventoso. Io per Mauro, siccome ci teneva, avevo organizzato delle cene con D’Alema. Con lui c’era un rapporto di amicizia, ci sentivamo tutti i giorni.
Perché lo ha fatto?
Vogliamo dare una interpretazione buona?
Diamola.
Essendo un piromane, ha pensato: “Diamo fuoco e vediamo che cosa succede”.
Hai visto che cosa è successo?
E’ successo che è cominciata per me una vita nuova. Una benedizione. Come consulente di Palazzo Chigi guadagnavo 70 milioni lordi l’anno. Adesso denuncio 300 milioni l’anno, sono “famoso”, il mio narcisismo è soddisfatto.
E questa storia del mondo diviso in amici e nemici? Mauro non è più fra gli amici?
Non più, ammesso che lo sia mai stato. Come Curzio Maltese. Anche lui è stato insultante. Maltese è pessimo. E’ il classico moralista senza morale: in questo è davvero l’erede di Scalfari. Tra un attacco e l’altro smisi di leggere la Repubblica per due mesi…
Leggevi Serra e Gramellini?
Certamente. Massimo Gramellini è decisamente bravo. Michele Serra appartiene alla categoria degli amici, perché sull’Unità fu il solo a difendermi, però mi sembra lontanissimo da me, lui rappresenta la sinistra un po’ piagnona, crepuscolare, che a me non piace.
Vuoi mettere la sinistra piagnona con la sinistra cinica?
Il cinismo lo rivendico. Come un merito. Nel Paese delle mozzarelle, dei mediocri, dei voltagabbana, del volemose bene, della lacrima facile, cinismo che cos’è?
Cinismo che cos’è?
Dire le cose come stanno.
Continuiamo con amici e nemici?
Amici: Marcello Sorgi e Pietro Calabrese, entrambi mi hanno offerto un lavoro il giorno dopo le dimissioni da palazzo Chigi. Come me l’hanno offerto Giuliano Ferrara, Carlo Rossella, Roberto D’Agostino, Emilio Fede…
Fede?
Una splendida amicizia. Una frequentazione che dura tuttora. Organizzai io l’intervista di Fede a D’Alema. D’Alema non voleva assolutamente farla.
Come l’hai convinto?
Gli dissi: quel milione e mezzo che vede il Tg4 di Fede non fa niente altro, non vede altri Tg, non compra mai un libro, non legge mai un giornale. O tu vai lì, oppure quelli non sapranno mai che tu esisti.
Continua a parlarmi di Fede.
E’ straordinario, ha questa capacità di reinventarsi, di stare sui media, questo gusto per la bella vita. E’ veramente un bel personaggio. Poi è uno spudorato. Ha fatto del suo amore per Berlusconi un cavallo di battaglia.
Fede ti piace. Ma tra Lerner e Mentana chi preferisci?
Mentana. E’ più lieve, scherza. Il Tg5 trasmette un’aria di gioco, quasi di gita scolastica. Lerner è serio, serioso, cupo.
Altri amici?
Per Ferrara ho una autentica venerazione. Come per Gianni Boncompagni: un genio.
Amici a destra, nemici a sinistra.
Ho molti amici anche a sinistra: Lucia Annunziata, Oliviero Diliberto, Pierluigi Bersani, Claudio Petruccioli… Ma quando ero sommerso dalle polemiche, mi aspettavo solidarietà – pubblica o privata che fosse – da parte dei dirigenti del mio partito. Da Folena, da Veltroni. Niente. Mi sono sentito ferito. Il partito è una famiglia, ci si odia ma ci si dovrebbe proteggere.
In questo partito da quanto ci sei?
Mi sono iscritto alla Fgci nel 1977. Ero di famiglia borghese, sebbene non ricca. Ho vissuto a Torino fino a 24 anni. Mi sono laureato in filosofia teoretica. Per un lungo periodo il mio amico del cuore è stato Alessandro Baricco, compagno di liceo e di università, un lungo sodalizio: amore per l’opera, per la letteratura, per la cultura mitteleuropea.
Chi altri frequentavi a Torino?
C’era Alessandro Meluzzi, un capetto della Fgci. Un gran chiacchierone. C’erano anche Giuliano Ferrara, capogruppo del Pci al consiglio comunale, Livia Turco, segretaria di noi giovani, Fausto Bertinotti al sindacato, e Saverio Vertone, direttore di “Nuovasocietà”, quindicinale comunista. Saverio Vertone era coltissimo. In redazione citava l’Odissea in greco. Noi giovani comunisti eravamo tutti di sinistra, garantisti sul terrorismo, lettori del Manifesto. Giuliano invece era già di destra. Ogni tanto veniva in Fgci a darci la linea.
Giuliano non era garantista?
Giuliano, come il resto del Pci, sosteneva che contro il terrorismo non ci potevano essere indulgenze.
Che vita facevi?
Molti libri. Molto cinema. Truffaut, Wenders, Sergio Leone, horror. “La notte dei morti viventi”, il massimo.
La musica?
De Gregori. Rimmel, il disco della mia adolescenza. Poi il classico rock degli anni Settanta.
Alla fine del liceo?
Meno politica e più filosofia. A Berlino studiai il tedesco, un po’ di yiddish. Cominciai a collaborare alla Gazzetta del Popolo, ad Alfabeta. Recensioni, traduzioni. La vita cambiò quando mi chiamarono a Roma, nel gruppo dirigente della Fgci.
Nuova gavetta.
Roma città meravigliosa. Vivevo in via Giulia in una stanza subaffittata, con un bagno in comune. Bohème, ma nella Roma antica. Due anni di Fgci e poi l’Unità, grazie a Renzo Foa. Con l’incarico di giornalista al seguito di Occhetto. Cominciai a fare articoli stile Repubblica, raccontando tutto.
Come facevi?
Baravo. Come giornalista dell’Unità avevo libero accesso alle riunioni di partito. Entravo nelle stanze, giravo, andavo ovunque alle Botteghe Oscure. Il presupposto era che non si scrivesse quello che si vedeva. Invece io scrivevo tutto. Arrivarono proteste di ogni genere. Si incazzarono soprattutto i miglioristi di Napolitano. Protestò anche Reichlin in una riunione della direzione del partito. Cossutta mandò una squadraccia che mi minacciò. “Attento a te, Rondolino”. Natta una volta mi chiamò il “killer Rondolino”. Foa mi difese sempre.
Come finì?
Un giorno beccai Occhetto sotto casa. Stava partendo per Capalbio incazzato nero. “Basta, questo partito non mi merita, io me ne vado, non torno più”. Scrissi tutto. E si incazzarono tutti.
Anche Occhetto?
Si.
E perché?
Disse che era uno sfogo privato.
Insomma l’hai tradito.
Rivendico quello che ho fatto. Per me il giornalismo era quello.
E allora?
Cominciai a occuparmi di Dc. Dove feci meno danni. I democristiani erano gentili e simpatici. Nel rapporto personale erano straordinari. A me del giornalismo piaceva soprattutto il pettegolezzo politico e mi piaceva questa atmosfera da vecchio club inglese che è il transatlantico di Montecitorio. Io godevo a passare le ore seduto su un divano a cazzeggiare con i colleghi, Nando Proietti, Augusto Minzolini, Filippo Ceccarelli, Claudio Sardo, Paolo Franchi, Nino Bertoloni Meli …
E poi?
Poi piombò Veltroni alla direzione dell’Unità. Cercò subito di massacrarmi. Io ero la prima firma politica, ero sempre in prima pagina. Mi spedì a fare il desk agli esteri.
Non potevi protestare?
Non conosci Veltroni. Lui te la racconta come se ti stesse dando la grande occasione della tua vita. Veltroni non sopporta che ci sia gente intelligente attorno a lui. È allergico, poverino.
Eppure nell’immaginario Veltroni è il buono e D’Alema l’arrogante.
E’ esattamente il contrario.
D’Alema buono?
Un gesto di affetto di D’Alema è veramente raro. Ma se c’è, è autentico.
E Veltroni?
Veltroni è una macchina da guerra. Un uomo di potere e basta. Quando Claudio Velardi, capo dello staff di D’Alema, mi offrì di fare il resocontista al seguito del segretario, io accettai di corsa.
E Veltroni?
Veltroni chiamò D’Alema e gli disse: “Stai attento. Di Rondolino non ci si può fidare”.
Dopo Occhetto D’Alema. Potevi continuare a fare lo sgarzolino?
C’era meno da sgarzolare. Con Occhetto serviva casino, con D’Alema bisognava “spiegare la linea”. Mi sono autocensurato.
Poi l’Ulivo vince le elezioni…
A me viene proposto di entrare nello staff come portavoce di D’Alema.
Che cosa voleva dire fare il portavoce di uno antipatico?
Io credo che un addetto stampa, alla fin fine, non abbia proprio niente da fare. L’informazione è un fiume che scorre, a prescindere dagli addetti stampa e anche dai protagonisti. Si possono fare solo piccoli aggiustamenti.
Davi consigli a D’Alema?
Come no! Ma al carattere non si comanda. Gli spiegavo che a volte basta un sorriso. Molti giornalisti mi confessavano che erano meglio disposti nei confronti di Veltroni proprio perché era gentile, salutava, sorrideva. Anche se poi non diceva nulla di interessante.
Ricordi episodi della lotta fra D’Alema e Veltroni ?
Ricordo una totale incomunicabilità fra i due. E fra i loro staff.
Con le vecchie categorie delle politica, come li definiresti?
Veltroni è un doroteo. D’Alema è un comunista.
Molti sostengono che Veltroni sia un voltagabbana.
Ha soltanto detto che si poteva stare nel Pci anche senza essere comunisti. Prendi me: l’Urss mi faceva schifo. Però avevo nella stanza il ritratto di Lenin e pure quello di Mao. Resta la domanda: io ero o non ero comunista?
Bravo. Eri o non eri comunista?
Lo ero e non lo ero. Veltroni ha sostenuto proprio questo: la parte maggioritaria della sinistra italiana, il Pci, aveva questa ambiguità di fondo dentro ciascuno dei suoi militanti.
Facile così. Chi sono i voltagabbana in Italia?
Cito una frase che mi disse una volta a cena Fedele Gonfalonieri…
Ma tu hai mai frequentato gente di sinistra?
Disse: “Le persone intelligenti cambiano spesso idea”.
Frase inventata da persone che si ritenevano intelligenti. Insomma, dimmi un voltagabbana.
Giuliano Amato. Si muove sottotraccia per trovare la posizione più favorevole per sé secondo il vento che tira. Un vero voltagabbana. Se avesse un briciolo di dignità, andrebbe a meditare sulla tomba di Craxi e poi abbandonerebbe per sempre la vita pubblica.
Ad un certo punto sei arrivato a Palazzo Chigi.
Di nuovo per caso e grazie a Bertinotti che fece il patatrac.
I prodiani sostengono grazie al complotto di D’Alema.
Falso. I piani erano diversi. Prodi doveva diventare presidente della Repubblica allo scadere del settennato di Scalfaro. E D’Alema lo avrebbe sostituito a Palazzo Chigi in una successione naturale e concordata. Ma la situazione precipitò e D’Alema andò a palazzo Chigi in anticipo.
Adesso sei disoccupato.
Sono l’unico portaborse che non è finito alla Rai, alle Poste, all’Enel, a Telecom.
Perché l’Unità muore?
Perché non serve più a niente.
Gli ultimi direttori hanno provato di tutto.
Caldarola, Gambescia e Fuccillo. Stenderei un vielo pietoso su tutti e tre. Incapaci di dirigere un giornale. Senza fantasia. Un giornale ha bisogno di idee. Il massimo che hanno fatto loro è intervistare Reichlin. Perché bisogna sprecare 1500 lire per leggere Reichlin che era obsoleto già trent’anni fa? L’ultimo vero direttore dell’Unità è stato Valter Veltroni.
Quello delle cassette.
Non solo quello delle cassette. Era un leader politico. Così come tu compri il Foglio di Ferrara, compravi l’Unità di Veltroni.
Se dovessi tornare a occuparti di D’Alema che cosa gli consiglieresti?
Primo: licenziare i suoi attuali collaboratori. Gianni Cuperlo e Nicola Latorre sono troppo mediocri. D’Alema merita di meglio.
Secondo?
Non fare nulla. Applicare la massima del taoismo: “wu-wei”, la “non-azione”. Molti gli vogliono fare del male. Quindi lui non deve fare assolutamente niente.
Chi vuole fargli del male?
La sinistra italiana che non gli ha mai perdonato di voler smantellare quell’ente inutile che è la sinistra italiana medesima.
Nomi.
Veltroni, Folena, Mussi, il gruppo dirigente del suo partito. E poi Parisi, Castagnetti. D’Alema è il primo che si è posto il problema del governo e della modernizzazione di questo Paese. Il vero Blair italiano è stato sempre e solo lui. Voleva rompere una serie di equilibri consolidati e di rendite di potere. Voleva avviare un processo di liberalizzazione, di sburocratizzazione.
Non c’è riuscito.
E la sinistra non gli perdona di averci provato.
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