- 9 Settembre 2004
Rivoluzionario. Operaio. Muratore. Scrittore. Alpinista. Io sono «numeroso», ha detto una volta Erri De Luca, 54 anni, oggi semplicemente autore di libri di successo e arrampicatore di difficili vie dolomitiche. Cominciamo da rivoluzionario. Quando, come, perché? Dice: «Ero di Lotta Continua e Lotta Continua era un movimento rivoluzionario. Era un movimento che credeva nelle possibilità rivoluzionarie dell’Italia anni Settanta e che agiva di conseguenza».
Lotta Continua si sciolse nel 1976. Tu andasti a fare l’operaio. Altri cominciarono la loro carriera. Chi nei giornali, chi nell’industria, chi nelle televisioni.
«No, il grande blocco di quelle decine di migliaia che eravamo è rimasto lì, inapplicabile alla vita civile, inutilizzabile per i poteri. Inservibile. Tanti anni di antagonismo ci avevano reso intrattabili e inassimilabili. Molti si sono demoliti con le droghe, altri sono entrati nelle formazioni armate. Ma la gran parte sono rimasti lì, nei mestieri che facevano, insegnanti, operai».
Marcenaro, Rinaldi, Liguori, Lerner, Capuozzo, Briglia, Pietrostefani, Sofri, Ravera, Deaglio «operai»?
«Alcuni sono riusciti a entrare in un circuito di visibilità e di rappresentanza. Ma sono quelli che numericamente, nelle analisi organolettiche, vengono chiamati “tracce”. Zero virgola zero zero zero zero uno».
E la grande parte, il nove virgola nove nove nove nove?
«Sono rimasti lì dove erano, senza fare né carriera né fortuna. Desaparecidos, politicamente assenti. Quelli che sono al potere oggi sono quelli che erano latitanti ai tempi di Lotta Continua. Disertori».
Tracce, dici tu. Ma tracce molto visibili.
«Tracce fastidiosamente visibili».
E sono andati dovunque. A destra, a sinistra?
«Io non faccio tanta differenza tra il dovunque di Liguori e quello di Deaglio».
La scelta di Deaglio sembra più coerente.
«Per me non fa differenza se uno va con i socialisti e l’altro con i democristiani».
Tu hai continuato ad avere rapporti con quelli di Lotta Continua?
«Ho rapporti con un mucchio di compagni che vengono da lì e che nessuno conosce. Più a lungo di questi militi ignoti ho avuto rapporti con Ovidio Bompressi. Siamo stati amici per la pelle».
Le tue origini sono borghesi o proletarie?
«Un misto. La mia era una famiglia borghese impoverita dalla guerra. Abitavamo in un quartiere popolare di Napoli. Un’infanzia da bambino povero col fastidio di essere comunque un privilegiato, uno che a sei anni andava a scuola invece che a lavorare, che non andava scalzo, che in classe non era rasato a zero per via dei pidocchi, che parlava italiano e non napoletano».
Amori napoletani?
«Nessuno. Napoli mi ha dato altri sentimenti, le collere, le vergogne, lo schifo, le commozioni. Sentimenti fondanti, di quelli che ti attrezzano il sistema nervoso».
Ad un certo punto hai mollato tutto.
«Me ne sono andato a 17 anni, come un evaso, non sapevo niente di quello che c’era fuori, non sapevo che esisteva una generazione che si stava muovendo, ci sono finito dentro per cooptazione perché era lì, era in mezzo alle strade».
Cos’è che ti soffocava a Napoli?
«La scuola, la città, la presenza degli americani, tutte le persone che incontravo mi volevano vendere qualche cosa in napolamericano, non ne potevo più».
Hai lasciato Napoli e?
«Sono andato a Roma. Facevo il fattorino, il fotografo, vivevo in una camera ammobiliata. Cominciavano le prime manifestazioni, le prime battaglie di strada, le prime questure, le prime amicizie».
Come avvenne l’incontro con Lotta Continua?
«Eravamo un gruppetto spontaneo. Una cinquantina di agitatori, agitati, agitanti. Andavamo ad occupare case sfitte, portavamo l’elettricità nelle case, lottavamo contro l’Enel. Ci chiamavamo Gruppo Agitazione Operai Studenti, Gaos. Ad un certo punto decidemmo che ci piaceva Lotta Continua e dicemmo: siamo noi Lotta Continua a Roma. Venne Mauro Rostagno e ci disse: va bene, siete Lotta Continua».
Chi c’era con voi?
«Ricordo Paolo Ramundo e Mimmo Cecchini che poi è il marito di Stella, la sorella di Adriano Sofri».
C’era anche Paolo Liguori.
«Straccio. Era un bravissimo capo, uno a cui piaceva parlare e che ci sapeva fare, era un capo naturale. Era ambizioso e Lotta Continua lo mortificò. Venne Pietrostefani a Roma e lo sbatté a fare il militante davanti all’Alfa Sud di Secondigliano».
Pietrostefani che tipo era?
«Il peggiore di tutti. Come persona e come atti. Non mi è mai piaciuto e gliel’ho sempre detto in faccia. Ha sfruttato la sua posizione di potere dentro Lotta Continua in modo borghese».
Tu diventasti capo del servizio d’ordine di Lotta Continua di Roma, un servizio ai limiti della legalità?
«No, no. Un servizio completamente dentro all’illegalità. Lotta Continua era tutta illegale, l’illegalità era la pratica diffusa».
Spiegati meglio.
«Proteggere dei latitanti era illegale, scontrarsi con le forze dell’ordine era illegale, fabbricare delle bottiglie incendiarie era illegale».
Quante molotov hai fatto?
«Eravamo una bella fabbrica in piena produzione».
Con la connivenza dei benzinai?
«I benzinai erano tutti amici nostri. E noi eravamo dei clienti robusti».
Giravate armati?
«Tutta la nostra attività era una attività armata».
Tipo pistole?
«Noi le avevamo sì: facevano parte della necessità della presenza in piazza contro i fascisti e nei cortei. Dopo il ’75 è diventata pratica comune».
Tutti armati?
«No, quelli autorizzati, solo quelli autorizzati».
Perché molti di Lotta Continua raccontano il loro passato cancellando tutto questo?
«Si dissociano, dalla loro storia, dall’evidenza. E io li perseguito ricordandogli i dettagli».
Che cosa succede quando li perseguiti ricordandogli i dettagli?
«Gli guasto qualche momento di digestione. Poi gli passa, gli passa».
Hai fatto qualcosa che se ti avessero beccato ti avrebbe portato in galera?
«Come tutti».
Non sto parlando di molotov.
«Come tutti, come tutti. Abbiamo condiviso il peggio di quel tempo. Le azioni di quell’epoca erano a nome e a titolo collettivo. Non è che ci fossero militanti innocenti ed esecutori colpevoli. Non c’erano dirigenti ignari e dirigenti mandanti. Per questo ho scritto che molte persone sono in prigione o in esilio a scontare anche per me. E finché per qualcuno c’è uno strascico penale io non sono in pace con quel passato».
Un colpo di spugna su cose così pesanti? Ci sono stati dei morti.
«Da tutte le parti ci sono stati dei morti».
Ma alcuni non volevano combattere: se ne stavano pacifici a vivere la loro vita.
«Anche le vittime delle stragi se ne stavano pacifici a vivere la loro vita. E quelli che li hanno ammazzati sono tranquilli al posto loro. Da una parte impunità e dall’altra punizioni?»
Quando Lotta Continua, al congresso di Rimini, fu sciolta, tu eri d’accordo?
«No, per me era una diserzione».
Lo scioglimento di Lotta Continua ha frenato o favorito il passaggio di molti alla lotta armata?
«Molti mi chiedevano il da farsi. Nel mio piccolo, avendo avuto la responsabilità di alcune centinaia di militanti del servizio d’ordine di Lotta Continua di Roma, la mia scelta di non ficcarmi dentro una banda armata ha risparmiato delle conseguenze penali e penose a molti compagni».
E le armi che fine hanno fatto?
«Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare».
Dove le avevate rimediate le armi?
«E che domande? La mia risposta sarebbe da collaboratore di giustizia».
Le avevate comprate? Le avevate rubate?
«Lotta Continua non comprava niente, non faceva acquisti».
C’è qualche slogan di cui ti sei pentito?
«Avevo un rapporto un po’ delicato con le parole, per me le parole avevano un peso, un significato e dovevano trasformarsi in atti, per cui tutti gli slogan esagerati io li tacevo, non li pronunciavo».
Alle assemblee parlavi?
«All’inizio ero un introverso. Poi ho imparato. Quella era una scuola che insegnava a parlare ai muti. Comunque non mi piacevano gli interventi lunghi. Quando avevo detto il necessario mi fermavo».
Anche adesso non sei un grande parlatore. Ma quando parli le polemiche sono automatiche.
«Non piace ai reduci che io dica che Lotta Continua era un organismo rivoluzionario. O che dica: “Ognuno di noi avrebbe potuto uccidere Calabresi”».
Tu avresti potuto uccidere Calabresi?
«Ma certamente. Quando dico noi, includo anche me».
Sei stato fortunato.
«Magari non ero a Milano, non ero nel gruppo delle persone che hanno realizzato quell’attentato».
L’ultima che hai detto è: «Vi diremo la verità quando ci restituirete i corpi di Sofri e di Bompressi».
«No. Quella è stata un’utile semplificazione tanto per fare un po’ di casino come è abituata a fare, attraverso i titoli, la tua professione».
Dacci l’interpretazione autentica.
«Si potrà parlare di quegli anni quando non ci saranno più prigionieri. Quando saremo tutti liberi potremmo sapere la verità su Calabresi».
Fai capire che sai chi ha ucciso Calabresi.
«Io questa frase non l’ho pronunciata. Se lo avessi voluto dire lo avrei detto».
Tu lo sai chi ha ammazzato Calabresi?
«Preferisco non risponderti. Non mi sento libero di parlare di questo».
C’è il pericolo di mandare qualcuno in galera?
«Anche: ne parleremo quando non avrà più rilevanza penale».
«Sapere chi ha ammazzato Calabresi è importante».
«Questo Stato lo ha già stabilito una volta per tutte. Chi è il mandante, chi l’esecutore. Lo Stato sta già a posto per Calabresi, come per Moro, ma quello che si vuole sapere, ed è una curiosità sana, è qualcosa di più sulle motivazioni, su quello cui la verità giudiziaria non può attingere: la verità storica, una verità che racconti le ragioni dei vinti».
Tutti vogliono fuori Sofri.
«Non è vero affatto. Alla gran parte degli italiani non gliene frega niente».
Anche Sofri se l’è presa con te.
«Non sono in buoni rapporti con Sofri, da molto tempo, dai tempi della Bosnia. Lui era favorevole ai bombardamenti. Ma io non voglio polemizzare con lui».
Vincino ha scritto che non hai mai fatto un giorno di galera dei tanti che avresti meritato.
«Ha ragione. Noi tutti eravamo meritevoli di molti giorni di galera. Lui compreso».
Per chi voti?
«Non voto. Finché ci sono dei prigionieri e degli esiliati in giro, per i reati politici del 1900, io non voto».
Molta gente non vota.
«Perché vede troppa omogeneità. Rutelli vale Berlusconi. Anzi, vale di meno».
Chi è che ti piace a destra?
«Nessuno».
E a sinistra?
«A sinistra c’è un caso misterioso, l’affare Cofferati. Un incidente di percorso che rimane oscuro a noi italiani. Non si capisce cosa sia successo tranne il fatto che uno invece di diventare capo della sinistra di opposizione è diventato sindaco di Bologna».
Il ’68 è stato una sconfitta per il Paese?
«L’Italia aveva bisogno di quella febbre e di quella gioventù rivoluzionaria per innescare la sua democrazia. Poi siamo andati al macero, ma in fabbrica, nelle carceri e nelle caserme abbiamo contribuito a conquistare cose importanti».
Avresti potuto scegliere la lotta armata?
«Avrei potuto, sì, ma guarda che noi non facevamo una lotta disarmata. La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica».
Tu hai scritto a Bompressi una lettera che pubblicò Micromega. E dicevi: «Tu sei estraneo, ma non innocente».
«Nessuno di noi era innocente. Siamo tutti corresponsabili di quello che è successo in quegli anni».
Ma molti si autoassolvono. Dicono: bisogna considerare il contesto.
«Sono contrario alla giustificazione del contesto. È come se quello che ho fatto me lo avessero fatto fare gli altri. No, quello che ho fatto l’ho fatto in piena consapevolezza e senza nessun trascinamento».
Tu hai mai fatto una rapina?
«Sono stato accusato di averle fatte. Non so quante me ne ha attribuite Marino».
Più di quelle che hai fatto?
«Dai Claudio!».
[…] Insomma, andatevela a leggere. Brividi. QUI […]