- 20 Ottobre 1998
Ha chiamato suo figlio Blu. Ha chiamato la sua nuova canzone Blu. Ha chiamato il suo nuovo album Blue Sugar. Il 5 novembre invaderà i mercati mondiali, andrà in testa alle classifiche. Tutto previsto. I dieci milioni di album venduti finora da Zucchero Fornaciari diventeranno 11, poi 12, poi 13. Come al solito. I ragazzi di tutto il mondo spenderanno qualcosa come 100 miliardi per non perdersi le nuove undici canzoni di Zucchero. Poi comincerà il tour. Duecento concerti: primo a febbraio, ultimo a dicembre, alle soglie del Duemila. Niente di nuovo. Zucchero è il cantante italiano più venduto al mondo dopo Eros Ramazzotti e Boccelli. “Come sarebbe a dire niente di nuovo?”, si ribella Zucchero. “E’ tutto nuovo. Nei contenuti: ho smesso di piangere mia moglie Angela. Nella musica: è il disco più internazionale che ho fatto. E’ il più rock, il meno rithm & blues. C’è sempre la matrice soul, c’è molto delta del Mississippi, ma c’è anche molta contaminazione moderna, ci sono i Verve, i Radiohead”. Mi armo di finto sguardo intelligente e annuisco.
Parliamo dei contenuti. Ha smesso di piangere sua moglie Angela? Non l’ama più?
Rimane la donna più importante della mia vita. Ma è una parentesi chiusa. Non scriverò più canzoni come “Non ti sopporto più”, “Eppure non t’amo”, “Neppure una donna”, storie di amori tribolati. Sopita la grande passione, sono venute fuori le mie radici, l’Emilia, la mia vita quando avevo 11 anni, la solarità della mia infanzia.
Un album di ricordi.
Una metafora sbiadita. Ricordi di sapori, di colori. Simbolismi. Una ballata di amore e di speranza. Se leggi tra le virgole, i testi hanno continui doppi sensi.
Come quando dice “i miei ricordi di seghe, fossi e rane”?
Sembrano sempre storie d’amore. Ma possono anche essere paesaggi. “Chiara come un bel sole d’inverno”: è una donna? E’ l’Emilia?
Lei abita da una vita in Toscana…
L’Emilia la sento ancora come casa mia. Li ci sono i miei compagni di gioco. Ci sono Marco, Riccardo, Corrado, il toro della Barisella…
Come era lei da ragazzino?
Ero un bambino positivo, un capobranco allegro, forte. Gli altri avevano le crisi mistiche, le depressioni, le grandi domande, chi sono, da dove vengo, dove vado. Io no. Forse ero un poco ritardato.
Neanche una crisi mistica?
A 35 anni. Chi sono, da dove vengo, dove vado? A 35 anni.
Diciamo che era un ragazzino normale.
Pensavo a divertirmi e a suonare. Volevo solo trovare la mia strada. Organizzavo feste. Formavo gruppi musicali, i Duca, i Monatti. Erano i tempi dell’Equipe 84, dei Nomadi, di Mal dei Primitives, di Patty Pravo.
Lei si sente un cantante emiliano?
Come temperamento si. Come scuola no. Io sono lunisiano. Mezzo Lunigiana, mezzo Lousiana. Ma in Emilia c’è amore per il rithm & blues. E’ sempre stata una terra amante della musica di colore e del rock. Vasco. Ligabue. I veri talenti della musica italiana vengono dall’Emilia e da Napoli. Milano e Roma hanno dato meno.
Panella, l’autore di molti suoi testi, dice: “Zucchero canta di epiglottide. La sua non è una interpretazione, è una pronuncia immediata”. Lei capisce?
Forse intende dire che non è importante quello che canto ma che lo canto sotto sforzo emotivo.
Sicuro?
Che ogni volta che canto una canzone è una cosa nuova. Dipende dall’umore.
Sicuro?
Che chi ama la musica che amo io, tipo Eric Clapton, non sta tanto a studiare. Va sul palco e si butta.
E non poteva dirlo così?
Non mi sono mai piaciuti quelli che usano la voce come uno strumento. Tom Waits, Ray Charles, Joe Cocker non hanno una bella voce, ma quando aprono la bocca ti danno delle sensazioni incredibili.
Ricordi dell’Emilia rossa. E’ un disco politico il suo?
Mio nonno, Roberto detto “Cannella”, era un mezzadro che prendeva le botte dai padroni. Mio zio, Enzo detto “Guerra”, era un maoista. Mio padre, Giuseppe detto “Pino”, mi raccontava delle corriere che partivano il sabato per Mosca e tornavano il lunedi mattina. Io sono nato nell’Emilia dei comunisti e sono cresciuto nella Carrara degli anarchici. Ma la politica non mi ha mai interessato più di tanto.
Avrà pur votato…
Non mi ricordo per chi.
Zucchero…
Ho votato Pci, i primissimi anni, poi Pannella. Poi non mi ricordo. Si vota a giugno, quando io sono in tour…
Zucchero…
C’è confusione. E’ difficile schierarsi. La politica non mi arriva.
D’Alema o Berlusconi?
Sono due furbi, tutti e due. Non mi piacciono. Uno con quella sua immagine da manager, camicia blu, abbronzatissimo. L’altro, attento, calcolatore, mai preso da emozioni. Non mi arriva nessuno dei due.
E Prodi?
Era lì e non era lì. E’ stato messo lì ma non era se stesso. Io vorrei qualcuno che ci crede, che fa gli interessi della povera gente. Non come quei cantanti che cantano meccanicamente.
I nostri politici cantano meccanicamente?
Non si fanno prendere dalla passionalità. Tutti tecnici. Manca l’interprete, manca l’improvvisazione. Non mi arrivano.
Ma chi le arriva?
Mi arrivava Sandro Pertini. Mi arrivava papa Giovanni XXIII.
E questo papa le arriva?
E’ un papa forte, sa quello che vuole, non mi dispiace. Se devi prenderlo in quel posto, meglio da uno con le palle.
Lei non ha ottimi rapporti con i preti.
Mio zio maoista quando andava a lavorare nei campi e vedeva don Giovanni che leggeva la Bibbia sul sagrato gli diceva: “Non ho mai visto un prete magro”. Ma io non ce l’ho con i preti, ce l’ho con le istituzioni.
Si è rifiutato di cantare per il papa. A Bologna. E Bob Dilan cantò.
Dissi, scherzando: Vengo se mi fanno cantare “Solo una sana e consapevole libidine libera l’uomo dallo stress e dall’Azione Cattolica”. Successe un putiferio. Mi dissero: anche Bob Dylan si è redento sulla via di Damasco. Io risposi: si è redento sulla via dei 400 mila dollari per tre canzoni.
Confessi: lei è un provocatore.
Ma no. Si trattava di sbruffonate goliardiche. Ma avevano un fondo di verità.
Quand’è che si è reso conto di essere diventato ricco?
Come?
Lei si rende conto di essere ricco?
No. Se uno si rende conto, fa vita da ricco, da star, da Vip. Io faccio la vita di prima. Con qualche comfort materiale di più. Le case. Il mio rendermi conto di essere ricco si traduce in case.
Ma lei è ricco.
Un po’ di soldi, visto che non sono uno sperperone, li ho messi da parte.
Azioni?
Non mi piace la borsa, non ci capisco nulla. Come la gente comune: Bot, Cct.
Ha mai avuto la sorpresa di trovare uno stadio vuoto?
Agli inizi, una balera. C’era un solo spettatore. Che adorava una mia canzone, “Una notte che vola via”. Gliel’ho cantata per un’ora e mezza. Sempre la stessa.
Ha paura della folla?
Ho paura di un Palasport vuoto. La folla mi dà energia positiva. Mi fido della folla.
Come quando alla fine di ogni concerto si lascia cadere a braccia aperte giù dal palco sulla massa dei suoi fans?
Si chiama “Stage diving”. Peter Gabriel lo fa all’indietro. Io in avanti. Loro mi accolgono, mi sorreggono e mi ritirano su. Tranne quella volta a New York, al Beacon Theatre. Accecato dalle luci non mi sono accorto che la folla non era sotto il palco ma a due metri di distanza. Io ho allargato le braccia e lentamente mi sono lasciato cadere.
E i suo fans?
Urlavano come pazzi. Ma come potevo capire?
Che cosa è successo?
Un tonfo terribile. Mi sono rotto tutto. Sembravo il Gatto Silvestro dopo la bomba.
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