- 23 Febbraio 2010
Era l’erede di una delle famiglie più in vista della borghesia milanese, i Rizzoli. Figlio di Andrea, nipote di Angelo, lo chiamavano Angelone per via di una stazza piuttosto notevole. A 30 anni era uno degli editori più importanti d’Europa. A 40 anni, travolto dallo scandalo della P2, dalle difficoltà dell’azienda e dallo scandalo del Banco Ambrosiano, finì in galera dove rimase per tredici lunghi mesi.
Ne uscì prosciolto prima ancora del processo. Ma la sua famiglia era ormai distrutta, la moglie Eleonora Giorgi l’aveva lasciato, la casa editrice era definitivamente persa. Con una violenza inaudita la tragedia si era abbattuta su di lui già minato da una malattia terribile, la sclerosi multipla, che minacciava di portarlo velocemente, nel migliore dei casi, su una sedia a rotelle.
Oggi Angelo Rizzoli ha 55 anni. Zoppica leggermente, non usa bene il braccio destro e non vede dall’occhio sinistro. Ma è intellettualmente vivace e fisicamente vitale. Abita in una bella casa romana ai Parioli con stupenda vista su Monte Mario e su Villa Balestra, insieme a Melania, la moglie dottore, e i figli Arrigo e Alberto che si sono aggiunti ad Andrea, il figlio grande avuto da Eleonora. Alle sue cene si possono incontrare spesso politici, giornalisti e manager dei circoli romani, da Del Turco a Diliberto, da Tatò a Gianni Letta, Manzella, Maccanico, Calabrese, Celli, Mentana. Ma Milano, la città che lo vide protagonista, da giovane studente prima e da importante imprenditore poi, è solo un ricordo. Anche Angelo Rizzoli appartiene alla generazione dei cinquantenni. Durante il ’68 aveva 24 anni. Anche lui è uno che non sa invecchiare? Direi proprio di no. Forse è stato un ragazzo viziato dal potere e dalla ricchezza, questo si. Ma oggi appare come un signore che la maturità se l’è conquistata a forza di prendere mazzate. Tutte mazzate targate Milano. Uscito di galera ha fatto le valige e si è trasferito a Roma. Da allora la capitale morale d’Italia l’ha visto solo di passaggio. Rizzoli dichiara di non avere recriminazioni né rimpianti, di avere chiuso completamente col passato, ma a me sembra che dica a se stesso una pietosa bugia. Vicende come la sua non si dimenticano solo perché si decide di dimenticarle.
“Uscito dalla galera”, racconta, “Mi sono trovato in una città nemica. Ero stato punito al di là di ogni mio possibile errore. Un anno di ingiusta carcerazione preventiva e poi il silenzio. Una vita distrutta. Mio padre morto. Mia sorella suicida. In me insopportabili sensi di colpa. In questo contesto la città dove la famiglia Rizzoli per tre quarti di secolo era stata una delle famiglie più importanti e stimate, mi apparve improvvisamente ostile. Nessuno mi voleva più ricevere. Consentitemi un pizzico di malizia: quelli che emisero nei miei confronti i giudizi più duri e più velenosi furono proprio gli imprenditori travolti dieci anni dopo in Tangentopoli.
Quali colpe le attribuivano?
Avevo rovinato l’immagine della grande borghesia milanese finendo in galera. Che fossi innocente, che fossi stato prosciolto, era un dettaglio.
Eppure eravate molto popolari a Milano. Per la casa editrice, per la Cineriz, per l’Istituto Rizzoli, per i Martinitt, per il Milan di Schiaffino e di Rivera.
Fino al giorno prima del mio arresto c’era la coda di gente che voleva farsi ricevere. Dal giorno dopo, nessuno si era più fatto vivo. Per questo ho lasciato Milano.
Da chi in particolare si è sentito abbandonato?
Da tutti. Fare un nome sarebbe particolarmente odioso. Gente che mi conosceva da bambino mi fece sapere che sarebbe stato imbarazzante farsi vedere con me.
Arrivò a Roma senza arte né parte, come si dice. Come si è ripreso?
Con l’aiuto di mia madre. Con grande coraggio si è spogliata di tutto quello che aveva per consentire ai suoi figli di superare quel momento difficile. Ma devo molto anche a Silvio Berlusconi.
Che cosa ha fatto?
Mi ha detto: “Smettila di affliggerti e di disperarti. Cerca di cancellare il passato con cose nuove”.
Solo parole?
No, no. “Tu fai i film e io te li compro”, mi disse. E così è stato ed è tuttora.
Anche aiuti concreti? Soldi?
Tutte le volte che su un progetto, su un programma, su un contratto, io ho avuto bisogno di un suo intervento, lui me lo ha sempre garantito senza alcuna contropartita e anche con molta efficienza e rapidità.
Un amico.
Berlusconi non è un pescecane come la maggioranza degli imprenditori italiani. Non ha il loro cinismo. E’ uno che crede nell’amicizia. E’ generoso. Ha aiutato una persona finita, un “dead man walking”, un morto che camminava, , unicamente per simpatia umana. “Attento”, io gli dicevo. “Come hanno fatto fuori me possono fare fuori te”.
E lui che cosa le rispondeva?
Diceva: “Tu eri un ragazzino, io sono più strutturato”. Nei suoi confronti si era messa in moto la stessa macchina da guerra che aveva massacrato me.
A lui è andata meglio.
Perché ha avuto l’idea brillantissima di salvarsi con la politica. Io non ci ho pensato. Comunque anche io non posso lamentarmi. Ho incontrato mia moglie, dieci anni fa, mi sono sposato, abbiamo messo al mondo due figli. Sono un uomo sereno. Mia moglie è una donna estremamente positiva e mi è stata di grande aiuto. I miei tre figli mi danno grandi soddisfazioni. Il lavoro in questo momento mi va bene. Sono molto diverso dall’uomo di 20 anni fa: poco per chi è stato il presidente della Rizzoli e del Corriere della Sera. Ma molto per un ex carcerato.
Che cosa ricorda di Milano? Che cosa faceva, per esempio, nel ’68?
Avevo 23 anni. Avevo finito Scienze Politiche a Pavia. Eravamo un gruppo di quattro amici. C’era Roberto Cacciaguerra, un ragazzo straordinario di grandissima ingenuità e curiosità. Con lui sono stato in Medio Oriente e in India, quando viaggiare era ancora considerato quasi un’avventura. Lui andò anche sette mesi in Vietnam. Era l’unico dei miei amici che aveva un ruolo nel Movimento Studentesco. Era sempre elegantissimo e inappuntabile, anche quando partecipava alle assemblee. I compagni lo chiamavano “Il principe”. Aveva rinunciato a una vita agiata per andare a vivere in una comune. E’ morto l’anno scorso di tumore. E’ morto anche l’altro amico, Paolo Cazzaniga.
Nome famoso.
Era figlio del presidente della Esso. Era un ragazzo di grandissima vitalità, il migliore in tutti gli sport, grande velista come tutti noi ma anche grande sciatore. Entrò in crisi quando scoppiò il ’68, quando le qualità che venivano apprezzate non erano quelle fisiche e sportive. Oggi, negli anni Novanta, sarebbe uomo di grande successo. Allora soffriva molto di non avere nulla dell’intellettuale.
Il terzo amico chi era?
Era Carlo Scognamiglio, Carlino, il più tetragono dei nostri amici, determinato a fare il professore universitario ma anche altre cose, come poi è riuscito a fare.
Politicamente che cosa eravate?
Roberto era un marxista leninista. Paolo assolutamente agnostico. Carlino un moderato. Poi si avvicinò ai socialisti e divenne anche collaboratore di De Michelis. Io ero repubblicano, iscritto al partito.
La borghesia milanese era piuttosto a destra…
La destra reazionaria sanbabilina non l’ho mai frequentata. Tronchetti Provera, per esempio, lo conoscevo ma non eravamo amici.
Tronchetti Provera era liberale. Me lo ha raccontato Chiara Beria nella sua intervista.
L’ho letta l’intervista di Chiara. Quando uno arriva ad avere successo, come Tronchetti Provera, anche certe posizioni ambigue o comunque non definite del passato, vengono rimosse. I fratelli Tronchetti Provera erano di destra, erano dei sanbabilini e io proprio per quello non li ho mai frequentati. Comunque i figli della borghesia milanese erano anche di sinistra e di estrema sinistra. Molti di noi cercavano seriamente di capire che cosa stesse succedendo. E davamo anche una mano. Quando qualcuno veniva arrestato io mi adoperavo per farlo uscire, aiutarlo, far avere assistenza e aiuto. Quando sono stato arrestato io l’unico che mi è venuto a trovare è stato proprio Mario Capanna. Mi disse: “Caro Angelo, ti restituisco il favore”.
Che tipo di vita conducevate?
Andavamo spesso a casa di Marco Zanuso dove si sentiva parlare per la prima volta di problemi civili, politici, sociali, di terzo mondo. Così cominciavamo a capire che l’ambiente cristallizzato della borghesia milanese era una immagine falsa della realtà, che oltre Milano c’erano mondi più appassionanti, tumultuosi, drammatici.
La generazione dei cinquantenni era in qualche modo eccezionale?
Milano era una città culturalmente morta, con un borghesia quasi feudale nel suo immobilismo. La nostra generazione ha cercato di cambiare le cose, non soltanto sotto il profilo politico ma soprattutto su quello della rivoluzione dei costumi. E’ stata una generazione curiosa e colta.
Il ‘68 su di lei ha influito?
Noi fino a 24 anni eravamo quasi dei bambini. Le ragazze della buona borghesia milanese dovevano rientrare alle 11,30. Se tu le portavi in ritardo trovavi il padre fuori col bastone, come è successo a noi.
Racconti.
Eravamo io, Carlino, Roberto e Livia Smecchia che in seguito avrebbe sposato Paolo Cazzaniga. Il padre era un conte austriaco. Aveva detto: “Portate mia figlia a casa alle 11,30”. Noi andammo al Santa Tecla, uno dei primi locali notturni di Milano in cui si suonava jazz. La riportammo a casa a mezzanotte e un quarto. Sulla porta di casa Smecchia vedemmo il conte austriaco in vestaglia che aspettava con in mano una mazza da golf. Mollammo la figlia e lui venne verso di noi per prenderci a mazzate. Riuscimmo a salvarci con una grande sgommata.
Che cosa è secondo lei la coerenza?
Mantenere fede ai propri pensieri e ai propri stati d’animo. Nessuna immagine rimane immobile nel tempo, però io non credo allo stravolgimento completo. Non credo che da destra si possa passare a sinistra, che ci si possa infilare in tutte le operazioni che portano al potere.
Ce ne sono parecchi.
La maggior parte.
Ma prendiamo Mario Capanna. E’ rimasto coerente.
Lui si. Ma ci sono altri per i quali il ‘68 è stato soprattutto un’opportunità per andare alla ribalta e rimanerci.
Un esempio.
Molti giornalisti. Come quelli del gruppo di Lotta Continua: sono rimasti in posizioni di primo piano pur cambiando fronte. Questo è successo anche in rivoluzioni più serie come la rivoluzione francese. Marat è stato giacobino e terrorista poi termidoriano, uno dei consoli e uno di quelli che hanno consegnato la Francia alla dittatura di Napoleone.
Lei si è fatto una fama di fanciullone scapestrato, ville, yacht, aerei, donne.
Io sono stato viziato da ragazzo perché appartenevo ad una delle famiglie più ricche di Milano. Però l’aereo era di mio padre. Io l’ho soltanto usato. Lo yacht era di mio nonno. Io avevo una piccola barca a vela. Queste accuse me le rivolse Tassan Din per preparare il personaggio da bruciare.
Si è mai spiegato come mai la tragedia si sia abbattuta così pesantemente su di lei?
Tutto è cominciato dalla nomina di Alberto Cavallari a direttore del “Corriere della Sera”. Io non lo volevo. Volevo Ronchey.
E allora perché nominò Cavallari?
Me lo chiese fortemente il presidente Pertini.
E lei perché cedette?
Ero in una situazione di grande difficoltà per lo scandalo P2.
E poi?
La nomina di Cavallari non piacque ad alcune persone. Due mesi dopo mi chiesero di allontanarlo e di liquidare Tassan Din. Tassan Din non ce l’avevo messo io. Rappresentava il garante dei crediti bancari ed era stato imposto da Roberto Calvi che era il nostro maggior creditore.
Chi le chiese di licenziare Cavallari e cacciare Tassan Din?
Giovanni Spadolini, presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro Andreatta.
Le piaceva Cavallari?
Non particolarmente. Era un uomo dal carattere molto difficile, nevrotico. Quando io dovetti ammettere che non potevo mandare via Tassan Din e Cavallari, il mondo politico iniziò una serie di azioni ostili nei miei confronti. Le banche ritirarono i fidi, il prezzo dei quotidiani rimase bloccato mentre il prezzo della carta continuava a salire vorticosamente.
Fu allora che a lei venne l’idea di iscriversi alla P2?
Prendo a prestito da Tayllerand: “E’ stato peggio di un delitto, è stato un errore”.
Un errore mica da poco.
Tutti i Grandi Maestri della Massoneria, Gamberini, Salvini, Battelli, Corona, mi avevano assicurato: “Stia tranquillo si tratta di una loggia perfettamente regolare”.
Ma perché si è iscritto?
Ero completamente digiuno di contatti politici. Iscrivermi alla massoneria – mi dissero – mi avrebbe facilitato. Era descritta come una specie di circolo elitario. A Roma Gelli era conosciuto da tutti. E tutti, segretari di partito, ministri, tutti mi dissero: è una persona straordinaria, è bravissimo, se ne fidi.
Chi le diceva questo?
Nella Dc tutti, nel Psi tutti, nel Psdi tutti, nel Pri e nel Pli molti.
E nel Pci?
Nel Pci nessuno. Noi avevamo difficoltà con le banche alle quali era stato suggerito di non finanziarci più. Nei giorni precedenti al Natale del 1975 incontrai Gelli nello studio dell’avvocato Ortolani,
in via Condotti. Trovai ad aspettarlo il direttore generale della Banca Nazionale del Lavoro, il presidente della Banca Commerciale, il direttore generale del Monte dei Paschi, il presidente del Banco Ambrosiano. Tutti col regalino di Natale.
Parterre de roi.
Sembravano i Re Magi con il bambinello. Io avevo 30 anni. Queste persone non ero mai riuscito a vederle nonostante mi chiamassi Rizzoli. Le trovai tutte insieme in fila per omaggiare Gelli. Ebbi la sensazione di trovarmi davanti a un potere reale. Questo mi convinse.
E quando andava all’Excelsior?
Ci andavo un paio di volte all’anno. C’era la hall piena di questuanti eccellenti.
Chi per esempio.
Nella hall o fuori della hall li ho incontrati tutti. Tranne i comunisti tutti.
Me ne dica uno che ci sorprenderebbe.
Non glielo posso dire.
Ma c’è qualcuno che ci sorprenderebbe?
C’è qualcuno che ancora oggi mi dice: “Grazie per non avermi nominato. Lei è un galantuomo”.
Un politico?
Più di uno.
Come agiva Gelli?
Diceva a un politico: “Fai avere dieci miliardi a questa impresa. Loro poi ti daranno 500 milioni”.
Lei ha dato molti soldi ai partiti?
Come tutti gli imprenditori.
Quando?
Tutte le volte che dovevo fare qualcosa e che mi veniva risposto: “Questa cosa la puoi fare a seconda di quanti soldi ci darai”. Tenga conto che per 36 mesi con l’inflazione galoppante abbiamo avuto il blocco del prezzo dei quotidiani.
Che però è stato poi sbloccato.
E come crede che sia stato sbloccato?
Mi lasci indovinare. Pagando.
Siamo riusciti a sbloccarlo solo pagando.
Quanti soldi ha dato ai partiti?
Una ventina di miliardi.
Come avveniva il pagamento?
In occasione dell’aumento del prezzo del quotidiano ci furono chiesti 500 milioni dall’allora ministro dell’Industria. Io mi rivolsi al presidente della federazione degli editori dei giornali e agli altri editori di quotidiani importanti per chiedere come avremmo potuto quotarci. Si decise che noi avremmo pagato 400 milioni. E un altro gruppo editoriale avrebbe pagato gli altri 100 milioni. Una persona venne a casa mia a ritirare i soldi. Io avevo una valigetta Gucci con dentro 500 milioni.
La classe non è acqua.
Lui arrivò con una busta di plastica del supermarkent.
Appunto.
Prese i soldi, si accorse che nella busta di plastica non ci stavano e mi disse: “Mi dia anche la valigetta”. E così si portò via i 500 milioni e la valigetta di Gucci. Nota a parte: quando io fui indagato ed arrestato è emerso chiaramente che noi avevamo dato solo 400 dei 500 milioni. Ma sugli editori che avevano dato gli altri 100 milioni la magistratura non ha mai indagato. Oggi lo chiameremmo doppiopesismo.
Qual è il suo network? Quali sono i suoi amici?
Mio nonno Angelo ha avuto Pietro Nenni come compagno di tutta una vita. Lo mantenne sempre, lo finanziò, lo aiutò quando Nenni dopo la guerra si trovò ad essere isolato. Fu un amicizia di 50 anni. Io non ho più rapporti di questo genere.
Non è strano?
L’amicizia è un sentimento nel quale è meglio non investire. Ti viene concessa solo se non chiede sacrifici.
Lei era amico di Craxi.
Io ero e sono amico di Claudio Martelli. Craxi come tutti i socialisti deriva da un rapporto che la mia famiglia ha avuto per decenni con quella parte politica. Nenni, Craxi, Mancini: in qualche modo il Psi è stata una eredità del nonno che diceva sempre: “Non dimenticate i socialisti”.
Lei era amico dei Leone.
Li ho frequentati nel periodo durante il quale stavano al Quirinale.
Amicizia fra giovani gaudenti, si diceva. Notti folli.
Ho avuto sicuramente qualche storia con attricette di Cinecitta che in quel momento frequentavano il Quirinale. Tenga conto che noi eravamo anche Cineriz. Quindi io ero un punto di attrazione per queste attricette. E avevo 28 anni. Vedo che ancora oggi tutti gli importanti finanzieri e politici cinquantenni che vivono qui a Roma hanno storie d’amore con lo stesso tipo di attricette. Avrò fatto notti gaudenti. Ma avevo l’età giusta per farlo.
Le fa impressione il fatto che il suo nome non le appartiene più?
Io farò di nuovo la Rizzoli mettendo insieme tutte le mie società che oggi svolgono attività in campo audiovisuale. Dopo 15 anni mi iprenderò il mio nome. Nel Duemila ci sarà di nuovo la Rizzoli.
Ha mai avuto la voglia di tornare a fare l’editore?
L’editoria è la mia passione. Il modo stesso in cui sono uscito dalla mia casa editrice mi spinge a cercare non dico una rivincita che sarebbe impossibile ma almeno un ritorno. Quando ci sarà l’opportunità lo farò.
Ci ha già provato?
Sono stato a un passo dal comprare la Giorgio Mondadori, a un anno fa. Stavo chiudendo la trattativa quando è arrivata l’offerta di Urbano Cairo che era altissima ed io ho dovuto arrendermi.
Se lei dovesse tornare a fare l’editore che cosa sceglierebbe?
Editoria specializzata di nicchia e quotidiani locali a basso costo e a bassa tiratura.
E’ mai passato in via Angelo Rizzoli?
Una sola volta. Fu un’emozione enorme. Mi trovavo davanti a qualcosa che si chiama Rizzoli, ha sede in via Angelo Rizzoli, è stata costruita da Angelo Rizzoli ed io mi chiamo Angelo Rizzoli.
Le piacerebbe tornare in via Rizzoli da proprietario?
Lo sogno sempre. Ma Holderlin diceva: “L’uomo è un dio quando sogna e un pezzente quando riflette”. Quando rifletto sulla situazione mi rendo conto che è impossibile e mi metto il cuore in pace. Non tornerò mai più a Milano. Mai più in via Rizzoli.
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Roberto Cacciaguerra non e andato a vivere in una comune per sua scelta, ma perche Ettore nostro padre venne a sapere che mandava il suo autista a distribuire i volantini del partito.poi andava dal sarto e metteva tutto sul conto. Poi il colpo finale ma questa e un altra storia.