- 17 Marzo 2005
Avevo raggiunto Ruggero Guarini, scrittore, giornalista, polemista, uomo di cultura, nella sua bella casa all’ultimo piano di via Ennio Quirino Visconti. Avevamo subito cominciato a parlare con grande complicità tra libri depositati ovunque e continue telefonate. Io domande e lui risposte. Coraggiose, non scontate. Interromperlo era un’impresa. Nei giorni precedenti era stato al centro delle polemiche sulla strage di Primavalle perché era stato lui che aveva contribuito alla stesura del libretto Primavalle: incendio a porte chiuse in cui si era cercato di gettare la colpa sui fascisti. Guarini allora aveva simpatia per l’ultrasinistra. E prima ancora aveva militato nel Pci. Abbiamo parlato veramente tanto, quattro ore, davanti a due registratori, un Sony e un Panasonic, e poi, si era fatto tardi, giù al ristorante, insieme a moglie e cognata, moglie di un giudice di Palermo. Tutti felici e contenti. Sbobino, scrivo, gli mando l’intervista perché gli dia un’occhiata e mi segnali eventuali imprecisioni. Come risposta, mentre il giornale sta per andare in stampa, ricevo il seguente telegramma: «La diffido dal pubblicare l’intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e tendenziosa e comunque non mi ci riconosco. Ruggero Guarini».
Ma allora ho sognato tutto? Probabilmente sì. Capita a noi giornalisti. Una brutta giornata, faticosa, arrivi stanco, credi di parlare con una persona che sa il fatto suo e invece è stanco pure lui. Nessuno dei due è giovane. Insieme facciamo 135 anni. Non mi resta che chiedere scusa e cercare di capire dove ho sbagliato. Perché da qualche parte devo avere sbagliato. Per esempio ricordo di avergli chiesto se era un voltagabbana. «Voltagabbana no. Ritrovagabbana sì», mi sembra che avesse risposto. «Ho ritrovato me stesso dopo una lunga parentesi di offuscamento del mio cuore e della mia intelligenza. Io sono orgoglioso di esser stato comunista. Continuo a meravigliarmi del fatto che i quattro soldi di dottrina che ho racimolato in quegli anni oggi non sono ricordati da nessun postcomunista. Domandate a D’Alema, Veltroni o Fassino che cosa è la caduta tendenziale del saggio di profitto oppure la teoria del feticismo delle merci. Non ne sanno nulla». Lo ricordo, lo ricordo benissimo, anche perché mi vergognai di ignorare del tutto la teoria del feticismo delle merci. Vado a riascoltare il registratore. La sua voce ritorna con nitidezza. Eppure se Guarini dice che l’intervista è tendenziosa, e Guarini è uomo d’onore, ho sognato sicuramente tutto.
Qualcuno dei miei colleghi, quelli duri e puri, mi dirà che ho sbagliato a fargli rileggere l’intervista. È una vecchia diatriba. Ma io ho sempre fatto così e rivendico. L’intervistato ha diritto di fare fino all’ultimo piccole correzioni. Sono circa 250 settimane che mi comporto così e non è mai successo niente. Ma Guarini dice «non mi ci riconosco». Potremmo andare dallo psicologo a risolvere la questione. Dottore, non si riconosce, che facciamo? Ma lo psicologo mi dirà: se non si riconosce non si riconosce. Giusto, la colpa è mia. Ero alterato, ho sbagliato, ho capito male, ho decontestualizzato, ho mutilato, sono stato tendenzioso. Riascolto il registatore. La mia voce che chiede: «Tu sei un berlusconiano». E lui:«Io sono uno scribacchino libero e liberista. Prima di iscrivermi al Pci, avevo già gli elementi culturali che ancora oggi mi orientano nell’interpretazione delle cose della vita. Avevo letto Dostoevskij, Kafka, Thomas Mann, Freud, amavo i miti greci. Sapevo che i movimenti rivoluzionari erano attraversati da rivalità, invidie, furie ideologiche. L’avevo letto nei Demoni». Dio che cultura, avevo pensato. Ed io così ignorante! «Perché ti sei iscritto al Pci, allora?».
«Per il motivo più abietto. Appartenevo a una famiglia in declino. I miei erano divorziati, mia madre continuava a dissipare il suo piccolo patrimonio giocando d’azzardo ma aveva la splendida virtù di non farmi capire che lo splendore delle nostre vite era basato su debiti e su qualche amante che l’aiutava. Io credevo di essere miliardario. Quando capii che non era vero mi trovai solo e cominciai a frequentare amici alla mia portata, artisti, letterati. Tutti più o meno comunisti. Credo di essere l’unico intellettuale medio borghese che confessa che è arrivato alla causa proletaria per le frustrazioni e il risentimento». Caspita, avevo pensato. Questo si che è un uomo. Che autocritica, che capacità di analisi dei propri errori. Eppure tutto questo è falso, Ruggero non ci si riconosce. Dura la vita dell’intervistatore, deve affascinare i lettori, deve accontentare il direttore, deve compiacere l’intervistato. C’ero sempre riuscito finora. Stavolta ho fatto fiasco. Rileggo il telegramma. Dice proprio così: la mia intervista è mutila. Capito? Mutila. Ed è vero. Guarini voleva che parlassi dei suoi molti libri, delle sue traduzioni, della sua intensa vita intellettuale. L’ho ingannato. Ho parlato di politica, di terrorismo, di Lollo, di Sofri. O meglio, ho ascoltato. Lui parlava, parlava, parlava. «Hai letto quelle quattro cose che scribacchio qua e là sui ragazzi di Potere Operaio? Loro e i loro gruppuscoli erano una realtà infernale: riproducevano al loro interno gli orrori del mondo che volevano distruggere. Tu sai che cosa penso del caso Sofri? Lui non ha dato nessun mandato, ma sono sicuro che i tre esecutori del delitto Calabresi, compreso Marino, ritenevano di fare qualcosa di perfettamente conforme alle aspettative di Sofri. Sofri non chiede la grazia perché deve salvare il suo carisma. Non può passare neanche un momento senza pensare di essere capo di qualcosa o di qualcuno. Non vuole perdere la faccia coi suoi alunni». Non si era tirato indietro. «Sofri l’ho incontrato un paio di volte. Ricordo il passo militare, la grinta affettuosa, la vivacità, l’orgoglio, la sicurezza. Poverino, la sua è una tragedia enorme. Vede le sue parole utilizzate come alibi per un crimine. A questo punto la sua già fisiologica attitudine del capetto è peggiorata».
Ve l’ho detto, ho una certa età, ma mi sembra proprio di averlo sentito parlare con una certa partecipazione. Mi sembra addirittura di ricordare che si faceva le domande da solo. «Vorrei che tu mi chiedessi una cosa di cui non ho mai parlato finora: come fui espulso dal Pci». Ed io, diligente: «Come fosti espulso dal Pci»? A questo punto come Guarini fu espulso dal Pci, se non interessa a lui, non interessa a nessuno visto che la mia intervista è mutila e tendenziosa. Ma prima di andare avanti vi debbo una spiegazione: perché ho accettato di non pubblicare l’intervista? Mi sono spaventato per la sua diffida?
Sì, mi verrebbe da dire, mi sono spaventato e così mi tolgo il pensiero. Invece no, non mi sono spaventato. Ma nella vita bisogna a volte fare delle scelte. Io ho fatto la scelta del gran signore. Guarini non si riconosce e fra i diritti inalienabili dell’uomo, a mio giudizio, c’è anche quello alla propria immagine. È giusto che Guarini faccia vedere di sé quello che più gli piace. Certo, c’è il rischio di trasformare la mia attività da giornalistica in pubblicitaria. Se l’intervistato non si riconosce buttiamo? C’è bisogno del suo imprimatur per imprimere il tutto sulle pagine del giornale? Mentre scrivo mando avanti e indietro i registratori, sia il tendenzioso Sony che l’ingannante Panasonic. Ci sono, ci sono, le parole ci sono, le frasi sono quelle. Ma, per la miseria, perché Guarini non si riconosce? E se non si riconosce, com’è il vero Guarini? È quello che parla male di Eco? «Io lo detesto Eco, Opera aperta, Opera chiusa, sempre scolastica è la sua musa. Ha lo stile Bignami. È meno importante di Liala». Quello che parla male di Asor Rosa? «Parla come Cofferati». Quello che parla male di Pasolini? «Ha scritto le poesie più brutte della storia della letteratura italiana». Quello che insulta Andrea Marcenaro («Un fascista caratteriale») e Cacciari («È una sòla, uno che quando scrive cose che si capiscono, sono banalità e quando scrive cose che non si capiscono, sono stronzate»)? Che cosa è successo, ha cambiato idea? Non è possibile. Sono io che debbo cambiare mestiere. O almeno cambiare registatori.
Prima di mandare a me il telegramma Guarini ha inoltrato le sue lamentele anche via telefono. «Perché parlare di Primavalle, che è solo un episodio della mia vita? Perché non parlare della mia attività di scrittore, delle mie traduzioni di Valery e di Basile?». Come dargli torto? È nel suo pieno diritto che la gente venga a conoscenza del valore di letterato di Ruggero. Di nuovo ho sbagliato e lo dico seriamente: perché non gli ho dato subito nome e indirizzo di un buon ufficio stampa? Perché non ho chiuso i due infidi registatori e non me ne sono tornato a casa? Invece gli ho chiesto: «Perché scrivesti il libretto Primavalle: incendio a porte chiuse?»
«Io gli ho dato solo una “spazzolata”. Furono i ragazzi di Potere Operaio, Lanfranco Pace e la sua compagna Stefania Rossini a portarmi il dattiloscritto». Gli ho anche detto: «Nel libretto si gettava la colpa sui neofascisti. Una cosa infame» . E lui ha risposto: ««Ci dividemmo il manoscritto. Una parte se la prese Pasquale Prunas, un’altra Fabio Isman, un’altra Maoloni e un’altra io. Era scritto in un sinistrese indigesto». Io allora gli ho chiesto: «Chi l’aveva scritto?»«Piperno e Pace». «Stefania Rossini sapeva della colpevolezza di Lollo. Ti ha ingannato», ho girato il coltello nella piaga. «Stefania, poveretta, aveva anche un problema di identità sociale, veniva da una famiglia piccolo, piccolo, piccolo borghese, con un padre piccolo, piccolo, piccolo gerarca fascista. È stato il momento del riscatto. Mi ha ingannato ferocemente». «Perché tiri fuori la cosa adesso?» ho insistito io bieco intervisatore. «Perché troppa gente è venuta a dirmi: “Anche tu eri con loro”. Come ti permetti? Ero un vecchio signore di 50 anni. Avevo simpatia per un gruppo di giovani sovversivi con i quali andavo in trattoria, litigavo, giocavo a poker. A casa di Guendalina Ponti. C’era anche il filosofo Paolo Virno».
Possibile che io abbia fatto tutti questi errori? Possibile che dopo anni di onorata carriera, dopo aver intervistato terroristi e malfattori, belle donne e leader politici, attori, cantanti, voltagabbana e adulatori, sia incappato in questo terribile incidente, mettendo in bocca a Guarini cose che distorcono la sua immagine al punto che lui non si riconosce più? Che cosa intendeva realmente dire Ruggero quando mi raccontava la cena con Berlusconi con Cossiga, Confalonieri, Ferrara e Letta a casa di («No! mi raccomando non scrivere a casa di chi»)? «Berlusconi voleva il nostro parere sull’opportunità di scendere in politica. Erano tutti contro. Cossiga disse: “Se mi presentassi io non avrei capacità di aggregazione. Come potrebbe averla lei che non è un politico?”». Tutto ciò tradisce il suo pensiero? Se fossi un malpensante mi verrebbe da sospettare che Guarini si sia un poco pentito, che si sia messo paura. Ma questo non posso assolutamente nemmeno ipotizzarlo.
Abbiamo fatto anche il gioco della torre. Meglio: credo di averlo fatto e con me lo credono anche Sony il mentitore e Panasonic l’infingardo. Guarini dopo aver salvato sia Previti che dell’Utri? («Non sono personaggi che sollecitano il mio sdegno») ha buttato nell’ordine il «cattivo e ottuso» Rutelli, il «bigotto» Fisichella, il «killer» Marcenaro. E alla fine mi ha confessato di essere un latente bisex. O almeno io credo che mi abbia confessato di essere un latente bisex. Perché Ruggero non si riconosce e la mia intervista è mutila e tendenziosa. Tantevvero che mi ha diffidato dal pubblicarla. Ed io, forse perché pauroso, forse perché in dubbio di aver sognato tutto, non posso fare altro che accontentarlo.
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