- 17 Ottobre 2002
Di lui dissero: ha vinto alla lotteria, ma ha perso il biglietto. Era diventato il politico più popolare d’Italia e forse anche il più amato, quando, ai tempi del referendum, dette un colpo definitivo al sistema proporzionale contribuendo all’arrivo del bipolarismo in Italia. Poi, piano piano, giorno dopo giorno, la sua popolarità è svanita. Mario Segni, accusato di essere troppo ondivago, di svolazzare da destra a sinistra senza affermare una sua identità, è rientrato nei ranghi, è diventato un politico come tutti. Ora sembra che voglia riprovarci. I giornali hanno scritto che vuole tentare la difficile impresa del Terzo Polo.
Ma come, onorevole Segni, proprio lei che ha dato la spallata alla Prima Repubblica, adesso parla di Terzo Polo. Torniamo indietro?
«C’è un pezzo d’Italia che si sente orfano. Non se la sente di votare a sinistra per diecimila ragioni. Ma non si sente affatto rappresentato dalla Casa delle Libertà, perché rifiuta il berlusconismo. Questo pezzo d’Italia cosa fa?».
Bella domanda: che cosa fa?
«A volte vota a sinistra solo per fare dispetto a Berlusconi, a volte si tura il naso e vota Casa delle Libertà. A volte se ne sta a casa».
È il prezzo che bisogna pagare al bipolarismo che ha voluto lei. Non lo sapeva fin dall’inizio?
«È un pezzo d’Italia troppo grosso e avrebbe bisogno di una rappresentanza politica».
Lei naturalmente.
«Io vorrei diventare uno degli interlocutori. Non però per fare i Terzi Poli, ma per portare la battaglia dentro il centro-destra. Io rimango sempre a bocca aperta quando vedo che la gente di destra sopporta il berlusconismo. Nella mia Dc questo non sarebbe mai successo. Ogni problema grosso era accompagnato da un dibattito serrato, intenso, duro. Quelli di Forza Italia invece pensano solo alle cose loro senza che nessuno dica nulla».
Nessuno nessuno?
«Fisichella ogni tanto, Tabacci ogni tanto. Ma alle parole non seguono gli atti».
Lei con chi vuole lavorare?
«Non con Bertinotti, non con Bossi».
Ma i Poli sono quelli che sono. Di qua o di là? Non farà parte anche lei della Terza Italia…
«Io sono un liberale, non sono di sinistra. Il pluralismo dell’informazione, l’Europa, sono tutte battaglie che dovrebbero essere della destra. Ma la destra oggi non è monopolizzata da Berlusconi, è posseduta da Berlusconi».
Diciamocelo: se lei sostiene queste cose sarà difficile presentarsi con la destra. Con la sinistra no, perché lei è liberale. Alle prossime elezioni con chi si presenta?
«Non sono in grado di tracciare il percorso da qui alle elezioni politiche».
Ho letto una vecchia intervista che lei rilasciò a Epoca, tanti anni or sono. Lei spiegava il suo programma elettorale. Sembrava quello di Berlusconi.
«È vero. La Casa delle Libertà ha ripreso un’idea di cui io ero uno dei sostenitori, non l’unico naturalmente. E cioè che l’Italia è da troppo tempo oppressa da uno statalismo selvaggio, invadente, costoso, inefficiente, oppressivo. Che l’Italia ha bisogno di una grande opera di liberalizzazione. Ma la Casa delle Libertà fa poco di quello che dice, le privatizzazioni si sono fermate».
È stato proprio lei a favorire il trionfo di Berlusconi?
«Teoricamente l’ho favorito io, col maggioritario. Mi chiedo perché ogni tanto dica che vuole tornare al proporzionale. A meno che…».
A meno che?
«A meno che non voglia fare il Craxi della situazione, cioè una forza con la quale bisogna trattare sempre. Col maggioritario può anche perdere le elezioni e se perde le elezioni sono cinque anni di opposizione. Col proporzionale sarà sempre al governo».
Le dispiace di aver perso il biglietto della lotteria?
«La lotteria era il referendum, il referendum lo abbiamo vinto».
Però ci si potrebbe immaginare lei al posto di Berlusconi, oggi.
«Forse. Ma il Paese ha reagito in forme diverse. Sei mesi dopo aver tirato le monetine a Craxi, la gente ha votato Berlusconi. Onestamente devo dire che non avevo né previsto, né calcolato che esistesse la possibilità di un cambiamento del genere. Probabilmente la rivoluzione indotta dai referendum fu più emotiva che morale».
Lei non è mai stato premier, non è mai stato ministro?
«Sono stato per un anno sottosegretario all?Agricoltura. Poi mi hanno cacciato via alla prima crisi».
Questo fatto le suggerisce qualche considerazione?
«Sì. Che ho fatto tutto quello che ho fatto dal nulla. Come cittadino, come parlamentare, sotto certi aspetti come rivoluzionario, perché è stata una rivoluzione. In politica ho il naturale istinto a fare delle cose, non a diventare qualcuno».
Però ci è stato vicino a diventare qualcuno.
«Se ci fosse stato il meccanismo di elezione diretta del premier dopo il ’93 sarei diventato, forse, primo ministro».
Ma anche dopo.
«Prodi e Ciampi mi offrirono di fare il ministro per le Riforme Istituzionali. Dissi di no».
Io mi riferivo al 1994 quando Berlusconi le chiese di scendere in campo per lui.
«Era un’alleanza che aveva un socio sovrano, lui, e un socio di minoranza, io. Berlusconi lasciava pochi spazi».
Che cosa le disse?
«Mi disse: "È la prima estate che io non dormo perché ho i conti in rosso e perché questo governo mi sta massacrando". Ricordo che mi fece il nome di due ministri che ce l’avevano con lui, erano Cassese e Barile. "Se vince la sinistra", mi disse, "io sono fregato. Ho bisogno di qualcuno che mi difenda". Dopo quel colloquio lui creò Forza Italia, noi facemmo una lista, con Martinazzoli, che si chiamava Patto per l’Italia, un bel nome».
Quali sono i primi ricordi che ha della sua vita?
«La campagna vicino a Sassari, che si chiamava Latte Dolce perché c’è una chiesa e un dipinto della Vergine che allatta. Un posto bellissimo, pieno di alberi di frutta. Mi ricordo le gite con la carrozza di mia nonna. Poi ricordo Stintino dove abitavamo».
La scuola?
«Non andai alla scuola pubblica. Feci cinque anni privatamente con la signorina Mossa, una specie di istituzione sassarese. Faceva scuola a casa sua. Ci andavano anche molti della famiglia Berlinguer».
Poi?
«Poi ho fatto il ginnasio al liceo Tasso, a Roma. C’era anche Giorgio La Malfa».
Liceo?
«Il mitico Azuni a Sassari. Ci erano passati tutti i Berlinguer e perfino Palmiro Togliatti, un alunno incredibile, si diplomò con tutti dieci».
Che tipo era da ragazzino?
«Allegro. Forse un pochino timido».
Ricorda le canzoni di allora?
«Io ero un appassionato di canzoni della montagna, perché ero alpinista».
Serio?
«Serio. Sesto grado».
La politica? Sulle orme di suo padre? Nepotismo?
«Mio padre mi disse: nessuno deve fare politica prima di avere una sua posizione di lavoro indipendente. Bisogna essere sempre in condizione di sbattere la porta. Per questo sono arrivato alla politica abbastanza grande. Prima vinsi il concorso a cattedra e dopo mi candidai alle elezioni».
Però faceva politica da giovane?
«Gli anni della politica universitaria. Quando nacquero tutta una serie di politici che vengono dalle università, Pannella, Craxi, La Malfa. A Sassari, insieme ad Arturo Parisi, facemmo vincere l’Intesa, la lista legata al mondo cattolico».
La prima candidatura?
«Nel ’76, avevo 37 anni. Furono delle elezioni molto particolari. Il Pci di Enrico Berlinguer tentava il sorpasso. La Dc aprì le liste a tutta una serie di persone nuove che venivano da fuori. Io mi candidai in Sardegna».
E fu eletto.
«Fu eletto il mio nome, Segni. Fu un omaggio alla memoria di mio padre, morto ormai da cinque anni».
Nella Dc in quale corrente si riconosceva?
«Insieme a Roberto Mazzotta e a Gerardo Bianco creammo Proposta, l’ala della Dc contraria al compromesso storico, in contrasto con la linea di Moro. Eravamo pochissimi e isolati. Eravamo, per così dire, i montanelliani della Dc, quindi uno spirito piuttosto laico».
Nella sua composita vita politica si è alleato anche con Gianfranco Fini?
«Fini era uno dei più attivi nelle campagne referendarie. Ma la nostra lista dell’Elefante alle elezioni non andò bene. Una parte dell’elettorato di destra considerò giustamente più di destra Berlusconi che Fini».
Sull’onda dei referendum molti la corteggiavano, Occhetto, Di Pietro, Adornato. Oggi sono scomparsi?
«Con Occhetto rimane stima e amicizia reciproca».
E gli altri?
«Ricorda le categorie di Sciascia? Omini, ominicchi e quacquaracquà, ma io ero vaccinato. Avevo già vissuto una situazione simile con mio padre, dall’adulazione generale alla solitudine più profonda».
Facciamo l’elenco dei quacquaracquà?
«Facciamo l’elenco degli "omini". Augusto Barbera, Arturo Parisi».
Che cosa pensa di Di Pietro?
«È stato un grande pubblico ministero checché se ne dica, un grande poliziotto, ma in politica finora ha fatto tanti danni».
Anche lui ha vinto la lotteria e ha perso il biglietto?
«La lotteria l’ha vinta creando Mani Pulite, di cui è stato l’artefice. Uno dovrebbe cercare di guardare freddamente e oggettivamente a quello che ha fatto. Vale per Di Pietro ma vale anche per me. Non sono mai diventato presidente del Consiglio, va bene… Ma quello che ho fatto io, con tutta sincerità, è una cosa oggettivamente enorme. Posso anche smettere sereno: ho scritto un pezzo di storia».
E Adornato?
«No comment. Punto».
Non mi dica così.
«Preferisco non pensarci. Ha combattuto tanto per creare una sinistra riformista e poi è andato in Forza Italia. Non posso commentare: non lo capisco».
Una volta le erano vicini anche Prodi e Cossiga.
«Mmh».
Adesso?
«Con Prodi ci vediamo. Andiamo molto d’accordo, anche se su qualche cosa abbiamo idee diverse».
E con Cossiga invece?
«Non lo vedo da molto».
Cioè?
«Diciamo semplicemente che non lo vedo da parecchio».
A domanda insistente?
«Risposta insistente: è moltissimo che non lo vedo».
Che cos’è secondo lei l’adulazione?
«Un grande sport nel quale gli italiani sono particolarmente bravi. Come si chiama quello che ha proposto Berlusconi per il Nobel? Più che adulazione, pacchianeria. Come il matrimonio della figlia di Aznar, l’evento più pacchiano del mondo. E Bondi che dichiara che il dramma di Forza Italia è che non tutti la pensano come Berlusconi? Un capolavoro. Bisogna mandare un mazzo di fiori a Bondi e dire che merita la cattedra di Tecnica e Teoria dell’adulazione. Un genio. Mi pare francamente che anche Baget Bozzo abbia delle grandi doti. È votato all’adulazione. Fin dai tempi di Craxi».
Lei riesce a riconoscere gli adulatori?
«A volte è difficile distinguere l’adulazione dal consenso. Siamo presuntuosi, scambiamo manifestazioni di adulazione per manifestazioni di stima sincera».
Lei è stato adulato molto?
«Certamente. E non sempre riuscivo a capire. Nel momento del successo si tende a credere veramente di meritare, di essere diverso dagli altri. Dopo il referendum del ’93, per esempio, mi accorsi che c’era un qualcosa di esagerato».
In fondo, lei come Berlusconi, è circondato dai suoi adulatori.
«Non esageriamo. Il nostro gruppo dirigente non si era formato per far diventare Mario Segni famoso, ma su una linea politica, attraverso scontri e battaglie. Non c’era il pericolo che il gruppo a me vicino diventasse un gruppo di Schifani. Barbera, Occhetto, Arturo Parisi, Pietro Scoppola erano personalità che mi dicevano le cose in faccia anche nei momenti di maggiore successo».
Mentre Berlusconi?
«M’ha raccontato una volta un amico del Ppi…».
Facciamo gli omertosi?
«Guido Bodrato. A cena una sera Berlusconi gli disse: "Ho un grande esercito, non ho generali. Perché non vieni a fare il generale da me?". E Bodrato gli rispose: "Presidente, lei non cerca generali, cerca marescialli"».
Dicono che l’adulazione alligni più a destra, ma poi si indica lo staff di D’Alema come un covo di adulatori.
«Non ho avuto mai rapporti con quello staff lì. Io ho sempre avuto rapporti diretti con D’Alema. Difficili per la verità».
Come mai?
«D’Alema ha un caratteraccio. Ma anche a me non piacciono le boccate d’ossigeno che gli ha fornito quando Berlusconi era in difficoltà. Berlusconi era sceso in campo per paura dei comunisti ed è stato un comunista a salvarlo».
Di lei si è detto che è «ondivago». Forse perché si è messo d’accordo sia con Occhetto che con Fini?
«Ma i referendum sono trasversali con alleanze che vanno da destra a sinistra. Del resto le alleanze non sono la sostanza ma lo strumento della politica. In questo senso il vero ondivago della politica italiana è Bossi. Se vogliamo usare la parola ondivago…».
Vogliamo usare la parola «voltagabbana»?
«Bossi ha sostenuto in vita sua tutto e il contrario di tutto. Vincerebbe l’Oscar dei voltagabbana. È un concentrato di ondivaghezza, accompagnato da una faccia tosta così grande da consentirgli tranquillamente di smentire tutto».
A proposito di ondivaghezza, Tremonti non è stato eletto con il Patto Segni?
«Io le mie lunghe polemiche con Tremonti le ho sopite. Ma non posso dimenticare che fu eletto nel ’94 nelle liste proporzionali del Patto Segni e quindici giorni dopo era già ministro di Berlusconi. Fu una brutta pagina».
Quasi più veloce di Valerio Carrara, che ha abbandonato Di Pietro cinque minuti dopo essere stato eletto.
«Carrara merita un premio speciale alla carriera! Tremonti al suo confronto è un dilettante. Poi ci sono i ballisti».
I ballisti?
«Quelli che dicono: "Io l’ho sempre pensato". Silvio Berlusconi è il principe di questi, ha una straordinaria capacità di vendere una serie di cose diverse da quelle che ha detto poco prima. Dice: "Come vi avevo promesso, non aumento le tasse". Ma lui aveva detto che le diminuiva. Quando ci fu il referendum per il maggioritario nel ’99, fino alla fine sembrava che avessimo vinto. E lui elogiò questa grande conquista. Il giorno dopo si seppe che avevamo perso e lui cantò inni di gioia: "Come ho sempre detto!"».
Quali sono i giornalisti che preferisce?
«Francesco Merlo e Sebastiano Messina. Mi fanno andare in bestia Marcenaro e Guzzanti».
Chi le piace tra gli avversari politici?
«Cofferati è molto preparato. Cossutta è una persona che mi piace moltissimo. Serio, quadrato, convinto delle sue idee, campione mondiale dei non voltagabbana».
E i girotondini?
«Sono un altro mondo rispetto al mio».
E questa Dc frammentata in mille rivoli?
«Nessun dc è riuscito ad entrare nella vera stanza dei bottoni. Il berlusconismo ha travolto tutto».
Nessun commento.