- 1 Giugno 2006
Mistero de La7. La televisione fa ottimi programmi, ha personaggi interessanti, fa il talk show più godibile (quello di Daria Bignardi), la trasmissione di approfondimento di cui si parla in continuazione (quella di Giuliano Ferrara), il magazine mattiniero più vivace (quello di Antonello Piroso). Ha personaggi come Piero Chiambretti, Enrico Vaime, Rula Jebreal, Andrea Monti, Gad Lerner. Fino a qualche settimana fa, aveva Aldo Biscardi, il più popolare giornalista sportivo televisivo. Ha dietro di sé il colosso della Telecom di Marco Tronchetti Provera. Eppure fa da sempre ascolti minimi. Mistero. Provo a parlarne con Giulio Giustiniani, giornalista di lungo corso (è stato vicedirettore del Corriere della Sera e direttore del Gazzettino), oggi direttore dell’informazione de La7.
Giulio, perché?
«Intanto conviene aspettare la riforma dell’Auditel, annunciata per l’ennesima volta. I numeri sono piccoli, ma sono in crescita costante. Quando io sono arrivato, quattro anni e mezzo fa, eravamo all’1,3%. Ora siamo al 3,2».
Briciole.
«Probabilmente l’Auditel registra meglio la massa che l’élite. Ma se i telespettatori si pesano e non si contano soltanto, noi andiamo bene».
Se gli spettatori si pesano i pubblicitari dovrebbero essersene accorti.
«La pubblicità è in grossa crescita, ma non arriva ancora a premiarci adeguatamente».
C’è chi sospetta una certa complicità di Tronchetti Provera per non infastidire Berlusconi.
«Per anni è stata una maledizione. I primi tempi circolava la leggenda che io e Tronchetti ci fossimo scelti per ammazzare La7. Non abbiamo mai desiderato di restare piccoli. Cci premeva crescere lentamente, ma in maniera sicura, senza puntare al botto di un solo programma».
A causa dello scandalo del calcio avete perso Biscardi.
«Forse è solo un arrivederci».
Il processo del lunedì era il vostro programma più popolare.
«Una volta. Ultimamente Chiambretti, Piroso e la Bignardi lo superavano spesso. All’inizio Biscardi colpiva perché era l’unico programma consolidato. Poi è arrivato Campo Dall’Orto, il direttore della rete, e le cose sono cambiate. È un tipo geniale anche se un po’ autistico…».
Un po’ autistico?
«È un solitario, vive sognando palinsesti e programmi».
Se lo chiami risponde?
«Se si occupasse un po’ meno di informazione sarebbe perfetto».
La7 è una televisione che fa molta informazione…
«Più di tutte le altre televisioni. Questo è il motivo per cui abbiamo una identità riconoscibile».
A cominciare da Omnibus, all’alba.
«Il merito è tutto di Antonello Piroso, un fuoriclasse. È totalmente privo di pregiudizi. Lascia l’ultima parola a chi guarda, e non impone mai un proprio punto di vista. La7 non fa una televisione pedagogica e militante».
La tua vita.
«Sono nato a Firenze nel 1952 da una famiglia all’antica, cattolici liberali. Mio padre faceva il manager. Era stato iscritto al Partito Popolare in clandestinità, poi aveva strappato la tessera quando tutto era approdato nella Dc».
Il ’68?
«Quasi tutti i miei amici erano di sinistra. Io cercai di mettere su una micro formazione di liberali cattolici che raggiunse la punta massima di 12 aderenti, incluse le nostre ragazze. Ero in una situazione paradossale di affettuoso dissenso dagli amici».
La passione per il giornalismo?
«Da bambino a casa avevo sentito che non bisognava leggere La Nazione perché era piena di porcherie. A dieci anni me ne procurai una copia. Per tre giorni cercai le porcherie. Non le trovai naturalmente ma decisi che avrei fatto il giornalista. Il giornalismo è l’unico mestiere che permette di restare adolescenti tutta la vita».
Il giornalista perfetto?
«Prima le gambe, poi gli occhi e infine la testa. Non si può ragionare su cose non viste. Ormai il giornalismo è fatto di computer, chiacchiere tra colleghi, di telefonate».
Hai diretto per cinque anni il Gazzettino e hai raccontato meglio di tutti il fenomeno della Lega…
«Prima dicevano che ero leghista. Poi mi hanno perfino accusato di aver fatto una scissione nella Lega. Mi arrivavano i proiettili di pistola con le scritte: “Vattene terrone!”».
Bossi ce l’aveva con te.
«Mi faceva telefonate furiose e La Padania mi chiamava l’ingiustiniano. Se racconti le cose come sono, scontenti tutti. Quando su La Nazione feci un’inchiesta su Licio Gelli, e venne fuori che aveva fatto un superbo doppio gioco tra fascisti e comunisti, passò praticamente inosservata perché non serviva a nessuno. Nel giornalismo italiano non conta la verità delle cose, ma l’uso che si può farne».
Alla fine dell’inchiesta il direttore Piazzesi fu cacciato.
«Ed io stetti un anno a non far nulla».
Eppure dicono tutti che sei massone.
«Invece vengo da una famiglia supercattolica: ho in famiglia un santo e cinque beati».
Non vuol dire.
«Non sono mai stato massone. Anche se me l’hanno chiesto una volta. Ma un cattolico non può essere massone».
Tu sei contro la massoneria?
«In una società liberale moderna uno si può iscrivere alla bocciofila, alla massoneria, a qualunque associazione purché rispetti la legge».
La massoneria non sempre la rispetta.
«Allora provvedano i giudici».
Ci sono dei mestieri… il giudice… il giornalista… in cui non sembra opportuno essere massoni…
«I giornalisti non dovrebbero aderire a nessun club. Non dovrebbero frequentare nemmeno i politici. Meglio qualche notizia in meno che creare vicinanze eccessive».
Non ti piacciono i politici?
«Al contrario! Ho la pericolosissima tendenza a capire le loro difficoltà. Criticarli è troppo facile e alimenta il populismo. Abbiamo per cinque anni massacrato Berlusconi e dedicheremo i prossimi a massacrare Prodi. C’è una facile ideologia furente nel giornalista che spara a raffica e poi si guarda allo specchio come a dire: “Gliele ho cantate”».
A me sembra il contrario. Trovo i giornalisti molto teneri e dolci quando intervistano un politico.
«Sono quelli che frequentano i politici. A loro preme più la dimestichezza che la verità».
Il tuo primo articolo importante?
«Mandavo dei pezzi alla Nazione ed un giorno scoprii che ne avevano messo uno in terza pagina. Per me fu uno choc. Avevo 18 anni. Era sul significato dei jeans nel costume italiano».
Hai cominciato nella maniera sbagliata. Dalla testa, non dai piedi…
«È vero. Volevo fare il politologo. Però poi ho fatto la gavetta. Sport, cronaca con quella cosa tremenda di andare a chiedere alla mamma la foto del bambino morto. Una di quelle cose per cui uno si vergogna tutta la vita».
Che tipo eri?
«Ricordo un collega che credeva di essere spiritoso: prendeva il mio cappotto e lo buttava per terra. Poi diceva: “Raccattalo, qui non ci sono persone di servizio come a casa tua”. Io ero timido e impacciato. Se qualcuno entrava nella stanza dove ero seduto, mi alzavo. Molti prendevano in giro questa mia educazione».
Da Firenze a Bologna, al Resto del Carlino. Poi a Milano, al Corriere della Sera. Poi a Venezia, al Gazzettino e quindi a Roma a La7.
«Ma nel frattempo anche a Percoto, in Friuli, da Elisabetta Nonino».
Il tuo grande amore, una delle figlie di Giannola e Benito Nonino, i re della grappa.
«Quando vidi Elisabetta rimasi folgorato».
Eri un noto sciupafemmine.
«Lo sciupato ero io. Ho ritrovato in Friuli quel mondo antico che era anche della mia famiglia. Per certe cose Elisabetta assomiglia a mio padre, i principi non si discutono, quando si parla di tradimento il concetto è semplice, se mi tradisci ti do quattro coltellate, e fine del discorso».
Come definiresti la famiglia Nonino?
«Un clan. Ciascuno è importante, ma nessuno è più importante del gruppo».
Un gruppo capace di cooptare un diverso…
«All’inizio c’era diffidenza. La sera che conobbi Elisabetta ci mettemmo a parlare fitto fitto e le sorelle commentavano: “Che vuole quel vecchio da nostra sorella?”. Giannola, madre friulana protettiva chiese informazioni addirittura a Cesare Romiti, che rispose: “Giustiniani? Brava persona, bravo professionista, però è un donnaiolo, diciamo così”».
Diciamo così?
«Giannola mi convocò e mi disse di stare attento a non far soffrire sua figlia perché mi avrebbe fatto uccidere».
E da quel momento?
«Elisabetta mi prese in consegna. Un giorno si presentò a casa mia con degli scatoloni, cominciò a buttare via tutto e mi rivestì completamente. Una forma di imprinting femminile. Aveva preso possesso di me».
Torniamo a La7. Gira la voce che la Rai vuole portarvi via i migliori.
«Non sarà facile. A La7 si sta bene. Per anni abbiamo lavorato in splendida solitudine. Ora è arrivato anche il successo e con il successo ci piovono addosso una quantità di consigli.».
Dove sono questi consiglieri?
«Anche dentro l’azienda. Tutti mostrano un improvviso interesse che rischia di sconfinare in pressioni o interferenze. A me piace quello… a me piace quell’altro. Un giornalista lasciato serenamente libero rende infinitamente di più di un giornalista oberato di consigli. Non vorrei che La7 diventasse un gioco mondano».
Qual è la televisione che non sopporti?
«È angosciante il pigolio egocentrico: io… io… io. Poi i programmi ruffiani che vogliono conquistare a tutti i costi l’attenzione della gente. C’è chi dice: “Io faccio informazione, ma devo fare anche ascolti. Allora prendo un tema popolare e spettacolarizzo”. Così esce fuori la simil-informazione tipo Cogne. Non sopporto l’ossessione degli ascolti».
Chi sono i politici che non ti piacciono?
«Follini. È un perfetto giornalista. Ossessionato dal riscontro che ha nei giornali. È convinto che non conti tanto quello che fa, ma come si rappresenta».
Dicono che sei un conservatore.
«Ma non lo sono. Per conservare l’essenziale occorre ormai cambiare quasi tutto.Un sacco di gente confonde la buona educazione con la mancanza di passioni e di carattere. Sei pregato di scrivere che studio da bandito ma non ho trovato finora un’occasione meritevole per iniziare la nuova carriera. Ci tengo a dirlo: conservatori sono gli altri».
Chi?
«Per esempio la sinistra che non vuole cambiare. E protegge il mondodei padri a scapito del futuro dei figli».
Per chi voti?
«Il voto più a sinistra l’ho dato a Craxi. Aveva posto bene il tema della modernizzazione della sinistra. Il più a destra al Pli, ai tempi dell’unanimismo consociativo».
Facciamo il governo dei media.
«Primo ministro Paolo Mieli. Contrariamente a quello che pensano tutti Mieli non ama affatto il potere, ne è intellettualmente affascinato. Ministro dell’Economia Ferruccio De Bortoli. È indipendente molto più di quello che pensa Confindustria. Agli Esteri Giovanni Sartori che è stato mio professore. È amico dell’America, ma sa anche criticarla. Alle Comunicazioni lascerei Gentiloni, che non è un giornalista. Mai affidare la Comunicazione a un giornalista. Alle Pari opportunità Lucia Annunziata. È una abbastanza incazzosa. Gli Interni a Giulio Anselmi. A lui si deve la migliore definizione di libertà di stampa: “Liberi sì, ma non c’è bisogno di mettere sempre il sedere davanti ai calci”. Il Mezzogiorno a Francesco Merlo. È un «terrone» critico».
Gioco della torre. Bondi o Baget Bozzo?
«Bondi mi fa tenerezza, è un uomo dolcissimo, di una mitezza totale, assolutamente candido».
Dai una dimostrazione estrema di indipendenza. Dimmi un difetto di Afef e di Tronchetti Provera.
«Tronchetti è più prudente addirittura di me. Afef parla troppo poco con me».
Hai mai votato Berlusconi?
«Ti lascio nel dubbio».
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